lunedì 31 agosto 2020

PRIMO SETTEMBRE: GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA PER LA CURA DEL CREATO


Con uno spirito del tutto ecumenico- il primo settembre - si celebra questa Giornata. Molte le iniziative in programma nel Tempo del Creato fino al 4 ottobre, festa di san Francesco d’Assisi
di Benedetta Capelli – 
Città del Vaticano

Celebrare il Creato, pregare perché sia rispettato nel suo essere disegno di Dio ma anche agire secondo nuovi stili di vita improntati a buone pratiche, lavorare perché i danni inflitti al pianeta con ripercussioni innegabili sui più poveri siano al più presto sanati. La Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato porta in sé questo spirito che unisce le Chiese in un unico respiro. Ieri Papa Francesco all’Angelus ha ricordato l'importante appuntamento:
Da questa data, fino al 4 ottobre, celebreremo con i nostri fratelli cristiani di varie Chiese e tradizioni, il Giubileo della Terra per ricordare l’istituzione, 50 anni fa, della Giornata della Terra.
Dal 2015 il Papa ha istituito per il primo settembre la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato. Un momento per riflettere sulla casa comune, grazie anche alla Laudato Si’, l’Enciclica pubblicata 5 anni fa. Riflettere su quanto il pianeta sia in pericolo e su quanto le disuguaglianze sociali siano aumentate anche a causa dello sfruttamento indiscriminato delle risorse che hanno creato sacche di povertà in tanti angoli del mondo, generando difficoltà di accesso all'acqua, alterando gli ecosistemi presenti.
Una celebrazione in piena pandemia
La Giornata cade in un momento in cui si la pandemia di coronavirus non accenna a fermarsi. In molti Paesi il lockdown ha fatto riscoprire il potere del Creato e allo stesso tempo il virus ha mostrato tutta la debolezza dei modelli economici vigenti, spesso indifferenti alla cura della Casa comune. Papa Francesco, nell’ultima catechesi dell’udienza generale dedicata alla pandemia, ha ribadito la necessità di ripensarsi come “amministratori dei beni, non padroni”:
“Se ci prendiamo cura dei beni che il Creatore ci dona se mettiamo in comune ciò che possediamo in modo che a nessuno manchi, allora davvero potremo ispirare speranza per rigenerare un mondo più sano e più equo”
Della pandemia come “chiamata a rispettare la Casa comune” parla, nel suo messaggio per la Giornata, la Caritas Internationalis che ribadisce come il virus abbia mostrato le fragilità di sistemi sociali ingiusti. Da qui l’auspicio di “nuove forme di solidarietà” per rispondere all’emergenza sanitaria con “la pandemia dell’amore”.
Una posta in gioco importante
Una Giornata ecumenica che anche altre Chiese celebrano. Nel suo messaggio, Bartolomeo I Patriarca ortodosso di Costantinopoli sottolinea che “la minaccia” all’ambiente non viene colta in tutta la sua importanza eppure “la posta in gioco non è più la qualità, ma la conservazione della vita sul nostro pianeta”. Stiamo assistendo, elenca, “alla distruzione dell'ambiente naturale, della biodiversità, della flora e della fauna, all'inquinamento delle risorse acquatiche e dell'atmosfera, al progressivo collasso dell'equilibrio climatico” e ad altri eccessi.
Riconoscere questi giorni come un'occasione per celebrare la ricchezza della fede è l’opportunità riconosciuta in questa Giornata dalla Conferenza delle Chiese europee CEC e dal Consiglio delle Conferenze episcopali europee CCEE. “È tempo di ripensare tanti aspetti della nostra vita assieme, dalla coscienza di ciò che più vale alla qualità delle relazioni sociali ed economiche”: scrivono i vescovi italiani per l’occasione. “Troppo spesso – aggiungono - abbiamo pensato di essere padroni e abbiamo rovinato, distrutto, inquinato, quell’armonia di viventi in cui siamo inseriti, sostengono. Si tratta di quell'"eccesso antropologico di cui parla Francesco nella Laudato Si’”. Un cambio di passo è quindi necessario e urgente e il Papa lo aveva già scritto nella sua Enciclica al numero 53
“I gemiti di sorella terra, che si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo, con un lamento che reclama da noi un’altra rotta. Mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli. Siamo invece chiamati a diventare gli strumenti di Dio Padre perché il nostro pianeta sia quello che Egli ha sognato nel crearlo e risponda al suo progetto di pace, bellezza e pienezza”




MATTARELLA: LA SCUOLA RISORSA DECISIVA PER LA COMUNITA'


Mattarella: «La comunità della scuola è risorsa decisiva per il futuro della comunità nazionale »

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato nel 150° anniversario della nascita di Maria Montessori la seguente dichiarazione:
“Maria Montessori nasceva centocinquanta anni fa, a Chiaravalle. La sua umanità, i suoi studi, la sua coraggiosa esperienza di educatrice, hanno impresso un segno profondo nelle scienze pedagogiche e indicato orizzonti nuovi per la scuola, a beneficio di milioni di giovani in ogni parte del mondo, che hanno potuto e saputo accrescere in piena libertà la loro personalità.
Proprio negli anni più duri del Novecento Maria Montessori è riuscita a infrangere antichi pregiudizi, dimostrando la irragionevolezza di metodi di insegnamento basati sull’autoritarismo e contrastando pratiche di emarginazione ai danni di chi era sofferente o veniva considerato diverso, aprendo la strada a un percorso di crescita dei bambini basato sulla piena espressione della loro creatività, nella formazione responsabile alla socialità.
Il suo “metodo” ha varcato le frontiere e, nel suo nome, tantissime educatrici ed educatori, ragazze e ragazzi, hanno conferito alla scuola un valore di crescita nella conoscenza che, accanto al sapere letterario e scientifico, abbia lo sguardo rivolto allo sviluppo integrale della personalità degli alunni.
La vita di Maria Montessori è stata anche simbolicamente una storia di libertà, di intelligenza, di creatività femminile. Sono tante le insegnanti, le educatrici, le operatrici scolastiche che continuano oggi a impegnarsi con la medesima passione.
La comunità della scuola è risorsa decisiva per il futuro della comunità nazionale, proprio in quanto veicolo insostituibile di socialità per i bambini e i ragazzi: ne comprendiamo ancor più l’importanza dopo le chiusure imposte dalla pandemia. Esempi come quello di Maria Montessori esortano ad affrontare efficacemente le responsabilità di questo momento difficile.”




