mercoledì 31 luglio 2019

CHIESA IN AMAZZONIA E SVILUPPO INTEGRALE UMANO: IMPEGNO PER LA DIGNITÀ' UMANA

Pubblichiamo l’articolo di padre Michael Czerny, sottosegretario del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale e Segretario speciale del Sinodo dei vescovi per la regione panamazzonica, dal titolo "La Chiesa in Amazzonia e lo sviluppo umano integrale. Impegno profetico per la dignità di tutti gli esseri umani"

di Michael Czerny s.j.

Come il Buon samaritano, la Chiesa vuole mettere in atto il proprio impegno per la compassione e per la giustizia del Vangelo in Amazzonia. Essa è chiamata a osservare e comprendere, per poi aprirsi al dialogo e agire. Ecco la ragione per cui Papa Francesco ha convocato un Sinodo dei vescovi per la regione panamazzonica. Con l’aiuto del Sinodo, sarà possibile avviare delle azioni pastorali e ambientali in Amazzonia e riaffermare le modalità “dell’essere Chiesa” comportate da tali azioni.
Instrumentum laboris
Questa sollecitudine nell’impegnarsi viene assunta esplicitamente nell’ultimo capitolo dell’Instrumentum laboris (IL), che sintetizza le sfide e le speranze di una Chiesa profetica nella regione amazzonica. L’orizzonte in cui ci si muove, senza il quale non possono esistere vita e giustizia, è il fatto che «tutto è connesso», come Papa Francesco ha spiegato nell’enciclica Laudato si’ (138). Il sociale e il naturale, l’ambientale e il pastorale non possono e non devono essere separati. Compartimentalizzazioni riduttive - intellettuali e spirituali, imprenditoriali e politiche - hanno messo in pericolo la vita umana sulla Terra, casa comune dell’umanità.
Il Sinodo dei vescovi per la regione panamazzonica
Il prossimo Sinodo si impegna ad aiutare a risanare le violazioni in una parte del mondo dove le conseguenze delle idee errate e delle pratiche dannose hanno esiti particolarmente seri. È arrivato il momento in cui la Chiesa si confronti con questa problematica. Per questo, nel tema del Sinodo, troviamo le parole «Nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale», e il titolo dell’ultimo capitolo dell’IL è «Il ruolo profetico della Chiesa e la promozione umana integrale». Entrambi parlano di dimensioni o dinamiche che devono andare insieme nella missione della Chiesa: il suo ministero pastorale non va staccato dalla promozione umana e dall’ecologia integrale.
Terra disputata su più fronti
Come l’enciclica Laudato si’, con la sua esaustiva esposizione storica, scientifica, economica e pastorale, anche l’il offre una lunga analisi delle condizioni dell’Amazzonia. Nelle parole di Papa Francesco: «L’Amazzonia è una terra disputata su diversi fronti: il neo-estrattivismo e la forte pressione da parte di grandi interessi economici che dirigono la loro avidità sul petrolio, il gas, il legno, l’oro, le monocolture agro-industriali» (Papa Francesco, Discorso all’incontro con i popoli dell’Amazzonia, Puerto Maldonado, Perù, 19 gennaio 2018). Aggiunge l’IL: «La molteplice distruzione della vita umana e ambientale, le malattie e l’inquinamento di fiumi e terre, l’abbattimento e l’incendio di alberi, la massiccia perdita della biodiversità, la scomparsa delle specie (più di un milione degli otto milioni di animali e piante a rischio), costituiscono una cruda realtà che chiama in causa tutti. La violenza, il caos e la corruzione dilagano. Il territorio è diventato uno spazio di scontri e di sterminio di popoli, culture e generazioni» (n. 23).
Minacce a popolazioni indigene
La situazione dell’Amazzonia ha diverse cause. Ci sono delle responsabilità locali e multinazionali che sostengono e incoraggiano investimenti, pubblici o privati, che hanno impatti devastanti sull'ambiente amazzonico e sui suoi abitanti. Tuttavia, un punto di partenza fondamentale è il fatto che le popolazioni indigene vedono minacciati i loro territori delimitati da interessi che li sfruttano, e spesso viene loro negato il diritto alla propria terra.
Violazioni al diritto internazionale
Questo costituisce una violazione del diritto e delle convenzioni internazionali. «La Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (approvata il 13 settembre 2007), a cui il Papa ha fatto riferimento in diverse occasioni, contiene diritti importanti come quello all’autodeterminazione, in virtù del quale quei popoli decidono liberamente il proprio statuto politico e perseguono liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale (art. 3). Nell’esercizio del loro diritto all’autodeterminazione, i popoli indigeni possono rivendicare l’autonomia nelle questioni riguardanti i loro affari interni e locali (art. 4). E dall’art. 6 della Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) sui popoli indigeni e tribali, del 1989, si ricava il loro diritto a non subire misure legislative o amministrative che li possano riguardare direttamente senza essere stati prima consultati “in buona fede e in forma appropriata alle circostanze”, affinché diano il proprio consenso previo, libero e informato» (Pedro Barreto s.j., Sinodo per l’Amazzonia e diritti umani: Popoli, comunità e Stati in dialogo, «La Civiltà Cattolica», 20 luglio 2019).
