DI UNA RIFORMA
- di Giuseppe Savagnone*
Con la
differenza, rispetto al presidenzialismo, che in questo caso non si tratterebbe
di cambiare la nostra Costituzione, ma semplicemente – come viene spesso
sottolineato dai fautori della riforma – di applicarla.
La modifica in
questo senso del Titolo V della Carta costituzionale fu infatti realizzata già
nel 2001, con l’approvazione della legge costituzionale n. 3, per volontà della
maggioranza, che allora era di centrosinistra, sotto la presidenza di Giuliano
Amato.
L’intento era
quello di vanificare le spinte tendenzialmente secessioniste portate avanti
dalla Lega, che oggi si appella a questa riforma costituzionale – finora
rimasta inapplicata – chiedendone l’attuazione, mentre, paradossalmente, a
cercare di bloccarla sono le opposizioni di sinistra.
In ogni caso,
al di là delle contrapposizioni tra i partiti, ci sembra che, dato il rilievo dell’iniziativa del governo,
essa meriti un esame approfondito.
Di che cosa
si tratta
L’articolo 116,
terzo comma della Costituzione, nel testo riformulato del 2001, prevede la
possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle
Regioni a statuto ordinario (c.d. “regionalismo differenziato” o “regionalismo
asimmetrico”, in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi
dalle altre).
Nel nuovo testo
costituzionale, le materie su cui potranno essere raggiunte le intese tra lo
Stato e le Regioni a questo scopo sono elencate all’art. 117 e sono:
«Rapporti
internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela
e sicurezza del lavoro; istruzione (salva l’autonomia delle istituzioni
scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale);
professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i
settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione
civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di
trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione;
produzione,
trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e
integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione
dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività
culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere
regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale».
Inoltre, nello
stesso articolo si afferma che «spetta alle Regioni la potestà legislativa in
riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello
Stato».
In coda si
precisa che «nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi
con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con
le forme disciplinati da leggi dello Stato».
Come si vede
l’autonomia prevista dalla Costituzione è potenzialmente amplissima.
Naturalmente non è detto che le Regioni la chiedano per tutto l’arco di queste
materie, ma possono farlo.
Ovviamente,
quelle che vorranno avvalersene avranno bisogno di adeguate risorse, che
consentano loro di svolgere le nuove funzioni attribuite alla loro competenza e
che, secondo il disegno di legge, potranno essere assegnate loro dallo Stato
attraverso compartecipazioni al gettito fiscale maturato nel territorio
regionale.
Gli aspetti
positivi
Dei vantaggi
sarebbero indubbi. Il più evidente è che verrebbe definitivamente superata la
logica – che ha segnato il nostro Stato fin dalla sua nascita – di una burocrazia piramidale e pachidermica,
valorizzando il rapporto diretto dell’amministrazione regionale col territorio,
mettendola in grado di recepire più immediatamente le specifiche esigenze degli
abitanti e, al tempo stesso, rendendola maggiormente responsabile nei loro
confronti dell’uso delle risorse a disposizione.
I problemi
sul piano tecnico-finanziario
Dei problemi,
tuttavia, sono innegabili. Già sul piano meramente finanziario. Un giornale che
non è certo sospetto di essere “di sinistra”, come il «Sole24ore», pur
apprezzando gli aspetti positivi del disegno di legge, ammette che esso
comporterebbe «una crescita del bilancio regionale ed un ridimensionamento di quello
statale, per via della diversa allocazione del gettito fiscale».
Da qui
l’interrogativo: «Riusciranno i conti a quadrare o lo Stato dovrà giocoforza
rinunciare a gran parte delle sue politiche economiche e sociali?» (Francesco
Bruno sul «Sole 24ore.com», 15 novembre 2023).
Proprio in
rapporto a questa domanda il disegno di legge prevede che l’attuazione della
riforma sia subordinata alla determinazione dei Livelli Essenziali delle
Prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali di cui tutti i
cittadini italiani, in quanto tali, devono poter godere.