IL DITO ACCUSATORE


“Quando un uomo punta il dito accusatore contro qualcuno, dovrebbe ricordare che le altre quattro dita sono dirette a sé stesso”.
                                                                                                                    Louis Nizer


Questo monito piuttosto incisivo è di un noto avvocato americano che è anche scrittore, Louis Nizer. 
L’emblema del dito accusatore è una componente essenziale del panorama morale, nel bene e nel male. 
Da un lato, infatti, c’è la coraggiosa denuncia del Battista. 
Egli non teme, nel silenzio timoroso e complice dei sudditi, di puntare l’indice contro il re Erode Antipa dichiarando: «Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello» (Marco 6,18).
 D’altro lato, c’è l’ipocrita denuncia fatta contro l’adultera da scribi e farisei, che Gesù riesce a ritorcere contro la loro coscienza falsa: «Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra contro di lei» (Giovanni 8,7).
Ecco, allora, la necessità di fissare l’attenzione su se stessi prima di ogni accusa, ricordando quelle quattro dita piegate verso il proprio io e le sue miserie. 
Ancora una volta è illuminante Cristo col celebre detto della pagliuzza nell’occhio del fratello e della trave conficcata nel nostro. Vorrei a questo proposito che si meditasse un’altra battuta che merita attenzione. 

L’ho trovata in un’opera dello scrittore colombiano Nicolas Gomez Davila (1913-94): «L’uomo preferisce discolparsi con la colpa altrui piuttosto che con la propria innocenza». 
Quante volte, infatti, ci sentiamo sereni e superiori a chi riteniamo più colpevole di noi, dimenticando che il vero confronto dev’essere tra la colpa e quell’innocenza che in realtà anche noi non abbiamo.



(G. Ravasi, Breviario laico)

MARIA MONTESSORI, A 150 ANNI DALLA NASCITA


A centocinquanta anni dalla nascita di Maria Montessori, la neuropsichiatra infantile ideatrice di uno dei sistemi educativi più noti e adottati in migliaia di scuole nel mondo, ’gioca’ ancora e sempre di più con i suoi bambini.

Maria Tecla Artemisia Montessori nacque a Chiaravalle (AN) il 31 agosto 1870 e nella sua vita svolse attività di educatrice, pedagogista, medico, neuropsichiatra infantile, filosofa e scienziata italiana. In Italia, fu una tra le prime donne a laurearsi nella facoltà di medicina.
Divenne famosissima nel mondo grazie al famoso metodo educativo per bambini che prese il suo nome, ovvero il “Metodo Montessori”. Questo metodo inizialmente fu utilizzato in Italia, ma a breve fu adottato in tutto il mondo, ed ancora oggi le scuole montessoriane vengono preferite ad altre.
Figlia di Alessandro Montessori e Renilde Stoppani vide però come figura da seguire lo zio Antonio Stoppani.
Antonio Stoppani era un abate e scienziato e cercava da sempre di dimostrare la convivenza tra fede e scienza.
La giovane Maria Montessori ebbe nell’abate Stoppani il punto di riferimento per l’avvio agli studi e per la conoscenza dell’epoca. Dalla madre invece ricevette un sostegno costante alle sue idee innovative ed verso alcune scelte troppo futuristiche per l’epoca.
Per lavoro il padre si trasferì a Firenze e decise di portare con sé tutta la famiglia, compresa la figlia Maria. Dopo essere stati per poco a Firenze decisero di spostarsi nuovamente, questa volta a Roma sempre a causa di esigenze lavorative del padre.
Gli studi di Maria Montessori
A Roma, Maria iniziò la scuola dimostrando grandissimo interesse verso le materie letterarie, un po’ meno verso quelle prettamente scientifiche come la matematica. In questo periodo studiò francese e pianoforte, tuttavia fu costretta ad abbandonare quest’ultimo anche a causa della rosolia che le rubò forze e tempo.
Nello stesso periodo decise di iscriversi alla Regia Scuola Tecnica Michelangelo Buonarroti di Roma (attuale ‘Istituto Leonardo da Vinci’).
Maria aveva una intelligenza fuori dal comune e divenne subito tra le prime dieci allieve della scuola.
Diplomatasi con una valutazione di 137/160 iniziarono i primi scontri con il padre. Quest’ultimo vedeva nella figlia un futuro da insegnante, ma le idee del padre si mal conciliavano con gli interessi di Maria. Lei era sempre più indirizzata alle scienze biologiche.
Dovette abbandonare l’idea di iscriversi al corso di Medicina poiché riservata esclusivamente agli studenti del Liceo Classico.
Decise quindi di iscriversi alla facoltà di Scienze e dopo due anni di trasferirsi alla facoltà di Medicina.Riuscirà a laurearsi brillantemente in questo corso di studi, risultando così la terza donna a ottenere questo risultato accademico.
I primi momenti con i bambini
La Montessori manifestò immediatamente un interesse precoce nei confronti dei bambini con maggiori difficoltà, frequentando quindi assiduamente i quartieri più poveri di Roma ed informandosi sempre maggiormente sugli argomenti di igiene medica.
Decise quindi di specializzarsi in neuropsichiatria infantile dedicandosi in maniera assidua alle ricerche in laboratorio. Si concentrò in modo particolare proprio sui batteri e le malattie presenti nei quartieri più poveri di Roma che aveva precedentemente frequentato.
L’emancipazione femminile e la nascita del figlio
Maria ebbe molto interesse nel combattere l’emancipazione femminile. Partecipò così al congresso a Berlino nel 1896, totalmente finanziato dalle donne di Chiaravalle, sua città natale.
Partecipò anche al congresso a Londra cinque anni dopo.
Nel 1988 otterrà l’incarico di direttrice della scuola ortofrenica di Roma, grazie al brillante intervento nel congresso pedagogico dello stesso anno a Torino.
In queste occasioni conoscerà anche Giuseppe Montesano, con il quale si legherà moltissimo tanto da avere un figlio, Mario.
Maria Montessori decise però di partorire il figlio di nascosto e di affidarlo ad una famiglia laziale, finanziando però sempre le spese per l’istruzione.
All’età di quattordici anni Maria comparirà nella vita di Mario facendogli credere di essere una zia. Riuscirà ad ottenere l’incarico di tutore legale grazie alla morte improvvisa della precedente famiglia.
Nel 1907 a San Lorenzo, Roma, aprì la prima Casa dei Bambini.
Durante un congresso in America nel 1913 verrà presentata come la donna più interessante d’Europa ed i suoi metodi divennero modelli mondiali nell’istruzione dei bimbi di tutte le idee.
Gli anni del fascismo
Con la comparsa del ventennio fascista in Italia Maria Montessori venne accusata di legami con il regime. In realtà a Maria non interessavano minimamente le idee fasciste ma collaborava con quest’ultime solo per arrivare al suo fine ultimo: la costruzione delle Casa dei Bambini in modo da poter tirare fuori i fanciulli dalla strada. Sotto questo aspetto soventi sono le critiche mosse nei suoi confronti, che devono essere assolutamente rivalutate.
Nel 1926 organizzò il primo corso di formazione nazionale che preparava gli insegnanti ad utilizzare il suo metodo. Inutile dire che fu un vero e proprio successo con oltre 180 insegnanti provenienti da tutt’Italia per poter apprendere le idee al dir poco rivoluzionarie.
Saranno proprio queste però a costringerla ad abbandonare l’Italia nel 1934. Sempre negli stessi anni verranno chiuse tutte le scuole che insegnavano secondo il suo metodo sia in Italia che in Germania.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si trova con il figlio in India. Qui fu internata in quanto proveniente da un paese nemico.
Riuscirà a tornare nella sua amata Italia solamente nel 1946 per poi trasferirsi da degli amici nei Paesi Bassi.
Le venne inoltrata la formale richiesta nel 1951 di riformare l’ordinamento scolastico del Ghana. A causa dell’età Maria sarà costretta a rifiutare.
Il 6 maggio del 1952 morì a Noordwijk, nell’Olanda meridionale.