Un cammino di croce
In realtà, è proprio la disuguaglianza delle forze e, in molti casi, la flagrante mancanza di rispetto dei diritti costituzionali, oltre all’imposizione di un cosiddetto modello di sviluppo, che continuano a causare grande disarticolazione sociale, vulnerabilità, degradazione delle relazioni, migrazione, disoccupazione, violenza e fame in molte comunità indigene. La mancanza di riconoscimento, demarcazione e titolarità dei territori (una condizione sine qua non per la sicurezza, la stabilità della comunità e la sopravvivenza culturale) ha portato a un numero allarmante di morti a cause delle nuove malattie o di natura violenta. «Mettere in discussione il potere nella difesa del territorio e dei diritti umani è mettere a rischio la propria vita, aprendo un cammino di croce e martirio» (IL 145).
La difesa dei territori
L’IL pone l’esempio delle 1119 persone indigene che sono state uccise tra il 2003 e il 2017 solo in Brasile «per aver difeso i loro territori» (Cfr. Consiglio Indigenista Missionario, cnbb, Brasile, Relatório de violência contra os Povos Indígenas no Brasil – Dados de 2017, pp. 84ss, cfr. anche la presentazione di dom Roque Paloschi: «Na ausência da Justiça, a violência cotidiana devasta as vidas dentro e fora das terras indígenas», p. 9, Brasília 2018. ). In verità, in molteplici casi queste uccisioni sono da attribuirsi a ubriachezza, violenza domestica o liti tra persone. In generale, comunque, sono da considerarsi come conseguenze di cause tanto ambientali come sociali e strutturali, di problemi derivanti dalla mancanza di demarcazione dei territori e di invasione degli stessi da parte di potenti interessi esterni.
L’impegno della Chiesa
La Chiesa nel suo ruolo pastorale lavora in favore delle vittime e, nel suo ruolo profetico, si oppone agli abusi. È chiamata a essere «sostenitrice della giustizia e difensore dei poveri». Papa Benedetto XVI lo ha ricordato alla Conferenza di Aparecida nel suo discorso inaugurale (n. 395). La sua presenza è, in realtà, «un prisma che permette di identificare i punti fragili della risposta degli Stati, e delle società in quanto tali, davanti a situazioni urgenti, riguardo alle quali, indipendentemente dalla Chiesa, ci sono debiti concreti e storici che non si possono eludere» (Pedro Barreto S.J., art. cit.). Allo stesso tempo la Chiesa vede «con coscienza critica», come fa con ogni popolo tra i quali evangelizza, «una serie di comportamenti e realtà dei popoli indigeni che vanno contro il Vangelo» (il 144).
Un impegno profetico
I Pontefici, partendo da Papa Leone XIII alla fine del diciannovesimo secolo, il concilio Vaticano ii e la Dottrina sociale della Chiesa offrono chiare linee guida. In risposta a un modello dominante di società che produce esclusione e disuguaglianza, e un modello economico che uccide gli uomini e le donne più vulnerabili e distrugge la casa comune, la missione della Chiesa include infatti un impegno profetico per la dignità di tutti gli esseri umani senza distinzione, la giustizia, la pace e l’integrità del creato.
Rispetto, riconoscimento e dialogo
Come ha detto chiaramente Papa Francesco: «Credo che il problema essenziale sia come conciliare il diritto allo sviluppo, compreso quello sociale e culturale, con la tutela delle caratteristiche proprie degli indigeni e dei loro territori. […] In questo senso dovrebbe sempre prevalere il diritto al consenso previo e informato» (Discorso ai rappresentanti di popoli indigeni, in occasione della 40° sessione del Consiglio dei governatori del Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo, Ifad, 15 febbraio 2017.) Anche a Puerto Maldonado, il Papa affermò: «considero imprescindibile compiere sforzi per dar vita a spazi istituzionali di rispetto, riconoscimento e dialogo con i popoli nativi; assumendo e riscattando cultura, lingua, tradizioni, diritti e spiritualità che sono loro propri» (Discorso all’incontro con i popoli dell’Amazzonia, Puerto Maldonado, Perù, 19 gennaio 2018).
Ordine sociale
In Amazzonia, il “buon vivere” dei popoli indigeni dipende principalmente dalla demarcazione dei loro territori e dal suo scrupoloso rispetto. «La politica — ha detto san Giovanni Paolo II — è l’uso del potere legittimo per il raggiungimento del bene comune della società» (Discorso nel “Giubileo dei governanti e dei parlamentari”, 4 novembre 2000). Il compito fondamentale della politica è quello di assicurare un giusto ordine sociale, e la Chiesa «non può [e non] deve rimanere ai margini nella lotta per la giustizia» (EG 183, citando DCE 28). Così, la Chiesa è a fianco delle popolazioni indigene nella cura del loro territorio.
Evangelizzazione e promozione umana
Con tutte queste grandi dinamiche e sfide, minacce e promesse che sono presenti nella nostra mente e anche nella nostra preghiera, ricordiamo le parole di Papa Francesco che aprono l’ultimo capitolo dell’IL: «Dal cuore del Vangelo riconosciamo l'intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana, che deve necessariamente esprimersi e svilupparsi in tutta l'azione evangelizzatrice» (EG, 178).


