sabato 23 novembre 2024

L'UNICO RE


 --Domenica 24 Novembre 2024--

 NOSTRO SIGNORE 

GESÙ CRISTO 


RE DELL'UNIVERSO



Commento al brano del Vangelo di: Gv 18,33-37

Commento al Vangelo del 24 novembre 2024 a cura di p. Alberto Maggi OSM

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Allora, è il processo a Gesù secondo Giovanni. È il capitolo 18 del suo Vangelo, ed è un processo un po’ strano perché c’è il giudice che ha paura dell’imputato e l’imputato che rivolge le domande al giudice. Poi la sentenza, alla fine, non sarà emessa dal giudice ma dall’imputato.

Perché? Perché, mentre Gesù, legato, è pienamente libero, Pilato, che è libero, in realtà è prigioniero dei condizionamenti: della sua convenienza, del potere che detiene e di quello che soprattutto vede in pericolo e vuole mantenere.

 Pilato, questa volta, rientrò nel pretorio, chiamò Gesù e gli disse: “Tu sei il re dei Giudei?”.

Pilato, che ha partecipato alla cattura di Gesù con l’invio di un battaglione di soldati, vuole rendersi conto in che cosa consista l’accusa che gli hanno fatto. Perché è il primo interrogatorio del procuratore romano a colui che è stato accusato di essere un malfattore.

“Re dei Giudei” era la designazione del Messia, l’atteso liberatore dalla dominazione romana. Quando i capi dei Giudei vorranno accusare Paolo e Sila, riformuleranno la stessa accusa: “Costoro vanno contro i decreti dell’imperatore, affermando che c’è un altro re: Gesù”.

La domanda di Pilato mostra che Gesù è stato accusato di essere un agitatore politico, che vuole mettersi a capo di una ribellione contro l’Impero romano. Uno dei tanti messia che, regolarmente a quel tempo, si rivoltavano contro Roma.

Per esempio, negli Atti si legge di un altro Galileo, il famoso Giuda il Galileo: al tempo del censimento indusse molta gente a seguirlo. Ma anche lui finì male, e quelli che si erano lasciati trascinare da lui si dispersero.

Era tipico, in quell’epoca, che ogni tanto capitasse qualcuno che si metteva a capo di un gruppo. Ma qui Pilato esprime tutta la sorpresa del rappresentante del potere imperiale romano, nel trovarsi di fronte a un uomo che ha tutto, tranne l’apparenza di un pericoloso sobillatore.

Ma Gesù replicò. Gesù non risponde, per ora, a Pilato. Non è per nulla intimidito e, mantenendo la piena padronanza di sé, è lui che gli rivolge una domanda:

“Gesù replicò: ‘Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto di me?'”.

Esattamente come ha fatto con la guardia. Ricordate? Quando la guardia lo ha schiaffeggiato,

 Gesù ha detto: “Oh, se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?”.

Gesù invita quindi Pilato a ragionare con la propria testa, a non essere condizionato da quello che gli hanno detto.

Pilato reagisce:

“Pilato reagì: ‘Sono io forse giudeo? La tua nazione e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?'”.

Nella relazione disgustata di Pilato si legge tutto il profondo disprezzo che il procuratore nutriva verso i Giudei. Pilato ricorda a Gesù che è stata la sua intera nazione a rifiutarlo e che i suoi rappresentanti più alti sono quelli che lo hanno denunciato e condotto a lui.

Gesù è stato condotto da Pilato con l’accusa di essere un malfattore, un criminale talmente pericoloso per il sistema che non solo le autorità religiose, i sommi sacerdoti, ma anche il popolo, la “tua nazione”, lo odia.

Lo ritengono più pericoloso dei pur odiati e temibili dominatori, che vengono addirittura adoperati come strumento della loro vendetta. Tutti sono contro Gesù: sia coloro che detengono il potere religioso, sia quelli che sono sottomessi a questo potere.

Gli uni, coloro che detengono il potere religioso, vedono in Gesù una minaccia al proprio prestigio. Gli altri, coloro che sono sottomessi a quel potere, vedono in Gesù una figura che mette in pericolo la sicurezza che il sistema religioso offre.

Si realizza quanto Giovanni aveva annunciato nel Prologo:
“Venni tra i suoi, ma i suoi non lo accolsero”.

Rispose Gesù: “‘Il regno, quello mio, non è di questo mondo’.

Gesù non risponde alla domanda finale di Pilato: ‘Che hai fatto?’, ma solo alla prima, quella che riguardava la sua regalità.
‘Il regno, quello mio, non è di questo mondo. Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei. Ma il mio regno non è di qui'”.

Il regno di Gesù non si fonda sul potere. Per questo la violenza, propria di quanti detengono il potere, non è contemplata nel suo regno. Gesù è venuto a comunicare vita, non a toglierla.

Gesù, il Dio a servizio degli uomini, è venuto a inaugurare un regno dove il re non esercita dominio ma amore. Non usa alcun tipo di violenza e non ha servi, perché non c’è bisogno di servi: lui stesso è il servitore dei suoi.

Gesù afferma che il suo regno non è un reame, nel senso geografico, ma il potere. La sua regalità non è “di questo mondo”. Questo, però, non significa che non sia “in questo mondo”.

L’evangelista non sta contrapponendo il cielo alla terra, ma due mondi differenti:

  • Il mondo di Gesù, quello dell’amore che comunica vita.
  • Il mondo di Pilato, quello dell’odio che uccide la vita.

Nessuna conciliazione è possibile tra questi due mondi:

  •  Il mondo del potere è il regno delle tenebre e della menzogna.
  • Quello di Gesù è il regno della luce e della verità.

L’uno comunica morte; l’altro comunica vita.

Allora Pilato gli disse: “‘Dunque, tu sei re?'”.