domenica 30 agosto 2020

UN IMPEGNO COMUNE PER LA SALVAGUARDIA DEL CREATO


Bartolomeo I: non c’è progresso fondato sulla distruzione della natura

Nel suo Messaggio per la Giornata di preghiera per la salvaguardia del creato del primo settembre, il Patriarca ortodosso ecumenico è netto: biodiversità distrutte ed equilibrio climatico al collasso richiedono un’azione comune di singoli e governi, "lo sviluppo economico -scrive - non può rimanere un incubo per l'ecologia”

di Alessandro De Carolis – Città del Vaticano

La domanda che arriva a metà messaggio fa fermare e riflettere: “Per quanto tempo ancora la natura sopporterà le discussioni e le consultazioni infruttuose e ogni ulteriore ritardo nell'assunzione di azioni decisive per la sua tutela?”. È una domanda che non è possibile aggirare e su cui il Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I impernia il suo messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato del prossimo primo settembre.
Un imperativo categorico
La domanda è preceduta da una disamina improntata al realismo: “È convinzione condivisa – scrive Bartolomeo I – che, nel nostro tempo, l'ambiente naturale è minacciato come mai prima d'ora nella storia dell'umanità” e l'entità della minaccia è resa evidente, afferma, dal fatto che “la posta in gioco non è più la qualità, ma la conservazione della vita sul nostro pianeta”. Stiamo assistendo, elenca, “alla distruzione dell'ambiente naturale, della biodiversità, della flora e della fauna, all'inquinamento delle risorse acquatiche e dell'atmosfera, al progressivo collasso dell'equilibrio climatico” e ad altri eccessi. Un complesso di situazioni, osserva Bartolomeo I, che dimostra come “l’integrità della natura” sia “imperativo categorico” per l’umanità contemporanea. E che tuttavia non viene colto nella sua importanza a tutti i livelli.
L'illusione della natura "autorigenerante"
Mentre a livello personale, di gruppi e organizzazioni viene in risalto una “grande sensibilità e responsabilità ecologica”, non altrettanto accade – rileva il Patriarca di Costantinopoli – se lo sguardo si sposta sugli amministratori della cosa pubblica. “Nazioni e operatori economici non sono in grado - in nome delle ambizioni geopolitiche e dell'"autonomia dell'economia" - di adottare le decisioni corrette per la protezione del creato”, è la constatazione del Patriarca ortodosso, e anzi coltivano “l'illusione” che “l'ambiente naturale abbia il potere di rinnovarsi”.
Non più incubo
La crisi del Covid, afferma, ha invece dimostrato l’incidenza dell’attività umana sul creato, con il calo di inquinamento registrato durante il lockdown. Dunque, è la convinzione di Bartolomeo I, se l’industria di oggi, i trasporti, il sistema economico basato sulla “massimizzazione del profitto” hanno un “impatto negativo sull'equilibrio ambientale”, un “cambiamento di direzione verso un'economia ecologica costituisce una necessità incrollabile. Non esiste un vero progresso fondato sulla distruzione dell'ambiente naturale”. “È inconcepibile – asserisce ancora – che si adottino decisioni economiche senza tener conto anche delle loro conseguenze ecologiche. Lo sviluppo economico non può rimanere un incubo per l'ecologia”.
Chiesa, "ecologia applicata" 
Nella parte finale del messaggio, Bartolomeo I ricorda il grande impegno del Patriarcato ortodosso per i temi ecologici e il bisogno di collaborare a tutto campo in questo senso. In fondo, conclude, “la vita stessa della Chiesa è un'ecologia applicata. I sacramenti della Chiesa, tutta la sua vita di culto, l'ascesi e la vita comunitaria, la vita quotidiana dei suoi fedeli, esprimono e generano il più profondo rispetto per il creato”.







sabato 29 agosto 2020

PENSARE SECONDO GLI UOMINI?


XXII DOMENICA 

DEL TEMPO  ORDINARIO 

2020






 Mt 16, 21-27

Dal Vangelo secondo Matteo
https://liturgia.silvestrini.org/podcast/archive/gcloud/vangelo_41_A_0.mp3



In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va' dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?  Perché il Figlio dell'uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».


