- - di Alessandro D’Avenia
«Il mio supplizio/ è
quando/ non mi credo/ in armonia». Parole di Giuseppe Ungaretti nei Fiumi,
poesia in cui tratteggia, nello scenario bellico della Prima guerra mondiale a
cui partecipò, un rarissimo momento di felicità trovato immergendosi nelle acque
di un fiume per lavarsi dalla sporcizia e dalle tenebre in cui era precipitato.
Le vorrei usare per ringraziare della fortuna di aver festeggiato un nuovo
compleanno e le 200 puntate di questa rubrica.
Il supplizio di cui parla
il poeta ci tocca tutti: siamo infelici in misura di quanto siamo dis-armonici
e dis-integrati, cioè mancanti di sintonia e unione nelle tre direzioni
fondamentali dell'eros: con noi stessi (il supplizio è la distanza tra chi siamo
e chi siamo chiamati a essere: in-autenticità), con il mondo (il supplizio è
l'isolamento dalle cose, in-differenza, e dagli altri, in-appartenenza), con
dio, con la minuscola a indicare la ricerca di senso (il supplizio è la paura
che l'esistenza non ne abbia, in-sensatezza). Per un essere fatto di, nelle e
per le relazioni le ferite di queste dimensioni sono il supplizio: l'eros,
energia attraverso cui cresciamo e gioiamo, si spegne e noi con lui. Come fare
a (ri-)trovare l'armonia e vivere la felicità del poeta purificato dalle acque
del fiume? Perché e con chi siamo in guerra?
Il poeta soldato dice di
soffrire non perché «non è» ma perché «non si crede» in armonia, differenza
abissale: l'armonia non è un traguardo da raggiungere ma uno stato che perdiamo
o dimentichiamo. Se dico ai miei studenti: «Adesso prestate molta attenzione»,
si mettono in tensione, quando invece dovrebbero chiudere gli occhi e
rilassarsi, come nell'abbandono alle acque che fanno sentire il poeta «una
docile fibra dell'universo», unito nelle tre direzioni, personale, relazionale
e trascendente. Se il nostro corpo è arrivato a credere che l'armonia sia
allerta e non abbandono, è perché siamo permeati dalla spossante convinzione
che la felicità sia una performance, qualcosa da ottenere, raggiungere,
afferrare, e non semplicemente da ricevere, coltivare, liberare. Mi ha spesso
guarito da questa idea tossica la doppia (è rivolta alle due categorie sociali
degli ascoltatori) parabola che Cristo usa nel vangelo per descrivere non una
religione ma la vita: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo;
un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti
i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile a un mercante che
va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende
tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13).
Lo psichiatra Viktor Frankl, pochi mesi dopo la liberazione dal campo di concentramento, tenne tre affollate conferenze all'Università popolare di Vienna, nella prima delle quali descrisse l'esperienza della prigionia da una prospettiva insolita: «Ciò che rimane è l’essere umano, il mero essere umano. Tutto lo aveva abbandonato: denaro, fama, potere; non c’era più niente di sicuro: non la vita, non la salute, non la felicità; tutto era stato messo in discussione: vanità, ambizione, relazioni. Tutto si era ridotto alla nuda esistenza. Reso incandescente dal dolore, tutto l’inessenziale si era fuso riducendo l’essere umano a ciò che, in ultima analisi, era: o uno qualunque nella massa, cioè nessuno di reale, cioè l’anonimo, nient’altro che il numero di matricola di un prigioniero; oppure riducendolo al suo sé». Se ci tolgono ogni cosa che resta di noi? Nulla o il sé autentico? Il discrimine tra la prima o la seconda opzione per Frankl dipende da «qualcosa di simile a una decisione... perché l’esistenza, alla cui nudità e inermità l’uomo era stato ricondotto, non è altro che questo: decisione». Che cosa intende lo psichiatra viennese per “decisione”? «Compiere un rovesciamento di 180° attraverso cui la domanda non è più “Cosa devo aspettarmi dalla vita?”, bensì “Cosa si aspetta la vita da me?”. Quale compito mi aspetta nella vita? Adesso comprendiamo quanto sia mal posta la domanda sul significato della vita, se la poniamo come si fa di solito: non siamo noi a poter fare domande sul senso della vita, ma è la vita stessa che le rivolge a noi, è lei a interrogarci! E siamo noi quelli tenuti a rispondere.
La vita è un essere-interrogati, tutto il nostro essere è un rispondere alla, o della, vita, un esserne responsabili. Assumendo una posizione del genere più nulla può spaventarci, nessun futuro, nessuna apparente mancanza di futuro. Ora, infatti, il presente è tutto, poiché racchiude l’interrogativo eternamente nuovo che la vita ci rivolge. Quello che ci riserva il futuro, invece, non abbiamo bisogno di saperlo» (Sul senso della vita). Parole a cui sono tornato spegnendo le candeline: quante altre ne avrò? In questa prospettiva la domanda è mal posta e senza risposta. Il punto è invece sgombrare il presente, il più grande serbatoio di sorprese, nel bene e nel male, dal rumore, la paura, le illusioni che gli impediscono di farmi la domanda su cosa si aspetta da me. Che cosa mi chiede la vita ora? Che cosa mi rende vivo nei tre spazi del fiorire: me stesso, il mondo, dio? Mi sono allora chiesto quali siano i tesori nascosti trovati sino ad ora in ognuno di questi ambiti, per vendere tutto ciò che è nulla al confronto.
Mi è tornato allora in mente che trent'anni fa, il 1° maggio, nel Gran Premio di Imola moriva il più forte pilota della storia: Ayrton Senna. Allora seguivo con passione la Formula Uno con mio padre. Vidi in diretta l'incidente, ricordo tutto. Avrei compiuto 17 anni l'indomani, e sentii il morso di quella fine incombere sul mio inizio da rinnovare. Volevo sapere tutto dell'incidente: se anche Senna muore, figurati io... Lessi che nella tuta che indossava in gara era stato trovato un biglietto con scritto: «Nessuno mi può togliere l’amore che Dio ha per me». Quello era tutto il suo presente, il tesoro nascosto. Più cresco più mi sembra che la vita non abbia un traguardo da raggiungere ma che il traguardo siamo noi se ci lasciamo raggiungere, qui e ora, dalla grazia di essere nati per poi, forti di questo eros, far nascere il presente. Solo quando trovo in me ciò che non può essermi più strappato riesco a vedere nelle candeline non quanti anni di vita compio, ma quanta vita si compie negli anni. E soffio.
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