Pilato si trova spiazzato da questo individuo, che non dimostra alcun atteggiamento remissivo, pur sapendo di essere di fronte a colui che può condannarlo a morte oppure liberarlo.

Per Pilato, ciò che Gesù afferma è semplicemente assurdo, poiché non vede in questo prigioniero, in questo Galileo, alcuna delle connotazioni che fanno di un uomo un re. La domanda di Pilato, quindi, esprime tutta la sua ironia ma anche la sua curiosità.

Rispose Gesù: “‘Tu dici che sono re’.

A Gesù non interessa il tema della legalità e tronca bruscamente il discorso per portarlo su quello della sua missione.
“‘Io per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità’.

E qui c’è un’affermazione che dovremmo comprendere, perché è strana, non ce l’aspetteremmo:  “‘Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce'”.

Gesù rivela la verità di Dio in quanto manifesta l’amore, e la verità sull’uomo, chiamato a divenire figlio di questo Dio per realizzare il progetto del Padre su di lui.

La frase di Gesù è parallela a quella che ha esposto nel dialogo con il fariseo Nicodemo, quando dice: “‘Chiunque, infatti, fa il male odia la luce; chi fa la verità va verso la luce'”.

Pone così una stretta relazione tra la luce e la voce di Gesù, entrambe condizionate e precedute dalla verità. “Fare la verità”, in opposizione a “fare il male”, significa operare per il bene degli uomini, come si vede dal parallelismo:

  • Quanti fecero il bene.
  • Quanti fecero il male.

Gesù non afferma che chi ascolta la sua voce si situa nella verità, come ci saremmo aspettati. Non dice:
“‘Chiunque ascolta la mia voce è nella verità'”.

Ma invece: “‘Chi è dalla verità ascolta la mia voce'”.

Quindi, appartenere alla verità precede il fatto di poter ascoltare. “Ascoltare” in senso di capire, comprendere la sua voce. È la condizione.

Quindi, non si tratta di avere la verità, perché la verità non è una dottrina che si possiede, ma è un atteggiamento che caratterizza la vita del credente. Per questo Gesù parla di essere nella verità, di fare la verità.

Essere nella verità e fare la verità è ciò che permette l’ascolto e la comprensione del messaggio di Gesù. Significa orientare la propria esistenza a favore del bene dell’uomo, operando in modo da favorire la vita e mettendo sempre il bene dell’altro come principio assoluto della propria esistenza.

Quanti lo fanno sono in grado di ascoltare e di capire la voce di Gesù. Quindi, non chi ascolta la voce è dalla verità, ma chi è dalla verità — cioè chi ha messo la sua vita al servizio degli altri — può ascoltare e capire la voce di Gesù.

Altrimenti, anche se potranno predicarla, non la capiranno. Pertanto, per ascoltare e aderire a Gesù si richiede una disposizione previa d’amore alla vita e all’uomo.

Come ha già detto Giovanni nel prologo: “‘La vita è la luce dell’uomo’”.

Per questo i farisei, che non sono e non fanno la verità, sono refrattari alla voce del pastore.

Pilato rispose: “‘Che cos’è la verità?'”.

Pilato si mostra incapace di cogliere il significato profondo delle parole di Gesù. È un uomo dominato dal potere, dalle convenienze e dai condizionamenti della sua posizione.

Per lui, la verità non è una realtà vivibile, ma un concetto astratto, senza significato pratico. La sua domanda, quindi, non è una ricerca autentica, ma una chiusura.

La verità, come la intende Gesù, è l’amore incondizionato, che si traduce in un dono di vita agli altri. Una verità che non si limita a essere pensata, ma si vive e si manifesta nell’azione.

Dopo aver detto questo, Pilato uscì di nuovo verso i Giudei:  “‘Io non trovo in lui alcuna colpa’”.

Pilato, pur trovando Gesù innocente, non ha la forza di liberarlo. Cede alle pressioni dei capi religiosi e del popolo, dimostrando di essere prigioniero del sistema e incapace di agire secondo giustizia.

Il processo si concluderà con la condanna di un innocente e la dimostrazione del fallimento di un potere che non sa farsi portatore di verità e giustizia.

Riflessioni finali:
Il dialogo tra Gesù e Pilato ci invita a riflettere su quale mondo scegliamo di appartenere:

  • Quello del potere, che divide e uccide.
  • Oppure quello dell’amore, che unisce e dona vita.

La verità, per Gesù, non è una dottrina, ma una vita vissuta nel dono, nel servizio, nella piena adesione al bene degli altri. Solo chi vive questa verità può ascoltare e comprendere la sua voce, entrando a far parte del suo regno.

Conclusione:
Grazie per la vostra attenzione. Che questo dialogo ci aiuti a rinnovare il nostro impegno per vivere nella verità e nell’amore.

Cercoiltuovolto

 

STUDENTI IN CATTEDRA


 
In classe non può esserci solo la lezione frontale, i docenti devono stare più vicini agli studenti. 

Il voto? A volte viene usato come un’arma impropria”. 


INTERVISTA con Maurizio Parodi

-Di Fabrizio De Angelis

Imparare ad imparare insieme. E’ questo quanto si prefigge il metodo “Studenti in cattedra”, ideato da Maurizio Parodi, già dirigente scolastico, ricercatore e formatore in ambito socio-pedagogico. Quello di Parodi è un metodo innovativo sull’apprendimento a scuola, dedicato ai ragazzi delle scuole superiori, che punta a coinvolgere attivamente i protagonisti, ovvero gli studenti, in ogni passaggio: dall’individuazione dei temi da studiare alla valutazione. Il metodo è stato sperimentato per due anni scolastici presso il liceo Newton di Brescia, esperienza che Parodi ha di fatto condensato all’interno del volume “Sic – Studenti in Cattedra” edito da Erikson.