Da   "L'Osservatore Romano" 


martedì 30 luglio 2019

AVER FIDUCIA PER CRESCERE E FARE CRESCERE


Il talento emerge se siamo circondati da persone che credono in noi


Accanto ai nostri talenti, anche l’atteggiamento (o abito mentale) che mettiamo in atto nei loro confronti è molto importante: se crediamo in noi stessi e nelle nostre capacità, avremo un’alta probabilità di riuscire a superare gli ostacoli. In questo processo costruttivo e positivo, le persone con cui ci relazioniamo giocano un ruolo molto importante: se gli altri credono in noi, sarà più facile far emergere i nostri punti di forza.
Di seguito, vogliamo riportarti un esempio, tratto dal protocollo introdotto dalla Geelong Grammar School (un prestigioso istituto superiore australiano) per insegnare il benessere ai propri studenti.
Durante la prima lezione del programma, agli studenti si chiede di scrivere una storia raccontando un momento in cui si sono sentiti al massimo delle proprie capacità. Successivamente, agli studenti viene sottoposto il VIA Signature Strenghts test, un test che permette di individuare i propri punti di forza personali (il test è gratuito ed è disponibile online). La maggior parte degli studenti scopre che nella storia che aveva scritto quei punti di forza erano protagonisti e questo permette loro di lavorare sui propri punti di forza, con la convinzione che questo lavoro li spingerà al massimo del proprio potenziale.
Prendere coscienza dei punti di forza (tutti noi ne abbiamo) è fondamentale, ma anche l’ambiente riveste un ruolo importante. Circondarsi di persone che conoscono i nostri punti di forza e che credono in noi e nei nostri talenti è il modo migliore per sviluppare un abito mentale forte. Non a caso, dopo aver fatto conoscere agli studenti della Geelong Grammar School i propri punti di forza, la lezione successiva è incentrata sulla costruzione di un “albero genealogico dei punti di forza“: gli studenti vengono invitati ad intervistare i propri familiari alla ricerca dei loro punti di forza, in modo tale da mappare i talenti della propria famiglia.
Prova a rispondere a queste domande:
  • Se dovessi descrivere i tuoi punti di forza, quali sarebbero?
  • E i punti di forza dei tuoi bambini?
  • Riesci a valorizzare questi punti di forza nella vita quotidiana?
  • Le persone che ti circondano conoscono i tuoi punti di forza? Li valorizzano?
Per ciascun punto di forza esistono delle attività che permettono di potenziarlo, allenando i nostri talenti e incrementando la nostra motivazione.
Stiamo lavorando per tradurre e adattare alcuni esercizi validati scientificamente per lavorare sui punti di forza.
A titolo di esempio ti suggeriamo di leggere le linee guida operative che abbiamo proposto per lavorare su uno dei 24 punti di forza esistenti (secondo la classificazione VIA): la perseveranza. 