Commmento di don Lucio Gridelli
Il vangelo della domenica XXII è la continuazione di quello della domenica precedente in quale Gesù affermava che sul pietra che è Pietro edificherà "la sua assemblea".
Il vangelo odierno ha tre affermazioni chiarissime e durissime.
La prima, diciamo così, è teologica: il Messia, morirà, risorgerà.
La seconda è il rimprovero a Pietro: Tu non pensi secondo Dio, ma second gli uomini.
Terza: Se qualcuno vuole venire dietro a me, se vuoi essere cristiano, devi seguire la strada di Cristo , la sua croce e misegua.
I Sinottici (Mt, Mc e Lc) concordemente riportano tre annunci di passione, morte e risurrezione. Questo è il primo. Dopo il secondo annuncio gli evangelisti notano tristezza, perplessità, incomprensione da parte di tutti i discepoli e paura di interrogare Gesù. Dopo il terzo neppure reazioni.
È più facile accettare Gesù come Messia, il Figlio di Dio, che non accettare l’idea del Messia sofferente!
Questa volta è Pietro a reagire negativamente, facendosi forse portavoce degli altri.
“Satana” (ebraico e aramaico) non è necessariamente il nome del diavolo. Significa avversario, guastafeste, colui che mette il bastone fra le ruote.
“Skandalon” (greco) è qualsiasi cosa contro cui uno inciampa e cade. Nel NT l’uso è esclusivamente metaforico per designare qualcosa che rende difficile la fede.
Il fatto che tutto ciò sia posto subito dopo il conferimento del mandato a Pietro è senza dubbio sorprendente. Non sono i meriti personali alla base delle scelte di Dio.
È importante la motivazione del rimprovero: non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini.
La seconda lettura lo dice con molta chiarezza sotto forma di esortazione.
Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. … il vostro modo di pensare, …. Cambiare il modo di pensare è la metanoia che l’italiano traduce con “conversione”, confondendo un po’ le idee a chi non è esperto del linguaggio.
Avevamo letto anche domenica scorsa:
O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore?
 Il discorso di Gesù prosegue passando dalla sua vicenda terrena alla nostra personale:
Se qualcuno vuol venire dietro a me,  rinneghi se stesso, prenda la sua croce  e mi segua.
La croce, viene a dirci Gesù, è una componente essenziale della vita cristiana, come lo è stato nella sua vicenda personale. Certo, non a tutti capiterà di incontrare le stesse difficoltà. Il Signore non pretende da nessuno più di quanto sia capace, col suo aiuto, di affrontare, ma ciascuno di noi dovrà condividere una parte della passione di Gesù. Tutto questo non spiega il mistero del dolore, ma dice che il dolore umano ha un significato e un valore.
Sia chiaro, però, la croce non è un fine, la croce è soltanto un mezzo. Il fine della vita cristiana è la gioia. Questa è la meta alla quale ci chiama Gesù: la partecipazione eterna alla gioia infinita di Dio.
Alla fine della vicenda terrena di Gesù c’è la resurrezione. Se noi “seguiamo” Gesù nelle vicende terrene, lo seguiremo pure nella risurrezione.
La chiave di lettura di tutto il discorso è l’amore. Quando sono innamorato di una persona, non c’è ostacolo che possa impedirmi di seguirla, dovunque.
Perdere e salvare: nel nostro linguaggio potremmo dire meglio “mettere in gioco”, “rischiare”, mettere in gioco la propria vita, rischiare la propria esistenza.
La nuova traduzione rende sempre yuch non con “anima” ma con “vita”. Si tratta cioè di salvare o perdere se stessi, la propria persona.
 Della seconda lettura vi faccio notare ancora una importante precisazione sul “culto”:
Vi esorto a offrire i vostri corpi (meglio la vostra persona, voi stessi) come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.
Non ci devono essere nella nostra quotidianità dei momenti sacri e dei momenti profani, dei momenti dedicati a Dio e dei momenti riservati a noi. Quando sono vissuti con fede, tutti i momenti sono nostri e tutti gli stessi momenti sono di Dio.
Culto spirituale non contrapposto a materiale, ma vero culto, culto animato dallo Spirito.
Dovremmo vivere così la nostra assemblea liturgica domenicale secondo quanto ci suggerisce una delle esortazioni che segnano il passaggio dall’offertorio alla preghiera eucaristica:
Pregate, fratelli e sorelle, perché portando all’altare la gioia e la fatica di ogni giorno, ci disponiamo a offrire il sacrificio gradito a Dio.
 La prima lettura oggi è molto più della semplice introduzione al vangelo. Per questo le dedico ampio spazio.
Geremia ci introduce bene nello spirito di questa domenica con un brano delle sue “confessioni”.
Ricordiamo che Geremia è “tipo”, cioè “profezia vivente”, di Gesù. La realizzazione certo supera di molto il “tipo”!
Geremia, più di altri profeti, parla molto di se stesso, rivela il suo intimo nella sue “confessioni” (11,18-20; 15,10-11.15-21; 17,14-18; 18,18-23; 20,7-18). Se voleste leggerle per intero, e fareste molto bene, tenete presente che siamo nell’AT, che vige ancora la legge del taglione e che il profeta si esprime con assoluta sincerità in momenti di grande tensione.
 Il brano segue l’intervento di Pascur, sacerdote e sovrintendente del tempio, che, uditi alcuni oracoli del profeta, lo fa fustigare e per una notte lo mette ai ceppi, e inizia l’ultima sezione delle celebri “confessioni di Geremia”
Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso.
I vocaboli vanno intesi tranquillamente nel loro significato attuale.
Dio lo obbliga ad annunziare calamità e miserie (“Violenza, oppressione” 6,7) mentre gli uomini lo ricoprono di derisione e di scherno.
 Geremia oggi ci interpella in prima persona.
Noi, che ci consideriamo cristiani non poi tanto male, abbiamo alle volte questo atteggiamento: Signore sono un buon cristiano, lavoro per te, magari anche un po’ come piace a me, son disposto a fare anche qualcosa di più, ma, ti prego, “non sedurmi” Signore, non chiedermi cose troppo oltre la normalità!
… perché correttamente intuiamo che, una volta che ci lasciassimo prendere, ci accadrebbe come a Geremia: nel mio cuore c’era come un fuoco ardente che non potevo contenere!
Allora però correttamente dovremmo risvegliare la nostra fede nel fatto che il Signore non ci chiede cose al di sopra delle nostre forze e che insieme con la sua richiesta manda anche gli aiuti, le “grazie”, per realizzarla.
Non ha senso una fede in Cristo senza la croce. Questo è il messaggio della domenica.
 Quando stavo per spedire il messaggio ho avuto un momento di dubbio sulla frase finale. È assolutamente esatta, ma può dare un’impressione negativa. E allora ho pensato di spiegarmi con un paragone.
Una dell cose che amo di più, e che per i limiti posti dalla vecchiaia mi mancano di più, è la montagna e in particolare l’arrampicare.
Per raggiungere una cima impegnativa non metto in conto rischi e fatiche e nemmeno momenti di paura.
E’ per raggiungere quella vetta sulla quale mi attende a braccia aperte Gesù in persona.