Intervistato da Orizzonte Scuola, l’ideatore del metodo ci spiega in modo più approfondito gli aspetti di Sic, riflettendo contemporaneamente sullo stato dell’apprendimento della scuola italiana, sulla lezione frontale e sulla valutazione.

Qual è l’obiettivo che si vuole raggiungere con il metodo “Studenti in cattedra”?

Il metodo SiC si rivolge alle classi degli istituti di scuola secondaria di secondo grado ed è pensato per consentire agli studenti e alle studentesse di imparare a imparare insieme, a scuola, valorizzando, arricchendo e potenziando le strategie cognitive di ciascuno, responsabilizzando tutti gli attori, docenti compresi, rispetto al conseguimento degli obiettivi didattici programmati. Il riferimento, dichiarato, è alle competenze di cittadinanza già enunciate nella “Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006″: Imparare a imparare è l’abilità di perseverare nell’apprendimento, di organizzare il proprio apprendimento anche mediante una gestione efficace del tempo e delle informazioni, sia a livello individuale che in gruppo.

Ci spiega il ruolo degli insegnanti in questa prospettiva di apprendimento?

In fase di programmazione didattica, l’insegnante deve individuare i contenuti essenziali della propria disciplina, ovvero stabilire priorità, scegliere a cosa dedicare maggiore attenzione rispetto sia al piano di lavoro previsto per l’anno in corso, sia allo sviluppo verticale e orizzontale del curricolo, e quantificare l’impegno richiesto in rapporto al tempo effettivamente disponibile, stabilendo la possibile ripartizione degli argomenti. Non meno importante la declinazione operativa degli obiettivi, in termini di sapere e saper fare che sposta l’attenzione dell’insegnante dal contenuto al processo, dalla nozione alla competenza. Insomma un bagno di realtà che mette al riparo dal rischio di “rimanere indietro” nello svolgimento del famigerato “programma” troppo spesso licenziato senza considerare adeguatamente, realisticamente i limiti dati, come se si operasse al di fuori delle umane coordinate di spazio e tempo, salvo poi appaltare parti sempre più consistenti del curricolo all’autonoma gestione degli studenti, dei loro genitori o di “privati” insegnanti (aggravando le diseguaglianze), e imporre estenuanti tour de force a ridosso delle scadenze istituzionali.

E poi? Cosa fa un docente in questo contesto del SIC?

In fase di svolgimento dell’attività, deve organizzare correttamente il lavoro di riflessione e rielaborazione da parte degli studenti, abituando al rispetto dei tempi e delle procedure, sollecitando il contributo individuale e del gruppo, favorendo l’interazione tra i pari, evitando di dare risposte immediate e dirette in caso di dubbi e incomprensioni, così da valorizzare il confronto e la partecipazione. L’insegnante ha dunque un ruolo di regia organizzativa e didattica, e non di protagonista, perciò interviene quando necessario, per stimolare, integrare, correggere, e solo se necessario, interrogandosi costantemente sulla misura di tale necessità. Deve, inoltre, sostenere l’impegno degli studenti nella progressiva acquisizione delle tecniche di studio previste dal “protocollo”: prendere appunti, selezionare i punti essenziali, riformulare sinteticamente i contenuti, elaborare la sintesi condivisa. Proprio l’elaborazione della sintesi condivisa costituisce il passaggio di maggior pregio metacognitivo.

Cioè?

Non si tratta, infatti, di condividere un elenco di punti individuati sulla base delle sintesi formulate grazie al lavoro individuale e di coppia, attività tutt’altro che banale, ma di procedere alla strutturazione lessicale, sintattica, grafica di uno “schema”, necessariamente articolato e complesso; operazione delicata rispetto alla quale l’intervento maieutico del docente è fondamentale.

Perché la lezione frontale viene messa continuamente in discussione? Ha formato generazioni intere in passato…

Il metodo Sic non bandisce la lezione frontale che però non può essere la modalità prevalente o la sola praticata da una didattica verbosa e cattedratica; l’insegnante deve comunque predisporre i materiali tenendo conto del tempo effettivamente disponibile, sapendo che ogni somministrazione avrà la durata di circa 10 minuti, sforzandosi di utilizzare i mediatori didattici più diversi e consoni, i più stimolanti, coinvolgenti, suggestivi, meglio se opportunamente integrati così da intercettare le dominanze cognitive, le intelligenze, le sensibilità percettive dei destinatari, tenendo conto di bisogni speciali, disturbi specifici o necessità particolari. In tal modo si forniscono, direttamente e implicitamente, tecniche espositive delle quali gli studenti possano avvalersi per le loro presentazioni. Va detto, al riguardo, che la diversificazione degli stimoli e la minore esposizione diretta dell’insegnante, consente di affrontare più attentamente e naturalmente eventuali problemi individuali, meno considerati laddove prevalgano didattiche uniformi, unidirezionali. Se il docente scende dalla cattedra privilegiando un insegnamento indiretto e l’uso di supporti e dispositivi tecnologici e audiovisivi, può stare più vicino agli studenti, in particolare a chi sia più bisognoso.

Il metodo da lei proposto tende a responsabilizzare in qualche modo i ragazzi. Eppure da più parti si cerca quasi di screditarne il valore delle nuove generazioni, definendoli “vuoti” e “sbandati”. Cosa ne pensa?

Se anche lo fossero, dovremmo domandarci perché lo siano. Si tratta di ragazzi che hanno trascorso “gli anni migliori della loro vita” a scuola e a svolgere compiti scolastici, ci si dovrebbe perciò interrogare sulla responsabilità di cotanta irresponsabilità. Dovremmo, intanto, domandarci quando gli studenti facciano esercizio di responsabilità reali, quando ricoprano ruoli autenticamente facoltosi: mai o quasi mai; oppure quali siano gli spazi di negoziazione reale loro riconosciuti: pochi o del tutto inesistenti. Sono costretti in una condizione di minorità prolungata a dismisura da una “pedagogia della dipendenza” che li appiattisce nello svolgimento di compiti meramente esecutivi.