sabato 27 luglio 2019

BUSSATE E VI SARA' APERTO


- 28 luglio 2019  - Lc 11,1-13 -  
XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

In quel tempo Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione».
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», e se quello dall'interno gli risponde: «Non m'importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani»,vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

Commento di Enzo Bianchi
Il brano del vangelo di questa domenica è in realtà composto di tre parti: la preghiera di Gesù (vv. 1-4), la parabola dell’amico insistente (vv. 5-8) e infine la sua applicazione (vv. 9-13). Tutto il brano si regge sull’informazione dataci da Luca a proposito degli atteggiamenti di Gesù durante il viaggio verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51). Anche in questo camminare Gesù si fermava, sostava e pregava: i discepoli lo vedevano impegnato in questa azione fatta certamente in un modo che li colpiva e li interrogava.
Proprio alla fine di una di queste soste in preghiera, non sappiamo in quale ora della giornata, se al mattino o alla sera, un discepolo gli chiede di insegnare a tutta la comunità come pregare, sull’esempio di ciò che aveva fatto Giovanni il Battista con quanti lo seguivano. In risposta, Gesù consegna una preghiera breve, essenziale che Luca e Matteo (cf. Mt 6,9-13) ci hanno trasmesso in due versioni. Quella di Luca è più breve, costituita innanzitutto da due domande che hanno un parallelo nella preghiera giudaica del Qaddish: la santificazione del Nome e la venuta del Regno. Seguono poi tre richieste riguardo a ciò che è veramente necessario al discepolo: il dono del pane di cui si ha bisogno ogni giorno, la remissione dei peccati e la liberazione dalla tentazione. Preghiera semplice quella del cristiano, senza troppe parole, ma piena di fiducia in Dio – invocato come Padre – nel suo Nome santo, nel suo Regno che viene. Avendo commentato più volte il “Padre nostro”, vorrei qui sostare piuttosto sui versetti seguenti, quelli che contengono la parabola e la sua applicazione.
Questa parabola è riportata solo da Luca, il quale vuole presentare la preghiera di domanda come preghiera insistente, assidua, che non viene meno ma che sa mostrare davanti a Dio una determinazione e una perseveranza fedele. Gesù intriga gli ascoltatori, li coinvolge e per questo, invece di raccontare una storia in terza persona, li interroga: “Chi di voi…?”. È una parabola che narra ciò che può accadere a ciascuno degli ascoltatori:

Chi tra voi, se ha un amico e va a casa sua a mezzanotte e gli dice: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, lo sente rispondere dall’interno: “Non procurarmi molestie! La porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me! Non posso alzarmi per darteli”? Vi dico: anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua insistenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Parabola semplice, che vuole mostrare come l’insistenza di una domanda provochi la risposta anche da parte di chi, pur essendo amico, sulle prime non è disposto a esaudirla. Sì, è l’insistenza (persino noiosa!) dell’amico e non il sentimento dell’amicizia a causare l’esaudimento e il conseguente dono: con la sua ostinata domanda un amico importuno può fare cambiare parere a un altro amico importunato.
Proprio perché le cose vanno così, Gesù allora commenta: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete,
bussate e vi sarà aperto.
È vero che non si usa esplicitamente il verbo “pregare”, ma è evidente che Gesù si riferisce sempre alla preghiera, proprio in risposta alla domanda iniziale del discepolo. Chiedete – raccomanda Gesù – cioè non abbiate paura di chiedere a Dio che è Padre, chiedete con semplicità, sicuri di essere esauditi da chi vi ama, e chiedete senza stancarvi mai. Si tratta di cercare con la convinzione della necessità della ricerca, con la convinzione che c’è qualcosa che vale la pena di essere cercato, a volte faticosamente, a volte lungamente, ma occorre essere certi che prima o poi si giungerà a trovare. Dove c’è una promessa, si tratta di attendere vigilanti, di cercarne l’esaudimento. Si tratta anche di bussare a una porta: se si bussa, è perché c’è speranza che qualcuno dal di dentro apra e ci accolga, ma a volte occorre bussare ripetutamente…
Di conseguenza, ci poniamo subito la domanda: perché Dio ha bisogno di essere più volte supplicato, perché vuole essere cercato, perché vuole che bussiamo ancora e ancora? Ne ha così bisogno? No, siamo noi che abbiamo bisogno di chiedere, perché siamo dei mendicanti e non vogliamo riconoscerci tali; siamo noi che dobbiamo rinnovare la nostra ricerca di ciò che è veramente necessario; siamo noi che dobbiamo desiderare che ci sia aperta una porta, in modo da poter incontrare chi ci accoglie. Dio non ha bisogno della nostra insistente preghiera, ma siamo noi ad averne bisogno per imprimerla nelle fibre della nostra mente e del nostro corpo, per aumentare il nostro desiderio e la nostra attesa, per dire a noi stessi la nostra speranza.
Ma a questa parabola e al suo primo commento Gesù aggiunge un’altra applicazione, sempre breve e sempre in forma interrogativa:
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà forse una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà forse uno scorpione? O se gli chiede un pane, gli darà forse un sasso
Ecco, questo non avviene tra un padre e un figlio, perché il legame di sangue impedisce un simile comportamento paterno, anche in caso di scarso affetto. A maggior ragione – dice Gesù – se questo non avviene tra voi che siete cattivi, eppure sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre che è nel cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono.
Quest’ultima parola di Gesù è stata meditata poco e con poca intelligenza dagli stessi cristiani negli ultimi secoli. 
Gesù sa, e per questo lo dice con franchezza, che noi umani siamo tutti cattivi (poneroí), perché in noi c’è una pulsione, un istinto a pensare a noi stessi, ad affermare noi stessi, alla philautía, l’amore egoistico di sé. Eppure, anche se questa è la nostra condizione, siamo capaci di azioni buone, almeno nel caso di un rapporto famigliare tra padre e figlio. 
Ebbene, se noi, pur nella nostra cattiveria, diamo cose buone ai figli che ce le chiedono, quanto più Dio, che “è il solo buono” (agathós: Lc 18,19), darà cose buone a chi gliele chiede! Ma come dimenticare che sovente abbiamo fatto di Dio un padre più cattivo dei nostri padri terreni? Scriveva Voltaire: “Nessuno vorrebbe avere come padre terreno Dio”, ed Engels gli faceva eco: “Quando un uomo conosce un Dio più severo e cattivo di suo padre, allora diventa ateo”. È così, ed è avvenuto così perché i cristiani hanno dato un’immagine di Dio come giudice severo, vendicativo e perverso, fino a spingere gli umani ad abbandonare un tale Dio e a negarlo! Gesù invece ci parla di un Dio Padre più buono dei padri di cui abbiamo fatto esperienza, insegnandoci che sempre Dio ci dà cose buone quando lo invochiamo.
Ma in questo brano c’è una precisazione importante e decisiva a proposito della preghiera. Luca si discosta dalla versione di queste parole di Gesù fornita da Matteo, perché sente il bisogno di chiarirle e di spiegarle. Sì, è vero che Dio ci esaudisce con cose buone (cf. Mt 7,11), ma queste non sempre sono quelle da noi giudicate buone. La preghiera non è magia, non è un “affaticare gli dèi” – come scriveva il filosofo pagano Lucrezio (La natura delle cose IV,1239) – o uno stordire Dio a forza di parole moltiplicate, dice altrove Gesù (cf. Mt 6,7-8). Dio non è a nostra disposizione per esaudire i nostri desideri, spesso egoisti ma soprattutto ignoranti, in senso letterale: non sappiamo ciò che vogliamo! Ecco perché – precisa la versione lucana – “le cose buone” sono in realtà “lo Spirito santo”. 
Sempre Dio ci dà lo Spirito santo, se glielo chiediamo nella preghiera, e lo Spirito che scende nella nostra mente e nel nostro cuore, lui che si unisce al nostro spirito (cf. Rm 8,16), è la risposta di Dio. Ma è bene fare un esempio, a costo di essere brutali. Se io, affetto da una grave malattia, chiedo a Dio la guarigione, non è detto che questa si verifichi effettivamente, ma posso essere certo che Dio mi darà lo Spirito santo, forza e amore per vivere la malattia in un cammino in cui continuare ad amare e ad accettare che gli altri mi amino. 
Questo è l’esaudimento vero e autentico, questo è ciò di cui abbiamo veramente bisogno!


https://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/13168-preghiera-gesu


giovedì 25 luglio 2019

LA RESILIENZA? UN'IMPORTANTE RISORSA PER VIVERE BENE


Tutti sappiamo quanto sia importante la resilienza: decenni di studi psicologici e manageriali hanno individuato nella resilienza l’elemento chiave che ci permette di superare le difficoltà e di crescere. Ma quali sono le caratteristiche delle persone resilienti?
Secondo Karen Reivich, professoressa della University of Pennsylvania e ricercatrice che si occupa di resilienza e di ottimismo, esistono otto dimensioni della resilienza. Se escludiamo la parte biologica (una delle otto dimensioni che influenzano la resilienza), esse sono:
  • Autoconsapevolezza: la prima caratteristica delle persone resilienti è la capacità di riconoscere i propri stati emotivi e quello che avviene dentro di noi;
  • Autoregolazione: la seconda caratteristica delle persone resilienti è la capacità di modificare i propri pensieri e il proprio comportamento in base alle circostanze; l’autoregolazione permette di pensare e di agire in base ai propri obiettivi e non esclusivamente in base ai propri desideri e agli impulsi. Anche la capacità di porsi degli obiettivi in modo efficace e strutturato rientra nella sfera dell’autoregolazione.
  • Agilità mentale: la terza caratteristica delle persone resilienti è la capacità di guardare le cose da più punti di vista differenti. L’agilità mentale include tutte quelle abilità che ci permettono di definire un problema, di analizzarlo e di cercare soluzioni; il problem solving è un componente mentale dell’agilità mentale.
  • Ottimismo: la caratteristica più importante delle persone resilienti. L’ottimismo, da quello che è emerso dagli studi scientifici, è un fattore protettivo importante per quanto riguarda le malattie cardiovascolari e allunga l’aspettativa di vita e la qualità della stessa. Non solo: le persone con uno stile di pensiero ottimistico sono naturalmente resilienti.
  • Autoefficacia: le persone resilienti sanno di potercela fare; se una certa strada non è percorribile, ne individueranno un’altra. Per fare questo, è necessaria la consapevolezza di poter contare sulle proprie abilità per affrontare i problemi, ovvero il senso di autoefficacia.
  • Relazioni sociali: la resilienza si sviluppa in presenza di una rete di sostegno; parenti e amici sono fondamentali nei momenti di difficoltà. Le persone resilienti hanno in comune una solida rete di relazioni sociali: avere delle persone su cui contare è una variabile cruciale per sviluppare la resilienza.
  • Spiritualità: credere in qualcosa di grande, più grande di noi, è un elemento comune alla maggior parte delle persone resilienti. La nostra fede (in una religione, in una causa sociale o ambientale, in un ideale) ci permette di superare i nostri limiti.
Cosa hanno in comune queste sette dimensioni della resilienza? Sono nelle nostre mani: possiamo allenare ciascuna di queste aree attraverso semplici esercizi introspettivi. Non solo: possiamo allenare anche i nostri figli affinché, coltivando queste sfere della propria personalità, possano crescere sereni e resilienti.