SICUREZZA A SCUOLA

EFFICIENZA CIOÈ FIDUCIA


di ROBERTO CARNERO

Del fatto che le scuole debbano riaprire a settembre, i primi a essere convinti sono gli insegnanti. E da insegnante da sempre iscritto a un sindacato – la Cisl –, ho provato un un certo stupore nel sentire la ministra dell’Istruzione Luciana Azzolina denunciare nei sindacati, dunque nella rappresentanza ufficiale degli insegnanti, una volontà di «sabotaggio» della riapertura. Mi sembra, anzi, che sia proprio il contrario: come testimoniava, su queste stesse colonne il 20 agosto, l’appassionato intervento di Annamaria Furlan, che della Cisl è segretaria generale, al sindacato sta a cuore una vera, efficace ripartenza. Che sin dall’inizio della pandemia il corpo docente abbia mostrato senso di responsabilità e, direi, generosità è sotto gli occhi di tutti. La didattica a distanza nei mesi del lockdown non era un 'obbligo di servizio' (non essendo prevista da alcuna norma contrattuale), ma quasi nessuno si è sottratto. Più che un ragionamento burocratico (qualcuno potrebbe dire 'sindacale') sui diritti e sui doveri, è prevalso il senso civico, la volontà di non interrompere un servizio pubblico essenziale come l’istruzione, nella consapevolezza della sua importanza sul piano sociale, educativo, psicologico per i ragazzi. Anche gli insegnanti meno esperti nelle nuove tecnologie si sono attrezzati molto in fretta, mettendosi alla prova in un’esperienza inedita. E, entrando virtualmente per la prima volta nelle case dei loro alunni, sono stati visti all’opera dai genitori, nonni e parenti di questi ultimi. Così le famiglie hanno potuto apprezzare da vicino, come non era mai capitato prima, il lavoro degli insegnanti.
Tuttavia, credo che in pochi ritengano davvero che la didattica a distanza possa essere la nuova frontiera dell’insegnamento. Abbiamo provato tutti la mancanza del contatto diretto e di quanto di insostituibile in esso c’è. Per questo è importante tornare fisicamente a scuola. Ma come? I sindacati mettono in luce una questione che non può essere elusa: la sicurezza. Non solo quella – mi si passi il termine – della 'utenza' (cioè degli studenti), ma anche quella del 'personale' (chi a scuola lavora: docenti, collaboratori scolastici, amministrativi).
L’avvio nei giorni scorsi dei test sierologici per il personale scolastico è un primo, importante punto di partenza. Ma il discorso non può fermarsi qui. Sappiamo che l’età media dei docenti italiani – che si aggira attorno ai 50 anni – è tra le più alte dei Paesi europei. E sappiamo anche che con l’aumentare dell’età aumenta il rischio di un decorso severo della sindrome da Covid-19. Il primo problema è quello degli spazi. Anche ammesso che si riescano a distanziare gli studenti di un metro l’uno dall’altro, in edifici vetusti quali sono la maggior parte dei plessi scolastici italiani manca qualsiasi impianto di ricambio dell’aria. In un’aula in cui non c’è ricambio d’aria (salvo lasciando aperte le finestre, cosa che si può fare però finché le temperature esterne lo consentono), «il distanziamento di un metro non serve a nulla»: così, con efficace chiarezza, il professor Andrea Crisanti, il virologo dell’Università di Padova che in questi mesi abbiamo imparato a conoscere come uno degli esperti più autorevoli.
Perciò, con le finestre chiuse, l’uso della mascherina (che tante polemiche sta suscitando nei partiti d’opposizione) sembra davvero il minimo. Proprio per l’impossibilità di reperire, nonostante gli sforzi, spazi adeguati, in molte scuole verrà proposta una forma di didattica mista: in parte in presenza, in parte a distanza. Ebbene, laddove si dovesse fare lezione a distanza, dovrebbe essere consentito ai docenti di attivare i collegamenti dalle proprie abitazioni, così evitando loro i rischi connessi agli spostamenti con i mezzi pubblici, che anche in virtù della ripresa della scuola saranno più affollati.
Invece alcuni dirigenti premono affinché queste lezioni si svolgano da scuola, con nessuna altra ragione se non quella di mettere in atto una forma di 'controllo a vista' dei dipendenti, che tradisce una concezione vecchia e obsoleta del ruolo dirigenziale. Inoltre, sempre a garanzia della salute del personale, questa forma di smart working andrebbe valorizzata per le cosiddette «attività funzionali all’insegnamento» (collegi docenti, consigli di classe ecc.), attraverso riunioni telematiche che possono agevolmente sostituire quelle in presenza. È quanto avviene, per impegni analoghi, negli altri comparti della Pubblica Amministrazione e in molte aziende del settore privato: non si comprende perché ciò non possa avvenire per la scuola. Efficienza vuol dire anche fiducia in chi dà anima alla scuola. Che il sindacato si preoccupi di questo tipo di questioni, allo scopo di proteggere la salute dei lavoratori, non sembra affatto scandaloso. È anzi doveroso: è proprio il 'minimo sindacale'.
Roberto Carnero




MIGRANTI. CHE NE FACCIAMO?

SI NAVIGA "A VISTA"