Lei è stato il principale promotore di “Basta Compiti!”, che vuole in questo caso, oltre far risparmiare ore di esercizi e compiti a casa o durante le vacanze, responsabilizzare gli studenti con maggiori attività in classe. Si può dire che c’è una continuità fra “Basta Compiti!” e “Studenti in cattedra”, seppur minima?

C’è, eccome! È ampiamente noto che per accrescere le facoltà mentali bisogna disporre delle nozioni basilari, occorre cioè sapere, ma ben più rilevanti sono le modalità di trattamento e uso delle informazioni e, più in generale, la capacità di mobilitare strategicamente le abilità acquisite, di trasferirle in contesti nuovi e diversi. Dunque è necessario imparare, ma è fondamentale imparare a imparare. E la scuola cosa fa? Gli insegnanti danno i compiti a casa, perché gli studenti imparino, memorizzando le nozioni, e imparino a imparare, acquisiscano, cioè, il metodo di studio. Gli insegnanti spiegano a scuola e gli alunni studiano a casa. In altre parole, a scuola s’insegna e a casa s’impara. Uno stupefacente paradosso. Se la capacità di imparare è per gli individui la risorsa più preziosa, allora la scuola dovrebbe considerarla una priorità istituzionale, dovrebbe collocarla al centro della propria riflessione pedagogica, dovrebbe concentrare su di essa il massimo impegno, dispiegare tutti i mezzi disponibili e profondere le migliori energie, dovrebbe farne il cuore della propria mission.

Cosa ne pensa della riforma sulla valutazione e la condotta approvata recentemente dal Governo?

Credo che la scuola debba, innanzitutto “disarmarsi” rispetto alla valutazione, smettere di usare il voto, alla stregua di un’“arma” spesso “impropria” e non di rado letale, nel senso della mortalità scolastica, emendandone la pratica dagli elementi di arbitrio che ne fanno lo strumento principe di un potere esercitato anche abusivamente, con chiaro intento vessatorio. Altro è condividere con gli studenti la valutazione delle conoscenze e delle competenze, ma anche dei processi di apprendimento, dell’efficacia dell’azione didattica, esplicitando e, laddove possibile, discutendo, concordando criteri e strumenti, con il duplice risultato di sollecitare una maggiore attenzione, quando non l’impegno diretto, da parte degli studenti, e di limitarne l’esercizio arbitrario, umorale per non dire ideologico.

Perché quindi condividere la valutazione con gli studenti?

Condividere l’impegno della valutazione può aiutare gli studenti ad acquisire una maggiore consapevolezza di sé e degli altri, un controllo più consapevole del proprio agire, sostenendo gli stessi meccanismi di metacognizione, alla efficace gestione dei quali è per molta parte affidato il successo non solo scolastico. L’autorità della scuola e del docente è in primo luogo un riflesso dell’autorità della cultura; non quella immediata che si respira negli ambienti di vita o attraverso i social, bensì quella elaborata o rielaborata incessantemente dall’educatore, affrontando le sfide del presente anche con gli strumenti offerti dalla grande tradizione del passato. L’autorità affidata al mero esercizio del potere impedisce la crescita, blocca le energie, spegne la vita.

 Orizzonte Scuola

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LA SCUOLA NON E' UN DETERSIVO

 


di Massimo Gramellini|

 


Il giorno in cui i presidi presentano la scuola ai genitori dei potenziali iscritti non si chiama Giorno di Presentazione ma Open Day, e forse i problemi cominciano proprio da questo aziendalese imposto persino tra i banchi. 

Sta di fatto che durante il benedetto Open Day la preside di un liceo barese, Tina Gesmundo, ha detto ai genitori in visita qualcosa di inedito, scomodo e sorprendente: la verità. Ha detto che lei non era lì per convincerli a scegliere il suo istituto, perché la scuola non è un detersivo. 

Ha detto che alcuni allievi fotografano le targhe delle auto dei professori a scopo intimidatorio e bulleggiano pesantemente i compagni nel disinteresse delle famiglie, che derubricano quei gesti a semplici ragazzate. Ha detto che i social non c’entrano niente, c’entrano i genitori, che sovrappongono i loro ego alle vite dei figli, educandoli a coltivare solo il mito del successo e del denaro. 

Ha detto che verranno ripagati con la stessa moneta e che da vecchi i figli li abbandoneranno in una casa di cura. Ha detto che non ha bisogno che arrivino Crepet o Galimberti a spiegarle come le famiglie abbiano scaricato sulla scuola la loro incapacità di educare: purtroppo lo sa già. 

E ha concluso: «Se dovete venire qui per fare queste cose, andate altrove. Ma qualunque scuola scegliate, imparate ad ascoltare i vostri figli e insegnate loro ad avere cura di sé e degli altri, non a inseguire solo sogni di gloria e ricchezza».

Mi stupisco che non l’abbiano ancora licenziata.

 

Corriere della Sera



IL CAMMINO SINODALE


 Sul Documento finale del Sinodo

 

-       

  - di Severino Dianich 

 

Superata la delusione dell’opinione pubblica e l’irritazione di quanti, dopo aver proposto, lungo il Cammino sinodale, alcuni temi particolarmente sensibili, li hanno visti stornati dalla discussione in assemblea e affidati a dei particolari gruppi di studio, bisogna dire che il Documento finale del Sinodo è un testo, da molti punti di vista, di tutto rispetto. Non si potrà dire, quello che molti temevano, che la montagna ha partorito un topolino.