FONTI : Reivich, K., & Shatte, A. (2003). The Resilience Factor: 7 Keys to Finding your Inner Strength and Overcoming Life’s Hurdles. New York, NY: Broadway Books

Portale Bambini 





mercoledì 24 luglio 2019

STORIA, NUTRIMENTO PER I GIOVANI E ACCOMPAGNAMENTO VERSO IL FUTURO


Da Voltaire a Croce, da secoli gli intellettuali si interrogano sui fini dello studio del passato, comunque centrale per l’esperienza umana.
Toglierlo ai ragazzi, o ridurlo come qualcuno propone di fare a scuola, significa attenuare le loro facoltà naturali come la curiosità, la voglia di giudicare, di intervenire, di fare essi stessi la storia

di CARLO CARDIA

Un vasto dibattito s’è sviluppato di recente sulla questione della storia, come materia da apprendere e studiare a scuola, come parte essenziale di una cultura che deve lievitare in ogni luogo del sapere. Su un punto si è raggiunto un certo consenso, sul fatto che la storia non può essere dimidiata nella sua identità, né diluita per la presunta trasversalità in altre discipline, come pulviscolo utile ai rami della conoscenza. La trasversalità è certa, ma senza i fondamenti di una branca autonoma del sapere, essa perde consistenza, fornisce pezzetti di conoscenza privi di logica e organicità, azzera la ricerca di quel “senso del fluire delle generazioni”, che è base dell’evoluzione umana. I grandi dibattiti, di cui sono piene le biblioteche del mondo, riguardano gli interrogativi che tornano in ogni epoca. Cosa è la storia, in che misura è veritiera, o utile agli uomini, se insegna a migliorare. Le discussioni si nutrono delle rispettive culture di riferimento, razionaliste, storiciste, altre di tipo teleologico. La svolta illuminista, che ha Voltaire come grande alfiere, ritiene che la storia migliori gli esseri umani solo se privata d’ogni idealità, o idea di provvidenza, guardata con crudo raziocinio; e relega la storia antica in un orizzonte favolistico, perché non saremo mai in grado di conoscerla davvero. In realtà, anche Voltaire coltiva uno spunto finalistico quando afferma che essa riflette «i costumi e lo spirito delle nazioni», ma il razionalismo estremo non gli fa cogliere la complessità e la bellezza dell’azione dell’uomo che costruisce il presente e il futuro, fino a sostenere che alcune verità sono utili, altre inutili, e lo porta a tagliare, ignorare ciò che non serve al presente. Tra scetticismo e razionalismo, l’unica filosofia della storia consisterebbe nella critica della tradizione, si basa sulla Ragione e la Verità, ma così essa diviene spettacolo truce e rutilante, colmo di incoerenza e irrazionalità.
Per le culture teleologiche, che includono quelle di ispirazione religiosa, la storia non è un insieme di meri fatti e date, ma un concatenarsi di processi guidati da una freccia del divenire, ha più finalità. Benedetto Croce pensa che essa ci renda migliori, con una sua capacità maieutica, perché è l’inverarsi di uno spirito che supera i singoli eventi, li permea e avvolge, nell’ambito di una evoluzione che non procede a caso. La ricerca di un senso della storia è base d’ogni storicismo, quello idealistico che ci chiude in un determinismo che priva l’uomo di tanti spazi di libertà. O quello di Henri Bergson che vede nelle due fonti dell’etica e della religione le forze creatrici della storia, perché a ogni svolta etica corrisponde una grande innovazione nel mondo del diritto e nelle leggi. Si apre lo spazio alla libertà dell’uomo, avvertito sin dalla classicità e da chi attinge alla religione e alla sua evoluzione, per individuare traguardi e sconfitte, a seconda dei valori cui ci si ispira. Questo dibattito mostra la centralità della storia per l’esperienza umana, e chiedersi se essa abbia un senso è una domanda che per Dante non può nemmeno porsi, perché «nelle cose evidenti, è fastidioso dover addurre delle prove». Accettando invece la domanda, si stende lo sguardo su questioni che affascinano gli uomini d’ogni tempo: e una riflessione speciale può concernere un aspetto speciale della storia, quello del suo rapporto con i giovani, la sua utilità e centralità, per la loro maturazione.
Per i ragazzi, la conoscenza della storia è il primo cibo necessario per “situarsi” nel mondo e nella realtà, il resto è crescita, cultura, desiderio di sapere. Togliere, o ridurre, il primo nutrimento ai giovani significa attenuarne facoltà naturali come la curiosità, la voglia di giudicare, intervenire, fare essi stessi la storia. Vorrebbe dire, per Salvatore Settis, colpire il carattere costitutivo che essa ha per la formazione della persona e il suo rapporto con la realtà. Per Liliana Segre non si deve «rubare il passato ai ragazzi», perché così facendo, si finisce col togliere loro la capacità critica che si viene formando nell’età giovanile, mentre storia e analisi critica sono elementi indissociabili, esprimono la libertà con la quale l’essere umano guarda a sé stesso, alle vicende che l’hanno preceduto, costruito, lo preparano a vivere il futuro. Solo così, potranno porsi antichi interrogativi, e fornire insieme risposte nuove. Sono celebri gli opposti pareri su alcuni caratteri della storia, quello di Tucidide, per il quale «la storia si ripete», e l’altro di Vilfredo Pareto per cui «la storia non si ripete mai», e ancora di G. Macaulay Trevelyan per il quale le due affermazioni sono egualmente vere. Pezzetti di verità e d’ironia si ritrovano nell’opinione di Enoch Powell, per il quale «la storia è cosparsa di guerre che tutti sapevano che non sarebbero accadute», o di Alexis de Toqueville secondo cui «la storia è una galleria di quadri dove ci sono pochi originali e molte copie »; all’opposto, per Elias Canetti occorre «imparare dalla storia che da essa non c’è niente da imparare». In realtà i giovani comprendono presto, con l’ardimento loro proprio, che dalla storia si può imparare se ci si impegna a studiarla, anche perché a chi si rifiuta di imparare non servono né la storia, né la filosofia, o altre branche del sapere. Gaetano Salvemini è attirato dal lato oscuro degli eventi umani, perché solo l’immaginazione può riempire le lacune del puzzle della storia, mentre per Thomas Carlyle «le epoche felici dell’umanità sono le pagine vuote della storia», e in essa «contano anche i fatti non avvenuti». Per i ragazzi questi paradossi aiutano a pensare, introducono una dialettica che non ha mai fine. Infine, c’è il capitolo dell’attualità della storia, che può iniziare con il pensiero di Paul Johnson, secondo cui «lo studio della storia è un potente antidoto all’arroganza contemporanea ».
Nella modernità le lacune tendono a diminuire anche perché la storia si svolge sotto i nostri occhi, ed è quasi impossibile oscurare, insieme al bene, il male che si compie, soprattutto il male assoluto, che conosciamo e che sconvolge e ferisce i giovani più degli altri. L’arroganza resiste anche di fronte al male, l’arroganza di chi non vuole vedere, sapere, di chi addirittura (c’è anche questo) rivendica il male compiuto e vuole ripeterlo, scimmiottarlo, nasconderlo con tanti negazionismi. Resta soprattutto l’arroganza di chi vuole privare i giovani della capacità critica necessaria a chi voglia conoscere quella storia che parla dei valori, arricchisce la persona, la fa crescere. Basta pensare ai simboli che evocano e riassumono fatti ed epoche storiche, ma se la storia si cancella, anche il simbolo si svuota, non parla più. Poi alla storia che abitua a ragionare, cercare nessi di casualità, e attira i giovani per una più profonda comprensione dell’uomo e della sua creatività. Se però si emargina, si spezzetta e frantuma il nostro ragionare, si finisce con gli slogan, le frasi fatte, che costituiscono l’odierno flagello della non cultura, si finisce con il pensiero unico che annulla il pensiero. La storia è esattamente il contrario, si oppone agli slogan, alla superficialità, ai tweet, alla fretta.
Per Norberto Bobbio una cultura viva chiede di «valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare le testimonianze, non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda una scelta perentoria e definitiva». La storia si presenta ai giovani come la scienza del cambiamento, un orizzonte in perenne movimento, ed è così vasta da aprire la mente a mille ricerche e a tante prospettive nuove. Essa, però, chiede la riflessione della coscienza, l’inclusione di tutti, anche dei perdenti, mentre viene spesso utilizzata come uno scenario dal quale si vuole cacciar via qualcuno, espellere l’uno o l’altro dei protagonisti. Nel nascondimento della storia, a seconda dei negazionismi, si possono espellere gli immigrati, i popoli che si muovono, o che non hanno voce, perché essi semplicemente non si esistono. Si può abolire lo studio della religione, di una delle forze motrici dell’evoluzione, della cultura, della spiritualità di un popolo o interi continenti. O ancora, si può ridurre la naturalità dell’uomo a una scheggia della sua antropologia, stravolgendo la stagione dei diritti umani, sostituendoli con i desideri, le pretese, dell’individuo, con tutto ciò che è effimero. E si può proporre la storia solo di sé stessi, umiliando quella degli altri, ignorando che ogni qualvolta lo si è fatto, essa s’è di nuovo macchiata di sangue, di conflitti, egoismo. Infine, è questione dei giorni nostri, si vuole cancellare l’etica, la compassione, e la compromissione, dalla storia dell’uomo ignorando le conseguenze che ne derivano, per la dignità dell’uomo, per l’ingigantirsi degli egoismi, per chiudersi e coltivare i propri piccoli trofei, ignorare i traguardi più grandi dell’umanità.
Studiare, coltivare la storia, vuol dire invece, per l’uomo, per i giovani soprattutto, proseguire un cammino che valorizza l’opera umana, dona significato e valore ai contributi che ciascuna generazione reca in termini di conoscenza, sapienza, spiritualità. Essa è il più grande teatro che si possa immaginare, senza che alcun autore scriva alcun testo o inventi scenari, perché ogni cosa è stata scritta, sofferta, realizzata direttamente dagli esseri umani.