Solo che –
leggiamo sempre sul «Sole24ore», «lo Stato, per definire e per garantire i LEP
in tutta la nazione, dovrà spendere molto. Per farlo, dovrà ridurre la spesa
pubblica e/o aumentare le tasse e/o incrementare il debito. Politicamente ciò
non è semplice».
I problemi
sul piano politico
Al di là del
problema strettamente finanziario, ce n’è uno politico che riguarda il bene
comune dell’Italia. La tesi del ministro Calderoli e dei governatori favorevoli
è che l’autonomia gioverebbe anche alle Regioni del Sud. È vero?
Secondo
l’Istat, in un focus denominato “I divari italiani nel Pnrr”, nel 2021 il
prodotto interno lordo (Pil) pro-capite italiano è stato pari a 33 mila euro
circa. Una cifra che scende a 18 mila nel Sud. La Regione italiana con il Pil
pro-capite più basso è la Calabria, a quota 17.500 euro, seguita dalla Sicilia
a 18.200 euro. Il “gap” tra le due regioni più meridionali d’Italia e la prima
in classifica, il Trentino-Alto Adige, che sfiora quota 44 mila euro, è di
circa 26 mila euro.
Basterebbero
questi dati a far dubitare fortemente che il venir meno della redistribuzione
di risorse – fino ad oggi possibile – tra Nord e Sud finisca per avvantaggiare
anche le Regioni meridionali.
E questo è
tanto più evidente in quanto, secondo il disegno di legge Calderoli approvato
dal governo, la ripartizione dei fondi fra le Regioni – che, fino ad oggi,
viene effettuata in base ai fondi spesi negli anni precedenti (“spesa storica”)
– dipenderà invece dall’ammontare delle tasse pagate dai cittadini residenti
nel loro territorio. Con la conseguenza che il livello dei servizi nella
Regione non dipenderebbe dai “bisogni”, che tutto sommato sono simili sia al
Nord che al Sud, ma dal “reddito” regionale, cioè dal parametro che, come
abbiamo appena visto, più macroscopicamente registra l’abissale divario tra le
due aree del paese.
E, se sono
realistiche le perplessità sopra esposte nell’articolo del «Sole24ore», neppure
l’appello ai LED può costituire una soluzione, perché anche questi non
avrebbero nella realtà una possibile copertura da parte dello Stato.
Resta da
spiegare come i governatori di Regioni come la Sicilia e la Calabria abbiano
approvato anche loro, nella Conferenza delle regioni tenutasi all’inizio di
marzo, il progetto di legge Calderoli. Ma forse dovrebbero essere loro a
spiegarlo meglio.
Il problema
dell’unità nazionale
Ma, al di là
della sperequazione tra le Regioni, qualche domanda non può non porsi anche
riguardo all’impatto dell’autonomia sull’unità nazionale.
Per non dire
che è molto probabile che si instaurino fra Nord e Sud gli stessi meccanismi
discriminatori che oggi portano a “difendere le frontiere” nei confronti dei
migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia. Già in passato in qualche bando
di concorso al nord si escludevano i laureati di università meridionali.
Non ci sarebbe
da stupirsi se gradualmente criteri di selezione o almeno di priorità – “prima
i nostri figli!” – cominciassero a scattare anche per l’accesso a posti
pubblici, a ospedali, a scuole…
Neppure alle
Regioni del nord, però, tutto questo, in ultima istanza, gioverà. Il mondo
attuale va verso forme di aggregazione, sempre più necessarie per difendere
efficacemente, a livello internazionale, i propri interessi. La Lombardia o il
Veneto scopriranno prima o poi, a loro spese, che far parte di un grande Stato
unitario aveva i suoi vantaggi.
Il dibattito,
ovviamente, rimane aperto a tutte le letture. A patto, naturalmente, che ci si
ricordi di tener conto della realtà.