Ne è un primo frutto, infatti, un documento del magistero episcopale, capace di fare da Magna Charta per la Chiesa del futuro, in ordine al modus agendi nel determinare il programma della sua vita interna e della sua missione nel mondo, con il concorso e la responsabilità di tutti. 

Questioni aperte 

Con tutto ciò, resta comprensibile e legittima la delusione dei molti che si attendevano un concreto passo in avanti per la posizione della donna nella Chiesa, aprendole la strada almeno verso l’ordinazione diaconale, e la creazione di un quadro della comunità cristiana più positivo nei confronti di coloro che vivono situazioni coniugali e familiari particolari come i divorziati risposati o i conviventi senza matrimonio, senza dire delle persone LGBTQIA+. 

Rimane la sensazione che l’assemblea sinodale sia stata derubata della riflessione sui temi cruciali che erano stati proposti dai fedeli lungo il Cammino sinodale e per i quali fedeli e opinione pubblica attendevano soluzioni innovative. A parziale giustificazione del fatto, si potrebbe solo dire che tali questioni, una volta poste sul tappeto, aprono a tutto campo la questione della tradizionale morale cattolica, che attende ancora dai teologi una sua reimpostazione di cui difficilmente i sinodali sarebbero stati capaci. Testimoni del sensus fidei del popolo di Dio ne hanno sentito ed espresso il bisogno, senza averne potuto offrire le concrete soluzioni. 

All’assenza di una presa di posizione riguardo all’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine, se pure limitata al grado del diaconato (solo per rispetto del trascorso recente magistero papale), segue nel Documento finale almeno l’affermazione che si tratta di una questione che resta aperta. Né potrebbe essere altrimenti, in quanto si tratta di un caso più unico che raro, nel quale viene inibito ad una persona l’esercizio di un certo ministero, esclusivamente perché è donna. E questo non perché la condizione femminile la privi delle attitudini necessarie per l’esercizio del ministero, ma solo perché è donna. 

Siamo al limite di una violazione di quella «vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo», dichiarata dal concilio al n. 32 della Lumen gentium. Non si dimentichi che Gesù non disdegnava di avere vicine a sé donne che lo «avevano seguito… dalla Galilea», appunto, «per servirlo (diakonoûsai autô)» (Mt 27,55). 

A parte queste e altre lacune che si potrebbero citare, rispetto alle attese (troppe, a dire il vero, e troppo vaste) che erano state espresse lungo il Cammino sinodale, il Documento finale è un testo importante, già per il fatto di avere impostato un programma di promozione della sinodalità non fine a sé stessa, ma in direzione della missione della Chiesa. Il testo, quindi, dà della missione, in maniera lapidaria, una felice definizione: «La Chiesa esiste per testimoniare al mondo l’evento decisivo della storia: la risurrezione di Gesù» (n. 14). 

E’ anche da apprezzare che, mentre la conversazione sinodale nella Prima Sessione, con non poco disagio, vagava nell’incertezza di cosa significasse e che senso avesse l’idea stessa di sinodalità, il Documento finale ne offre una bene articolata e chiara descrizione: il concetto di sinodalità comprende, 

a) uno stile peculiare dell’agire nella Chiesa, sia nella sua vita interna che nell’esercizio della sua missione, 

b) alcune corrispettive strutture e procedure istituzionalmente determinate, 

c) l’accadere puntuale di determinati eventi (n. 30). 

In coerenza con l’intento di un’efficace promozione della sinodalità, l’articolarsi della Chiesa ai suoi diversi livelli, come non sempre avviene nei documenti del magistero, è descritto utilizzando una schematizzazione ascendente: communio fidelium, communio Ecclesiarum, communio episcoporum: la Chiesa, prima di tutto, sono le persone, poi le loro aggregazioni comunitarie, quindi i pastori che le guidano. 

Un frutto di questo modo di ragionare era stata già la stessa forma nuova del Sinodo dei vescovi, che papa Francesco aveva voluto come tappa di un cammino che coinvolgesse tutti i fedeli e come un’assemblea di vescovi che non fosse solo di vescovi, ma cui partecipassero, in misura rilevante, con lo stesso diritto di parola e di voto, anche fedeli non vescovi. Il Documento finale auspica che anche in futuro il Sinodo dei vescovi abbia stabilmente questa forma (n. 136). Basterebbe questo particolare per doverne rilevare la notevole valenza storica. 

A dire il vero, non ci si dimentica che c’erano state, in passato, assemblee di vescovi a carattere continentale, come quelle celebri di Medellin e Puebla, nelle quali si era verificata una felice interazione tra le molte varietà del popolo di Dio, con un articolato intreccio fra le responsabilità proprie dei pastori e il discernimento dei fedeli (nn. 125-127). 

I vescovi e la Curia romana 

Lungo il Cammino e le due assemblee sinodali, la figura del vescovo è stata oggetto frequente di discussione, non senza che vi affiorassero non pochi motivi di una diffusa insoddisfazione. 

Prima di tutto, sul modo con cui oggi vengono scelti i vescovi e destinati alle diverse Chiese particolari, per cui i sinodali hanno chiesto vengano create e adottate forme di partecipazione dei fedeli delle Chiese locali a decisioni per loro così importanti. 

In quanto all’elezione e all’ordinazione di vescovi che non vengono destinati al ministero di una Chiesa locale, come accade per i nunzi apostolici e i funzionari della Curia romana, non poteva che venirne messa in discussione la prassi (n. 70). 

Il problema più sentito, però, era ancora quello di un’esorbitanza dell’esercizio dell’autorità papale da parte della Curia romana e del bisogno di disegnare con maggiore ampiezza gli spazi nei quali i singoli vescovi e i loro diversi collegi locali siano lasciati pienamente responsabili delle decisioni necessarie sul territorio. 