sabato 20 luglio 2019

MARTA o MARIA ?

Commento aL Vangelo 


Vangelo: Lc 10,38-42 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )
 
Visualizza Lc 10,38-42
Partiamo dal Libro della Genesi in cui ci viene raccontato l'ospitalità di Abramo ai tre ospiti inattesi nell'ora più calda.
In questo brano ci viene rivelato che la comunione più profonda tra Dio e gli uomini non è tanto di natura cultuale, ma piuttosto quello conviviale, più di quanto ciò non avvenga attraverso “olocausti e sacrifici”.
L'ospitalità è ben più che l'adempimento di una legge. Sotto la tenda dell'uomo credente, rappresentato da Abramo, diventa un'occasione singolare per fare esperienza di Dio, accogliendo lui stesso nei «fratelli più piccoli». Gesù lo dirà a chiare lettere attraverso il dialogo «con i benedetti» del giudizio finale: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me” (Mt 25, 37-40).
Nel viaggio verso Gerusalemme Gesù entra in un villaggio e viene ospitato da Marta.
Questa donna si caratterizza per la sua ospitalità. La sua è un'ospitalità operosa Ella, infatti, si presta per far sì che all'ospite non abbia a mancare niente. Questo muoversi di Marta Nello stesso tempo sembra limitarsi alla dimensione superficiale. In altre parole Marta si limita alla dimensione dell'accoglienza.
Alla figura di Marta si unisce quella di Maria che non intende perdere una parola del Maestro e per questo si pone ai piedi di Gesù.
Il confronto tra Marta e Maria ci porta a dire che la prima è l'icona della vita attiva mentre la seconda è l'icona della vita contemplativa. Quello che dobbiamo fare è sgomberare questo luogo comune.
Maria è colei che sa scegliere in un ordine di priorità Marta è l'icona della persona a cui tutto sembra importante ma perde di vista l'ordine delle cose. Allora a fronte di queste due figure e di questo brano dovremmo considerare come vivo le mie giornate e quali priorità so mettere. Come vivo la mia preghiera e come la desidero e la avverto come la sola cosa di cui c'è bisogno. Allora penso sempre che per vivere anche la mia esperienza di vita cristiana in famiglia, in comunità e nel lavoro il saper vivere la dimensione contemplativa e attiva con equilibrio rimane importante.
Ancora una volta sono i Santi maestri di questa abilità nel saper coniugare l'azione e la preghiera. L'esempio è quello di Madre Teresa di Calcutta. Dice di Lei il Cardinal Comastri:
“Ho visto Madre Teresa per la prima volta nel 1968 qui a Roma - ha ricordato il card. Comastri - La Madre era la prima volta che veniva nella Capitale. All'epoca ero vice parroco a San Luca al Prenestino, avevo sentito parlare di questa suora e sentivo il desiderio d'incontrarla. Ero prete da un anno e sentivo il bisogno di chiederle di pregare per me. Quando ci siamo trovati davanti mi strinse forte le mani e mi disse: ‘Quante ore preghi al giorno?' Rimasi spiazzato e risposi: ‘Dico la messa, il breviario e il Rosario tutti i giorni', nel '68 era quasi un eroismo e mi sembrava già di fare tanto. Ma lei mi disse: ‘E' troppo poco, nell'amore non ci si può limitare al dovere, bisogna fare di più. Fai un po' di Adorazione ogni giorno altrimenti non reggi'. Così riposi: ‘Ma Madre da lei mi sarei aspettato che mi chiedesse quanta carità fai' e lei guardandomi con occhi penetranti mi disse: ‘E tu credi che io potrei andare dai poveri se Gesù non mi mettesse nel cuore il suo Amore? Ricordati che Gesù per la preghiera sacrificava anche la carità. Senza Dio siamo troppo poveri per poter aiutare i poveri'. Queste parole le ricordo ogni giorno”.
Siano le parole che ci aiutano a vivere la nostra vita di ogni giorno.



ALLA RICERCA DELL'ANIMA

Che è accaduto alla nostra anima?