di Giuseppe Savagnone *

L’Ordinanza del presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci che sancisce l’espulsione dei migranti e chiude loro i porti dell’Isola – Ordinanza poi impugnata dal governo nazionale, con la motivazione che «la gestione del fenomeno migratorio è competenza dello Stato e non delle Regioni», e in seguito sospesa dal Tar –, ha suscitato, come prevedibile, un vespaio di polemiche, riattualizzando la contrapposizione su questo delicato tema tra “destra” e “sinistra” (a livello politico) e tra sostenitori e oppositori di papa Francesco (all’interno della Chiesa).
Per una riflessione pacata
L’esperienza insegna, purtroppo, quali falsificazioni della realtà possano essere perpetrate quando si discute di immigrazione, sotto la spinta di stati d’animo esasperati e di interessi di parte. Da qui l’opportunità di provare a fare una riflessione pacata, volta, prima che a sostenere una tesi o l’altra, ad avviare un confronto civile, degno di una società democratica e di una comunità ecclesiale. Questo non vuol dire che io non abbia un mio punto di vista (chi segue i miei “chiaroscuri” dovrebbe saperlo), ma che desidero tenere conto anche di quello degli altri, senza affrettarmi a catalogarli sotto questa o quella etichetta offensiva, come oggi si usa fare.
Una rabbia comprensibile
La prima considerazione che mi viene in mente è che la rabbia del presidente Musumeci è comprensibile. Nell’hotspot di Lampedusa sono stipate da giorni 1.400 persone, a fronte di una capienza massima di 192. Questo mentre altri sbarchi si susseguono.
Si aggiunga a questo la gravità della situazione sanitaria. Il virus non lo portano certo gli immigrati. Il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Franco Locatelli proprio in questi giorni ha chiarito che, «a seconda delle Regioni, il 25-40% dei casi sono stati importati da concittadini tornati da viaggi o da stranieri residenti in Italia. Il contributo dei migranti, intesi come disperati che fuggono, è minimale, non oltre il 3-5% sono positivi e una parte si infettano nei centri di accoglienza dove è più difficile mantenere le misure sanitarie adeguate».
Sgombrato il terreno da questa bufala, instancabilmente alimentata dagli organi d’informazione (?!) di “destra”, resta vero che, nelle condizioni disumane in cui i migranti vengono trattenuti, non solo i contagi tra loro sono più facili, ma negli hotspot si verificano sempre più spesso disordini e tentativi di fuga che ne rendono meno controllabile la diffusione, con pericoli anche per la popolazione del territorio.
La latitanza del governo
Di fronte a questo inferno, non è stato solo Musumeci a protestare per la scarsa incisività delle istituzioni nazionali. «Il governo» – ha denunciato il sindaco di Lampedusa – «continua ad affrontare il problema come se fosse una situazione ordinaria, mentre il Presidente del Consiglio dovrebbe assumersi la responsabilità di quanto accade».
Si ha effettivamente l’impressione che, al di là di qualche intervento occasionale, manchi un piano organico, da parte dello Stato, per fronteggiare la situazione. Così come continua ad essere assente, dopo tanti discorsi, una rigorosa pianificazione a livello europeo. Né si possono certo addebitare queste carenze all’emergenza, visto che di questa crisi si parla ormai da anni.
Ma è anche per i migranti che ci si preoccupa?
Tuttavia – ed è questa una seconda considerazione che mi si impone – , leggendo l’ampia premessa con cui si apre l’Ordinanza, si ha la netta impressione che a motivarla non sia stata la legittima preoccupazione per le condizioni disumane in cui i migranti vengono a trovarsi, ma il fatto che la loro tragica situazione «incide in modo significativo e allarmante sul rischio concreto di diffusione del contagio» e la convinzione che «deve essere tutelata l’incolumità e la salute di tutti i cittadini siciliani».
Anche se poi, nelle sue dichiarazioni, Musumeci ha cercato di correggere il tiro, l’Ordinanza non nasce da una logica umanitaria, ma da una visione egoisticamente regionalistica. Come conferma il fatto che essa non si pone minimamente il problema della sorte degli espulsi: dice solo che essi  «devono essere improrogabilmente trasferiti e/o ricollocati in altre strutture fuori del territorio della Regione Siciliana».
Prospettiva locale e prospettiva nazionale
Si potrà osservare che non è compito del presidente di una Regione affrontare il problema nel suo complesso. Ma è proprio questo che il governo e i sostenitori dell’illegittimità del testo normativo hanno obiettato. La politica dell’accoglienza non può essere gestita dai poteri locali – come già in altre occasioni essi hanno preteso di fare – con uno sbrigativo «fuori dai piedi» o l’equivalente «ovunque, tranne che da noi». Se non altro perché una giusta distribuzione è possibile solo in una logica nazionale, che ne stabilisca ragionevolmente, in rapporto alle diverse situazioni territoriali, le modalità.
Un’eclatante ambiguità: il rinnovo dell’accordo con la Libia
Resta il fatto che, alla base di questa situazione sbagliata non c’è solo l’improntitudine del presidente della Regione Sicilia, ma prima di tutto l’incapacità del governo di proporre un progetto serio per la gestione dell’accoglienza e dell’integrazione di migranti.
Quella di questi giorni non è l’unica occasione in cui lo si è visto. Ai primi di febbraio si è lasciato che scattasse la proroga automatica, per altri tre anni, senza sostanziali modifiche, del memorandum Italia-Libia, in base a cui il nostro Paese ha finanziato generosamente la Libia perché bloccasse con tutti i mezzi – compresi i lager e le violenze della guardia costiera sui naufraghi – le partenze verso le nostre coste.
Il vero Salvini è stato Minniti
Le indignate denunzie della “sinistra” contro le prese di posizione di Salvini nei confronti dei migranti hanno oscurato il fatto che quell’accordo era stato firmato dal governo Gentiloni nel febbraio del 2017 e gestito dal ministro degli Interni – del PD – Minniti. Salvini è stato abile nel contribuire a questa smemoratezza, per lucrare i consensi derivanti da scelte altrui e dalla conseguente drastica diminuzione degli sbarchi (risalente in realtà ai mesi precedenti alla sua entrata in carica). Ci sarebbe aspettati, adesso, che quell’ “errore” fosse corretto introducendo nel memorandum clausole vincolanti contro le violazioni sistematiche dei diritti umani da parte del governo libico. E invece lo si è rinnovato così com’era, pur dichiarando che ci si riservava di chiedere in futuro delle modifiche (ma le modifiche andavano chieste prima, non dopo il rinnovo! E infatti, anche la recente visita del ministro Lamorgese non sembra aver prodotto più di qualche generica raccomandazione umanitaria, tutt’altro che cogente).
La mancata abolizione dei “Decreti sicurezza”
Analoga ambiguità il governo ha avuto nei confronti dei due “Decreti sicurezza” voluti da Salvini e bollati, giustamente, come “Decreti insicurezza”, perché, essendo volti a rendere quanto più possibile difficile l’integrazione, rischiano di condannare alla clandestinità permanente persone che, a questo punto, diventerebbero effettivamente pericolose.
Dopo le vivacissime proteste che questi due testi normativi avevano  giustamente suscitato, ci si poteva aspettare che fosse una priorità del nuovo governo abolirli o almeno modificarli radicalmente. Invece, no. La sola cosa che è cambiata è l’atteggiamento dei rappresentanti delle istituzioni, ora meno fiscale e rigoroso di quando Salvini gestiva il ministero degli Interni. Delle deroghe si sono fatte riaprendo i porti per rendere di nuovo possibile l’accoglienza. Restano però tutte le limitazioni previste dai Decreti che rendono difficile l’integrazione. Si naviga a vista.
Insomma, mentre quello di Salvini è un progetto politico, questo non lo sembra esserlo. Certo, bisogna dare atto che quello delle migrazioni è un problema di amplissime proporzioni e di difficilissima soluzione, di cui sarebbe follia pretendere la soluzione in tempi brevi. Ma l’attuale governo sembra incapace non solo di risolverlo, bensì di affrontarlo con una sua precisa linea politica, che possa costituire un’alternativa a quella (disastrosa) dei governi precedenti.
Così si svalutano anche gli appelli di papa Francesco
A questo punto non c’è da stupirsi se molti cittadini hanno dato ragione a Musumeci. Anche tanti cattolici, che sarebbero in astratto d’accordo con papa Francesco sulla necessità di accogliere i poveri, in concreto si sentono minacciati da un’accoglienza caotica e senza prospettive di una corretta integrazione. In questo modo non si rende un buon servizio neppure agli immigrati. E acquistano forza le sorde resistenze, anche nell’ambito ecclesiale, nei confronti degli accorati appelli di Francesco, che ancora in questi giorni ci ha messi in guardia dalla “cultura dello scarto”. Dimenticando che lo stesso pontefice ha sempre sottolineato che l’accoglienza, senza integrazione, non è una soluzione, anzi perpetua in altre forme la logica dello scarto.
Senza un linea politica adeguata, vincerà la paura
La verità è che la carità non può fare a meno della giustizia e la giustizia non può fare a meno della politica. Se quest’ultima continuerà a barcamenarsi tra dichiarazioni di principio umanitarie e una effettiva mancanza di progettualità e di efficienza nel tradurle in scelte e misure concrete, è inevitabile che l’opinione pubblica – già nel recente passato molto sensibile alla “propaganda della paura” di matrice sovranista – finisca per concludere che la linea del respingimento dei migranti è l’unica realisticamente praticabile. E questo, al di là delle controversie tra “destra” e “sinistra”, per il nostro Paese significherebbe ricadere in una regressione ben più grave di quella economica, perché coinvolgerebbe non il Pil, ma la nostra umanità.