Si noti che, nell’ordinamento attuale, neppure i concili particolari, che molte volte, lungo la storia, sono stati determinanti anche per la Chiesa universale, possono emanare documenti dotati di autorità, senza la recognitio della Santa Sede, per cui non c’è da stupirsi che i sinodali vogliano tutta questa materia sia rivista nella direzione di un necessario decentramento del governo della Chiesa, attraverso la valorizzazione delle conferenze episcopali. 

Al di là dell’autorità del concilio ecumenico e del papa non si dà alcun collegio episcopale che abbia il potere di imporsi al singolo vescovo, per cui efficace a largo raggio nella Chiesa resta solo il potere di Roma (nn. 125-136). 

Sul piano generale i sinodali hanno chiesto si metta in opera «un discernimento più coraggioso di ciò che appartiene in proprio al ministero ordinato e di ciò che può e deve essere delegato (il corsivo è mio) ad altri». 

Il ricorso all’idea della delega in un asserto che intende negarne la necessità è la riprova di quanto sia ancora difficile nella Chiesa cattolica riconoscere la piena soggettualità ecclesiale dei fedeli, nonché i compiti, carismi e ministeri che chiedono, caso mai, di essere riconosciuti come propri dei fedeli, e non delegati dai pastori ai fedeli. 

Si pensi ai problemi della vita coniugale e familiare e al paradosso del vescovo che delega, lui che non ne ha i carismi, in quanto votato al celibato, a dei coniugi che ne sono ben dotati per la grazia del sacramento, la responsabilità della pastorale familiare. 

Senza dire del problema del magistero episcopale e papale intorno alla morale coniugale, che mai come in questo caso richiederebbe di venire elaborato sinodalmente assieme a quei fedeli che, a differenza dei vescovi, hanno ricevuto dal loro sacramento i carismi necessari per il necessario discernimento. 

Non di poco conto è stata, infine, anche la richiesta di molti vescovi di non dover svolgere, accanto alla funzione pastorale con il suo carattere paterno, anche quella giudiciale, aprendo alla possibilità che i tribunali ecclesiastici non debbano essere presieduti dal vescovo e quindi acquisiscano effettivamente, con la terzietà del giudice, la loro indipendenza dall’autorità. 

Organismi di partecipazione 

Alla base della vita ecclesiale, nelle diocesi e nelle parrocchie, lo sviluppo della sinodalità dovrà giovarsi prima di tutto dei consigli pastorali e di quello degli affari economici, già previsti nell’attuale ordinamento canonico. 

I sinodali hanno chiesto, quindi, con frequenza e all’unanimità, che essi siano resi obbligatori e si provveda a risollevarli da quel certo formalismo nel quale si sono, di fatto, appiattiti. 

Il Sinodo ritiene necessario, prima di tutto, che ne venga regolata la designazione dei membri, da non lasciare all’arbitrio del pastore, quindi che si curi li compongano fedeli impegnati nella testimonianza della fede nella società civile, più che i fedeli impegnati in servizi interni alla comunità e, infine, che vi si promuova la necessaria articolazione fra la loro funzione consultiva e quella deliberativa. 

Questo del potere solo consultivo, in realtà, è un problema grave, di cui non è stata proposta una soluzione adeguata. I sinodali, infatti, si sono limitati a chiedere che, nei canoni rispettivi del Codice, si riveda la formula del «“solamente consultivo” (tantum consultivum)» (n. 92). 

In realtà, se si vuole promuovere la sinodalità, non si tratta di cambiare la formula, ma la sostanza dei processi decisionali, cioè di distinguere gli ambiti della vita della comunità nei quali è necessario l’esercizio dell’autorità del pastore, mentre ai fedeli spetta una funzione consultiva, dai numerosi altri ambiti, nei quali sono i fedeli ad essere dotati di competenze, manifestazioni dei carismi dello Spirito, di cui non è dotato il pastore, per cui essi più che il pastore sono in grado di fare discernimento e determinare la decisione. 

Se ai consigli non sarà data una loro determinata capacità decisionale là dove il problema non esige l’esercizio dell’autorità sacramentale del pastore, la sinodalità nelle Chiese locali e nelle parrocchie non farà alcun effettivo passo in avanti. Ciò che il Sinodo, invece, ha chiesto esplicitamente è che i pastori e quanti si sono assunti delle responsabilità nella comunità debbano rendere conto ai rispettivi consigli del loro operare (nn. 103-106). 

A questo proposito il Documento finale insiste sul fatto che bisogna superare la tradizionale idea che solo gli inferiori debbano rendere conto ai superiori del loro agire e non il contrario, citando anche il tratto degli Atti degli Apostoli nel quale Pietro venne obbligato a giustificarsi di avere battezzato un pagano (At 11,2-3). Si vede anche nell’oblio di questa prassi un derivato del clericalismo, nonché un suo continuo alimento (nn. 95-99). 

Per quel che riguarda gli affari economici si chiede fra l’altro che, possibilmente, il rendiconto sia certificato da revisori esterni. 

Osservazione conclusiva 

Come è stato per i documenti del concilio Vaticano II, così per il Documento finale del Sinodo la sua efficacia dipenderà dalla recezione, consegnata alla responsabilità dei vescovi e ad un continuativo impegno dei fedeli che fino ad ora si sono coinvolti nell’impresa. 

Ciò non toglie che sia necessario si metta mano alla riforma di alcuni tratti dell’attuale ordinamento canonico, come quello sul “consultivum tantum”, l’obbligatorietà e le procedure dei consigli, il dovere della rendicontazione a tutto campo ecc. 

Se tutto questo sembra necessario nell’immediato, affinché il Documento del Sinodo non resti lettera morta, mettendo mano al Codice, si aprirà un’altra, ben più radicale questione. La volontà di un decentramento del governo della Chiesa mette in causa, infatti, la stessa esistenza del Codice di diritto canonico: un Codice, due Codici, più Codici o nessun Codice. È su questo terreno che ormai la canonistica più interessante si sta muovendo.