di Giuseppe Savagnone

Vorrei dedicare questa riflessione non alle vicende politiche di questi ultimi mesi – o forse sarebbe più appropriato dire: di questi ultimi anni –, ma a noi, agli italiani, e a ciò che nel corso di queste vicende è accaduto alla nostra anima. Sì, all’anima delle persone.
Perché anche tanti che pure non credono in un principio immortale dentro l’uomo, anche tanti che sono alieni da prospettive religiose o magari soltanto “spirituali”, in questa ormai lunga stagione della nostra vita pubblica che va sotto il nome di «Seconda Repubblica» hanno percepito, più o meno oscuramente, che qualcosa stava venendo meno, a un livello molto profondo, in quella sfera segreta in cui si decide l’ atteggiamento delle persone verso la vita e verso gli altri, e che qui chiamo “anima”.
La «bancarotta spirituale»
Che questo disagio non sia l’illusione ottica di un cattolico nostalgico del passato mi sembra lo confermi la pagina letteraria di «Repubblica» del 10 maggio 2018, dove si pubblicava un testo del monaco trappista Thomas Merton.
Il titolo dato dal curatore era: «La vera bancarotta è quella spirituale». E nell’“occhiello” si leggeva: «Perdere l’anima». Eloquente la presentazione del pezzo: «Era lo scorso secolo. Ma sembra oggi».
Scriveva Merton: «Generazioni su generazioni di uomini hanno a tal punto perduto il senso di una vita interiore, si sono talmente isolati dalle loro profondità spirituali (…), che ora noi siamo quasi incapaci di godere di una qualsivoglia pace, quiete, stabilità interiore. Gli uomini sono arrivati a vivere esclusivamente sulla superficie del loro essere (…). Siamo lasciati in balìa di stimoli esterni e la stimolazione è arrivata addirittura a prendere il posto che, una volta, era occupato dal pensiero, dalla riflessione e dalla conoscenza».
Una malattia che colpisce in primo luogo i giovani
Il fenomeno, in sé, è antico quanto l’uomo. Ma ci sono epoche in cui il contesto culturale e sociale favorisce questo smarrimento profondo.
I primi ad essere colpiti sono i più giovani. Penso al triste fenomeno dei Neet – i ragazzi che non studiano, né lavorano, né cercano lavoro –, che in Italia sono il 29,1% dei giovani tra i 18 e i 24 anni (quasi uno su tre!); penso ai suicidi, che tra gli under 25, sono nel nostro Paese la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali; penso ai comportamenti balordi e anch’essi in sostanza autodistruttivi, sotto l’influsso dell’alcol o delle droghe…
Tv e crisi della politica nella “Seconda Repubblica”
Questo “vuoto dell’anima” si è da un lato alimentato, dall’altra manifestato grazie al progressivo deterioramento dei programmi televisivi, all’irrompere del vocìo dei social, al decadere degli stili della politica.
Nell’ultima fase del secolo scorso è stato il passaggio dalla Tv “pedagogica” dei grandi sceneggiati televisivi – come «Jane Eyre» o i «Promessi Sposi» – a quella commerciale del «Grande Fratello» a segnare un irreversibile imbarbarimento.
Nel frattempo la politica diventava spettacolo, con i volti dei leader e gli slogan pubblicitari al posto degli ideali e dei programmi, con l’inizio del dominio della post-verità, in grado di capovolgere la realtà sostituendola con dei miraggi, con l’offuscamento delle tradizionali regole della dignità e del pudore.
Una crisi vissuta dalla “destra” all’insegna del potere del denaro e del mito del successo, efficacemente rappresentato dal personaggio di Berlusconi; dalla “sinistra” sostituendo alla ormai obsoleta concezione marxista quella liberal-borghese dell’individualismo possessivo (ognuno è proprietario del proprio corpo e della propria vita e non deve risponderne a nessuno) e dei diritti senza doveri.
Lo sviluppo senza solidarietà
In questo deserto valoriale, dove la cosiddetta “fine delle ideologie” mascherava in realtà il trionfo dell’unica sopravvissuta, condivisa alla fine dagli opposti “poli”, nessuno si è più occupato dei più deboli, dei poveri, delle generazioni future.
Lo sviluppo c’è stato, ma la forbice tra ricchi e poveri si è allargata sempre di più. Quando Renzi fece la riforma fiscale dovette ammettere che essa non riguardava quei cinque milioni di italiani, detti “incapienti”, che non potevano neppure pagare le tasse, perché non avevano il reddito minimo per farlo, mente i membri (numerosi) della “casta” fruivano di pensioni stratosferiche a spese dei contribuenti.
Il popolo senz’anima
L’avvento del cosiddetto “populismo” è stata la logica reazione a questa situazione. Sostenuto dall’avvento dei social e dal nuovo potere che essi davano a chiunque di esprimersi e di pesare, esso ha sovvertito il quadro politico e portato alla ribalta nuovi protagonisti.
Purtroppo, il soggetto di questa rivoluzione, in sé legittima, era un popolo da tempo svuotato dei vecchi valori e incapace di trovarne altri alternativi, che si è trovato protagonista della politica (emblematico il peso che hanno i sondaggi) senza avere mai avuto una educazione alla cittadinanza e al bene comune (l’“educazione civica” nelle nostre scuole è rimasta sempre un fantasma) né dalla famiglia (peraltro a tempo in crisi), né dalla scuola (sempre più ispirata ala logica della “trasmissione dei saperi” piuttosto che a quella dell’educazione), né dalla parrocchia (ormai ridotta spesso a una stazione di servizio per la distribuzione di sacramenti).
Il “vuoto dell’anima” sui social
Il “vuoto dell’anima” in realtà era ancora più profondo. La politica ne è stato solo un drammatico specchio. Il declino della morale diffusa e della religiosità popolare del passato ha potuto dare un senso di maggiore libertà.
Salvo però a scoprire che, insieme a tante altre cose, è venuta meno anche quella base valoriale condivisa che garantiva, al livello pubblico, il retroterra “privato” di una spiritualità e di un’etica ispirate al vangelo e dunque umane.
Lo spettacolo spaventoso (cito solo un esempio tra i mille) di un’ondata di commenti inneggianti al suicidio di un immigrato che temeva il ripatrio – «Uno di meno!»; «Morite tutti!» e cose del genere – è un fatto culturale che dovrebbe atterrire (e in effetti a volte atterrisce) anche chi è favorevole alla politica dei “porti chiusi”, perché rivela una “perdita” dell’anima ben più profonda del piano delle scelte che riguardano la politica.
Programmi politici inadeguati
Anche se poi la politica della “destra” l’intercetta e la usa, come fa Salvini, per suffragare queste scelte, che vengono incontro a una sensibilità ormai diffusa, permettendosi anche di presentarle come scelte “evangeliche”, solo perché avallate da simboli religiosi e a preghiere ai santi (a tal punto è arrivata la perdita del senso del vangelo tra i “cattolici”!).
Come del resto, sul fronte opposto, si crede di poter rivitalizzare l’asmatico respiro della “sinistra” promettendo, come ha fatto recentemente Zigaretti, una lotta decisa per far passare la legge sull’eutanasia.
Non – attenzione – un progetto per conciliare l’accoglienza con l’integrazione (ciò su cui i governi di “sinistra” hanno miseramente fallito nel passato); non una serie di iniziative coraggiose per venire realmente incontro agli italiani poveri (quelli che Salvini cita sempre per spiegare perché respinge i migranti, ma a cui offre come soccorso il condono agli evasori fiscali e, in prospettiva, la riduzione delle tasse ai ricchi).
Garantire il diritto dell’individuo di morire senza risponderne a nessuno: questo l’ambizioso obiettivo, in una società dove moltissimi vorrebbero invece assicurato il diritto di vivere, sulla base di una visione in cui la libertà sia praticata come reciproca responsabilità.
Al di là dell’individualismo possessivo
Al posto dell’individualismo possessivo deve rinascere una cultura della solidarietà, dove l’“essere” della persona sia più importante dell’“avere” e dove i doveri vengano prima dei diritti. Ma questo non sarà possibile se le persone non saranno messe in grado di uscire dalla superficialità del flusso mediatico e di ritrovare se stesse.
Scriveva Thomas Merton: «La bancarotta spirituale dell’uomo non gli ha lasciato nessuna possibilità di rifugiarsi in se stesso, nessuna cittadella interiore in cui potersi ritirare per raccogliere le forze (…). L’ultimo posto al mondo in cui l’uomo moderno cerchi rifugio e consolazione sono le profondità della propria anima (…). Il pensiero di prendere residenza in noi stessi ci alletta quanto quello di vivere in una casa infestata fantasmi».
Il compito delle comunità educanti
Le tradizionali comunità educanti – la famiglia, la scuola, la Chiesa – devono uscire dallo stato di paralisi in cui le hanno messe i nuovi stili comunicativi e mettere in azione la loro fantasia, per ripartire da qui. Dalla ricerca e dalla riscoperta dell’anima. Se la ritroveranno le persone, anche la politica – al di là della diversità delle posizioni – tornerà ad averne una.
È un progetto a lunga scadenza, certo, come tutti quelli che riguardano le profondità dell’essere umano. Ma le soluzioni a breve termine sono ingannevoli. Si crede di uscire dal buio ma, se non cambiano le persone, da Berlusconi si passa a Renzi e da Renzi a Salvini… 
L’esperienza dice che al peggio non c’è fine. Solo se riusciremo a riaprire le porte del pensiero e della riflessione potremo sperare di sconfiggere i mostri che si aggirano nel grande vuoto, perché questo vuoto non è chi sa dove, è dentro di noi.