*Pastorale Cultura Diocesi Palermo



venerdì 28 agosto 2020

SCUOLA: LAVORATORI "FRAGILI". Le norme

La CISL Scuola ha predisposto una scheda che riporta in sintesi alcune indicazioni desumibili dal quadro normativo di riferimento riguardo a lavoratori e alunni in condizione di fragilità, effettuazione dei test sierologici, modalità di svolgimento delle riunioni degli organi collegiali. 


Prosegue l'impegno dell'organizzazione per sostenere, anche offrendo strumenti di supporto al complesso lavoro delle istituzioni scolastiche autonome e dei dirigenti scolastici, l'obiettivo di un ritorno nella massima sicurezza possibile alle attività didattiche in presenza.







L'INSEGNAMENTO DI AGOSTINO ALL'UOMO CONTEMPORANEO

-    Da lui si apprende l’introspezione interiore e la ricerca di Dio attraverso la ragione e la fede. Ma Sant’Agostino, che la Chiesa ricorda oggi, insegna anche a leggere la storia alla luce della Provvidenza. Il nuovo priore della Provincia Agostiniana d’Italia: "Agostino parla molto all'uomo di oggi". Lettera del priore generale a tutti gli agostiniani

di Tiziana Campisi – Città del Vaticano

Padri della Chiesa sono giustamente chiamati quei santi che, con la forza di fede, la profondità e la ricchezza dei loro insegnamenti, nel corso dei primi secoli l’hanno rigenerata e grandemente incrementata”.Così scriveva Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Patres Ecclesiae. E tra i Padri della Chiesa è annoverato Sant’Agostino, vescovo di Ippona, che con il suo ministero pastorale e le sue opere ha contribuito enormemente allo sviluppo della dottrina cristiana.
Sant’Agostino pastore
Se con la sua esperienza di vita il presule africano insegna a percorrere la via dell’interiorità per trovare Dio e a comprendere la sua Parola con fede e ragione, attraverso svariati scritti risponde anche alle grandi domande dell’uomo sull’esistenza, sul bene e sul male, sulla storia. E sono tantissime le omelie in cui Agostino affronta temi di attualità, redarguisce i suoi fedeli sui costumi pagani, li aiuta a leggere la realtà alla luce del Vangelo. Come pastore, per 35 anni, guida la sua diocesi nell’ortodossia cristiana e, spettandogli la episcopalis audientiae, deve dirimere quelle controversie civili che i cittadini di Ippona gli sottopongono come arbitro di liti, cosa che lo avvicina ancora di più alla sua gente; gli si rivolgono per avere il suo lodo arbitrale folle di litiganti, pagani e cristiani. Tutto questo lo porta a trattare problemi concreti e ad affrontare via via eresie e questioni teologiche, mentre le sue prediche ammaliavano l’uditorio tanto da riuscire a trattenerlo pure per ore.
La Provvidenza nella storia
In età matura, fra il 413 e il 426, Agostino scrive La città di Dio, offrendo una lettura della storia attraverso la lente della fede cattolica. Nei 22 libri che la compongono il mondo viene descritto come frutto della “città terrena”, segnata dal peccato dell’uomo e dall’amor di sé, e della “città celeste”, luogo della Grazia e dell’amor di Dio. Ma, per il vescovo di Ippona, in tutte le civiltà ci sono uomini che appartengono all’una o all’altra. Inoltre, scorgendo la Provvidenza a guida dell’intera storia, ogni avvenimento e ogni singola vicenda personale s’illuminano di significato.
A ricordare il pensiero di Sant’Agostino è il tweet di oggi del Papa, che invita proprio ad intravedere la mano di Dio nella storia degli uomini. “Fidatevi del Signore e sforzatevi di entrare nei suoi disegni, accettando che la sua salvezza possa giungere a noi per vie diverse da quelle che ci aspetteremmo”: scrive Francesco esortando ad accogliere la volontà di Dio, pur se divergente dalle nostre aspettative, perché dono di salvezza. E propio questo si può comprendere con la lettura de La città di Dio, nelle cui pagine Agostino sviluppa una riflessione filosofica, teologica e politica. Padre Giustino Casciano, priore provinciale della Provincia Agostiniana d’Italia, spiega cosa recuperare oggi di quest’opera:
Ascolta l'intervista a padre Giustino Casciano
R. -“La città di Dio” è stata scritta da Agostino nel momento in cui Roma è caduta nelle mani dei Goti. Questo evento veramente epocale ha scosso molto le persone, le coscienze di allora, e ha fatto sorgere l’accusa contro i cristiani di essere loro la causa della rovina della città di Roma, della città eterna. E Agostino vuole, scrivendo “La città di Dio”, proprio rispondere a queste accuse. E lui dice che non è a causa del cristianesimo che Roma è diventata debole ed è caduta nelle mani dei barbari, ma è a causa della corruzione morale, della corruzione dei costumi, che Roma ha perso il suo splendore e la sua grandezza. É diventata debole a causa dell’uomo, che ha seguito più le passioni che la propria intelligenza, il proprio destino eterno. Credo che sia interessante riflettere sulla situazione attuale del mondo, sul fatto che viviamo questa crisi della epidemia globale che ha colpito tutti i popoli. La riflessione di Agostino può essere molto interessante per avere una visione della storia del mondo, dove il cristianesimo può dare tanta luce, dove la fede cristiana può offrire tante vie di uscita.
Come si rivolgerebbe Agostino al mondo di oggi?
R.- Devo dire che Agostino parla molto all’uomo di oggi. L’uomo contemporaneo lo sente molto vicino; è lontano più di 1600 anni ma il suo linguaggio, la sua maniera di essere e di porsi, lo rende veramente molto, molto attuale. Credo che Agostino parlerebbe, soprattutto, a livello antropologico, parlerebbe al cuore delle persone, al loro bisogno di felicità, di sicurezza. Credo che sarebbe veramente interessante sentirlo parlare o scrivere nella società di oggi. Ed è compito di noi agostiniani renderlo vivo, attuale, nella nostra società.