 

Settimana News

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venerdì 22 novembre 2024

LA GUERRA e La PSICHE

 


Essere stati esposti alla violenza e alle brutalità della guerra rende reattivi, aggressivi e irritabili.  
L'adattamento alla vita civile dopo la guerra può risultare difficile, in particolare per chi ha combattuto. 


-di  Rosella De Leonibus 


 Sappiamo molto bene quali sono le conseguenze della guerra: morti, mutilati, distruzioni, povertà, devastazione del territorio, rottura dei legami sociali… L’impatto della guerra sulla psiche è altrettanto devastante sia per chi lo vive direttamente (i soldati e le vittime civili) sia per chi viene toccato indirettamente (le famiglie e le comunità). Più il conflitto è duro, pesante e lungo, minore è il sostegno sociale, più pesanti saranno le conseguenze della guerra.

I DANNI PSICOLOGICI 

La guerra è una esperienza traumatica devastante. La conseguenza psicologica più evidente è il disturbo da stress post traumatico. Flashback, incubi, ansia intensa e reazioni fisiologiche automatiche quando i ricordi emergono. I reduci spesso vivono un grave distacco emotivo, diventano incapaci di provare piacere e gusto per la vita, come se fossero morti dentro l’anima. Il sonno sarà disturbato, popolato di incubi e i flashback, che lasciano irritati, affaticati e deconcentrati, come sbalorditi. L’insicurezza e il senso di impotenza vissuti lasciano una sequela di disperazione, stanchezza mentale e mancanza di speranza. E i lutti e la povertà portano con sé tristezza e sconforto, ansia e disturbi depressivi. L’incapacità di provare empatia o rispondere emotivamente agli eventi quotidiani, che difende dal contatto con la sofferenza e l’orrore, impatta sulle relazioni sociali e affettive, condannando alla solitudine invece che alla solidarietà. La dissociazione (sentirsi “separati” dalla propria esperienza), la rimozione o il blocco di ricordi dolorosi, mettono la mente al riparo dal trauma, ma ne ostacolano l’elaborazione. 

 Essere stati esposti a tanta violenza e alle brutalità della guerra rende reattivi, aggressivi e irritabili, e l’adattamento alla vita civile dopo la guerra può risultare difficile, in particolare per chi ha combattuto. 

 I sopravvissuti, sia soldati che civili, possono sentirsi in colpa e provare vergogna per le azioni compiute in guerra, ancor più quando sono stati violati valori morali personali. Il trauma morale ha effetti a lungo termine sulla salute della psiche e sulla capacità di integrarsi nella società. Ma anche perdere il senso di appartenenza, il senso di identità e lo scopo che le strutture militari garantiscono, comporta un senso di alienazione e isolamento e molti ex soldati non riescono a sentirsi compresi, con difficoltà importanti rispetto al processo di reinserimento nella vita civile. 

 Sulla psiche dei bambini, la paura, la perdita di stabilità e il senso di impotenza sono particolarmente devastanti, fino a ritardi nello sviluppo emotivo e sociale, fino a comportamenti aggressivi e antisociali nel futuro. 

 Ma le conseguenze della guerra non si fermano alle vittime dirette e indirette: si estendono alle generazioni successive, perché la mancata elaborazione del trauma può influenzare i figli di chi ha vissuto la guerra, creando un effetto domino che si trasmette attraverso comportamenti, valori e paure. Il trauma diventa transgenerazionale, minando il benessere psichico e sociale delle generazioni future. 

 In presenza di supporti sociali adeguati, alcune persone e alcune comunità possono sviluppare buoni processi di resilienza e avviare quella che chiamiamo crescita post-traumatica, con una maggiore consapevolezza di sé, la riscoperta di valori fondamentali e una nuova capacità di apprezzare la vita. Se però manca il supporto sociale, se mancano reti di sostegno e cure psicologiche di massa e adeguate nel breve termine, programmi per il reinserimento e gruppi di aiuto, questo sviluppo sarà bloccato. 

 LA GUERRA È “NATURALE” PER LA PSICHE? 

 L’aggressività umana e il comportamento violento sono intrinseci alla natura umana o sono il risultato di influenze esterne e sociali? 

 Cominciamo con Freud, che ipotizzava l’esistenza di una pulsione alla distruzione o “pulsione di morte” che sarebbe alla base dell’aggressività e della violenza. Una pulsione che si oppone alla “pulsione di vita”, alla creatività, alla costruzione di legami sociali e affettivi. Per Freud, quindi, l’essere umano avrebbe un impulso intrinseco sia verso la creazione che verso la distruzione. Freud vedeva la guerra come una manifestazione collettiva di Thanatos, un’espressione di questa pulsione di distruzione che emerge in forma organizzata. 

 Anche Konrad Lorenz, dal lato dell’etologia, ha studiato il ruolo evolutivo dell’aggressività in tutte le specie animali, compreso l’essere umano, e la descriveva come un istinto biologico, al servizio della sopravvivenza, della difesa del territorio e della protezione della specie. Lorenz osservava anche come negli animali esistano meccanismi che frenano l’aggressività e evitano che la propria specie venga distrutta, mentre tra gli umani questi freni sono meno potenti, e l’aggressività può prendere la forma di guerre devastanti. 

 La prospettiva evoluzionista ha rilevato come la tendenza al conflitto nelle epoche arcaiche potesse rappresentare un vantaggio per accedere alle risorse, alla sopravvivenza e alla trasmissione dei geni dei più forti, e la guerra e l’aggressività potrebbero quindi aver avuto un ruolo adattivo nel processo di evoluzione, selezionando individui che avessero capacità maggiori di proteggere il proprio gruppo. Tuttavia, gli stessi scienziati sottolineano come non si possa affermare che la guerra sia inevitabile o che l’essere umano sia “naturalmente portato” alla distruzione, in quanto la capacità di cooperare, l’empatia e la possibilità di vivere in comunità pacifiche è anch’essa parte della natura umana, e ha avuto un esito evolutivo molto favorevole, poiché ha permesso la costruzione di società complesse e organizzate. 

 LA GUERRA SI IMPARA 

 La prospettiva della psicologia sociale tende invece a vedere la guerra e la violenza non come espressioni di un istinto innato, ma piuttosto come il risultato di apprendimenti e adattamenti, frutto di influenze culturali, sociali e ambientali. I comportamenti aggressivi, quindi, come la maggior parte dei comportamenti sociali umani, vengono descritti più come appresi che come innati. 

 Sono le situazioni di deprivazione, così come quelle in cui si subisce una minaccia o una oppressione, insieme a condizionamenti culturali e ideologici, ad attivare nelle persone e nelle loro aggregazioni sociali atteggiamenti aggressivi e bellicosi. La guerra, quindi, sarebbe il prodotto di scelte e situazioni politiche e sociali, un frutto della cultura e della società, piuttosto che una tendenza innata alla distruzione. 

 Anche l’approccio antropologico e culturale descrive la guerra non come una necessità naturale, ma come una costruzione sociale. Lo dimostra la storia: molte culture hanno vissuto a lungo in pace ed è l’organizzazione sociale il maggior fattore di influenza sulle inclinazioni aggressive o pacifiche degli individui. 

 La guerra allora è il risultato di valori e strutture di potere che educano gli individui a percepire l’altro come nemico o minaccia. A supporto della giustificazione della guerra e della sua necessità ci sono sempre ideologie di superiorità, di nazionalismo o fondamentalismi religiosi, c’è sempre una stigmatizzazione e svalutazione delle differenze, c’è sempre una polarizzazione tra “noi” e “loro”, c’è sempre la creazione di un nemico esterno, la proiezione della parte “ombra” della collettività su una categoria particolare di soggetti o su un intero popolo. 

 Dal lato della psicologia, Dollard e Miller hanno a loro volta studiato l’aggressività e hanno rilevato come essa sia una risposta alla frustrazione, piuttosto che una pulsione innata. Quando ci si sente ostacolati nel raggiungimento dei propri obiettivi, se mancano sistemi individuali e sociali di contenimento, espressione adattiva, elaborazione ed educazione, la frustrazione può venire vissuta come intollerabile e può indurre a sviluppare comportamenti aggressivi. 

 Nel contesto della guerra, il conflitto può essere visto come il risultato di frustrazioni collettive, come la mancanza di risorse, l’oppressione economica o le ingiustizie sociali, che spingono i gruppi a comportamenti autoprotettivi violenti o direttamente distruttivi. 

 Su temi di così vasta portata si sono impegnate anche le neuroscienze, che attraverso la ricerca hanno evidenziato come nelle risposte aggressive siano coinvolte alcune aree del cervello, come l’amigdala. Tuttavia, la ricerca stessa ha mostrato come nel cervello umano siano presenti anche aree deputate al controllo delle emozioni e alla regolazione del comportamento, come la corteccia prefrontale. Quindi a livello neurobiologico troviamo predisposti alcuni meccanismi di base per lo sviluppo dell’aggressività, ma gli studi mostrano come l’aggressività non sia affatto inevitabile: le esperienze sociali, l’educazione e l’ambiente giocano un ruolo cruciale rispetto alla forma e alla direzione in cui queste tendenze si sviluppano e si esprimono. 

 Una prospettiva integrativa suggerisce che, quantunque come esseri umani possiamo rintracciare nel nostro cervello una predisposizione all’aggressività e alla competizione, e anche alla risposta impulsiva violenta quando ci sentiamo gravemente minacciati, possediamo nelle nostre strutture neurobiologiche anche capacità avanzate di autoregolazione, di empatia, di ingaggio sociale e cooperazione. 

 La guerra allora non è affatto una necessità biologica, né tanto meno una pulsione ineluttabile, ma una scelta specifica, influenzata, predisposta e alimentata da decisioni politiche, economiche e culturali. L’essere umano è capace di costruire relazioni pacifiche, e la tendenza alla pace e alla cooperazione è altrettanto forte quanto quella alla competizione. 

 LA GUERRA È EVITABILE 

 La psicologia contemporanea tende a considerare i comportamenti umani violenti e distruttivi, e quindi la guerra, come il risultato di un complesso insieme di fattori biologici, psicologici, sociali e culturali, piuttosto che l’esito incontrollabile di una pulsione innata. Sebbene esistano inclinazioni all’aggressività, l’essere umano possiede anche una forte capacità di vivere pacificamente, come è dimostrato dalla storia di molte culture e società pacifiche. La guerra, quindi, non è inevitabile: è una scelta che dipende da fattori modificabili, come la politica, l’educazione e la struttura sociale. 

 Come esseri umani, disponiamo sia del potenziale per il conflitto che del potenziale per la pace. Lavorare per la promozione di una cultura di pace, basata sulla comprensione reciproca, sulla ricerca e la pratica del dialogo, sulla gestione costruttiva dei conflitti, sull’educazione alla regolazione emotiva, sull’educazione alla nonviolenza e sulla valorizzazione e il rispetto dei diritti umani: questo intento e questo impegno collettivo possono contenere e indirizzare le pulsioni aggressive e creare le condizioni psico-sociali per costruire di una società più pacifica. 

 Dobbiamo imparare a vivere insieme come fratelli, o periremo insieme come stolti (Martin Luther King)

 Rocca 18 Novembre 2024 

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