Lei è stato appena eletto priore della Provincia Agostiniana d’Italia, quali sono le priorità delle comunità agostiniane italiane?
R.- Sentire insieme alla Chiesa e camminare insieme alla Chiesa cattolica. Agostino è stato, dopo la conversione, un grande pastore molto attento a tutte le problematiche della società e della Chiesa di allora. E lui, nella regola, nei suoi scritti, dona a noi proprio questo insegnamento: mettere al primo posto le necessità della comunità cristiana e lasciare da parte anche un legittimo bisogno di ricerca, di contemplazione, di studio, purché al primo posto ci siano le necessità della carità. Quindi noi vogliamo, come agostiniani, avere questa priorità: aiutare il Papa, aiutare i vescovi, camminare insieme alla Chiesa cattolica nella missione di evangelizzare il mondo in cui viviamo.
La Provincia Agostiniana d'Italia come  affronta questo momento particolare della storia?
R. - Con l’annuncio del Vangelo, sia con la parola che con la vita. Però non un annuncio del Vangelo fatto da soli, ma fatto insieme alla comunità religiosa. Il nostro carisma è soprattutto questo della comunione: i religiosi vivono insieme, si aiutano, cercano di camminare uniti nella fede, nella preghiera, nel servizio, per poter annunciare il Vangelo con un cuore solo e un’anima sola. É un ideale difficile, perché la vita comune è una palestra, è un continuo allenamento, un continuo combattimento, per superare le differenze e trasformare le individualità in una ricchezza, superare le difficoltà a volte che sono di carattere, di culture, di provenienze diverse, facendo diventare queste differenze una ricchezza. E questo è possibile con il dono della carità. La carità al di sopra di tutto. Noi abbiamo in Italia grandi santuari, come il santuario di Santa Rita a Cascia, abbiamo grandi parrocchie, come a Milano o a Roma o in altre città; noi non ci distinguiamo per un apostolato particolare; molti di noi, sono professori, abbiamo un grande centro di cultura nell’Augustinianum di Roma, abbiamo un centro medico di eccellenza in provincia di Bari. Quello che ci distingue è soprattutto questo evangelizzare insieme, come comunità.
Come vede il futuro delle comunità agostiniane in Italia?
R. - È un futuro sicuramente con molte difficoltà, dovute soprattutto alla carenza delle vocazioni, per cui l’urgenza più importante è avvicinare i giovani, camminare insieme ai giovani, annunciare Gesù alle nuove generazioni e chiedere con la preghiera incessante il dono di avere nuove e sante vocazioni alla vita consacrata e al ministero ordinato. Noi non vorremmo chiudere dei conventi, noi vorremmo, con l’aiuto di Dio, aprire nuove realtà; però questo, è chiaro, si può fare solo attraverso le nuove vocazioni, senza dimenticarci che camminiamo insieme alle famiglie, insieme ai laici. Noi siamo un tutt’uno con i laici e le famiglie agostiniane che vivono nei nostri contesti. Le difficoltà della Chiesa sono le nostre difficoltà.
C'è una frase, un pensiero, di Agostino che, secondo lei, può essere un po' il motto della Provincia Agostiniana Italiana per i prossimi anni?
R.- Mi vengono in mente, naturalmente, diverse frasi. Una riguarda la ragione e la fede: “Credi per poter comprendere e comprendi per poter credere”. Credo che sia importante per noi unire sempre di più tutte le capacità della scienza, della tecnica, dell’intelligenza umana, però alla fede. Solo se siamo capaci di avere queste due ali, l’ingegno umano e la fede in Dio, noi possiamo veramente volare. Se manca una di queste due ali c’è rischio che rimaniamo per terra e non riusciamo a sollevarci. E mi piace molto anche la frase che riguarda la Grazia di Dio. Mettere insieme la libertà umana e la Grazia di Dio, quindi fare tutto quello che puoi con le tue forze, ma soprattutto affidarti alla Grazia di Dio con la preghiera. Credo che Agostino sia proprio capace di unire sempre queste realtà fra di loro; è il dottore della Grazia ma è anche il dottore della libertà.
La lettera del priore generale dell’Ordine di Sant’Agostino
Il priore generale dell’Ordine di Sant’Agostino, padre Alejandro Moral, in occasione della solennità che tutti gli agostiniani celebrano oggi, ha scritto una lettera per invitare i religiosi a vivere con un cuor solo e un’anima sola protesi verso Dio. “Restiamo (…) fortemente uniti. Diamo testimonianza della comunione tra noi e il Capo, che è Cristo – si legge nella missiva –. Egli ci aiuterà a leggere e interpretare la realtà e le esigenze dei nostri fratelli. Uniti e in comunione con Cristo, possiamo confidare nella sicurezza di superare le situazioni difficili che dovremo vivere”.
Uniti e orientati verso il bene comune di fronte alla pandemia
Ricordando, poi, l’emergenza coronavirus che tutti i continenti stanno vivendo, padre Moral aggiunge: “Anche la celebrazione della solennità del nostro Padre Sant’Agostino è coinvolta nei problemi di attenzione sanitaria che dobbiamo mantenere. Per questo motivo le S. Messe e le celebrazioni di altro tipo vedranno una partecipazione ridotta nella maggior parte dei luoghi, o addirittura in altri non si potranno neanche celebrare pubblicamente”. Infine il priore generale dell’Ordine di Sant’Agostino esorta ad orientare mente e cuore all'essenziale del carisma agostiniano. “Cerchiamo il bene comune, la comunione con i nostri fratelli – conclude – lavorando sulla nostra interiorità e relazione con Dio, offrendo una testimonianza di fraternità e di solidarietà con gli uomini colpiti dai problemi causati dalla pandemia”.