martedì 14 maggio 2024

LA VIA DEL TRAMONTO


 La storia ha più volte mostrato, Atene e Roma per fare due esempi, che il tramonto di una civiltà ha la sua principale causa interna nella crisi demografica unita alle scarse capacità creative delle sue guide di fronte alle sfide.

 

-         di Alessandro D’Avenia

      

Epidemie, guerre, invasioni danno solo il colpo di grazia a un rapporto nascite/decessi insufficiente per l’equilibrio naturale del corpo sociale, guidato da una testa senza soluzioni o con soluzioni inadeguate se non distruttive. A leggere i dati Istat presentati ai recenti (stupidamente criticati o falsamente raccontati) Stati generali della Natalità, anche noi siamo al tramonto come tutte le culture che, per mancanza d’amore verso se stesse e di guide illuminate (la disaffezione al voto lo dimostra) scelgono la fine, come un disperato che si lascia morire.

 È irreversibile l’inverno? Lo sarebbe se gli stessi dati non mostrassero una possibile primavera: 8 persone su 10 in Italia vogliono figli, ma non riescono a tradurre in pratica il progetto. Non manca desiderio di generare ma le condizioni, soprattutto per le donne ancora prive di libertà di scelta. Save the children nel rapporto 2024 sulla maternità in Italia le chiama infatti «le equilibriste» per la fatica o l’impossibilità di conciliare desideri e realtà. Perché siamo agli ultimi posti rispetto ai Paesi dell’Ue nel rispondere a questa emergenza? E siamo sicuri che il problema riguardi solo le donne? Servono un po’ di dati, perché, in una famiglia, non si cresce senza fare i conti.

 Da anni in Italia nascono meno di 400 mila bambini, record negativo nel 2023 con 379 mila nati, a fronte di 661 mila decessi. Nel 2050 ci sarà un ragazzo ogni 3 anziani. Gli apporti migratori non saldano il rapporto di sostituzione, necessario alla copertura del welfare: cala la qualità della vita come è evidente nel servizio sanitario e scolastico. Per garantire l’equilibrio sociale il tasso di fertilità dovrebbe essere di almeno due figli per donna, in Italia è di 1,2 e l’età media della maternità 31,6 anni, la più alta in Europa, la cui media è 29,7. La Francia, che ha il tasso di fertilità migliore (1,8), offre infatti da tempo agevolazioni fiscali, nidi, tempo pieno scolastico, part-time entrambi i genitori.

 La Germania (1,5 figli per donna) dà supporti economici, congedi retribuiti e nidi garantiti. La Finlandia, ai minimi nel 2019 (1,35 figli per donna), ha invertito la tendenza con voucher baby-sitter, sgravi fiscali, congedo parentale più lungo e trasferibile da un genitore all’altro. Come si vede questi Paesi hanno cambiato mentalità di fronte alla sfida, mettendo al centro la cura del bambino e alla pari donne e uomini. Noi ancora no. In Spagna dal 2021 c’è il congedo parentale di 16 settimane per ciascun genitore (prime 6 obbligatorie, le successive facoltative o a tempo pieno o part time) con il 100% dello stipendio. In Portogallo i giorni indennizzati sono 150 al 100% o 180 all’80% dello stipendio, con la possibilità di altri tre mesi a testa di lavoro part-time. In Norvegia sono 12 i mesi di congedo retribuito suddivisi o condivisi tra padre e madre. In Svezia ogni genitore ha 16 mesi di congedo, tre all’80% dello stipendio.

 La Germania ha un congedo parentale flessibile: i genitori possono lavorare fino a 32 ore settimanali per 24 mesi. In Polonia il congedo dura 36 settimane, 20 retribuite al 100%.

 E noi? Con la legge di Bilancio 2024, al congedo obbligatorio di 5 mesi per la madre all’80% dello stipendio e solo 10 giorni a stipendio pieno per il padre, si aggiunge la possibilità, ma solo per i lavoratori dipendenti, di altri due mesi complessivi per i genitori, all’80% entro i primi 12 anni di età del bambino. Ma il secondo mese così retribuito riguarderà solo il 2024, dal 2025 verrà ridotto al 60%. Ci sono poi: l’assegno unico universale (in base al reddito, da 50 a 200 euro al mese per ogni minore); l’azzeramento dei contributi solo per le madri lavoratrici con più di tre figli; il bonus nido. Si tratta però di aiuti non sistematici (smetteremo mai di essere il Paese di superbonus ed elemosine elettorali?), dai criteri ingiustamente restrittivi e iperburocratizzati, e di norme che ignorano che un figlio si genera e quindi si cresce in due e alla pari.

 Se a tutto ciò aggiungiamo che i nostri nidi coprono solo il 28% per la fascia 0-3, non stupisce che spesso una donna debba lasciare il lavoro dopo il parto. In sintesi il nostro welfare non supera la sfida e non tiene conto della parità: la spesa del Pil per la famiglia è dell’1,4% (1,9 la media Ue, 2,2 in Francia, 2,9 in Finlandia). Se gli effetti delle norme entrate in vigore nel 2024 sono ancora da vagliare, colpisce però una contraddizione in atto da tempo. La Costituzione dice all’art.31: «La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo», mentre all’art. 11 recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Eppure, in questi anni ciò che è aumentato in modo sistematico, ma non sempre chiaro e condiviso, è la spesa bellica. Quella mondiale ha raggiunto nel 2023 il record di 2.443 miliardi di dollari, in Europa è cresciuta del 16%, mai così dalla Guerra Fredda, e la più alta è proprio in Europa occidentale (345 miliardi). Gli Stati membri della NATO, di cui facciamo parte, hanno stanziato nel 2023 ben 1.341 miliardi di dollari, il 55% del totale mondiale. In Italia nel 2024 è prevista una spesa militare di 28 miliardi di euro, un aumento di 1,4 miliardi rispetto alle stime dell’anno precedente, di questi circa 10 per nuovi armamenti.

 Si dice siano necessari per gli attuali fronti bellici e per strategie di deterrenza ma, ammesso che sia così, non dovrebbero andar di pari passo con la cura? Che cosa me ne faccio del recinto elettrificato per difendere una casa a pezzi? Come ha scritto G.K.Chesterton riferendosi a un quartiere di Londra: «Se la gente amasse Pimlico come le madri amano i loro figli, gratuitamente, in un anno o due il quartiere potrebbe diventare più bello di Firenze. Certi lettori diranno che questa è pura fantasia. Io rispondo che questa è la vera storia dell’umanità. È così che le città sono diventate grandi. I romani non amavano Roma per la sua grandezza. Roma era grande perché i romani l’avevano amata» (Ortodossia).

 È l’amore per un luogo, una cosa, una persona la fonte della sua energia di crescita. Un’energia (pro-)creativa che non avremo finché le donne rimarranno equilibriste, gli uomini esclusi da una paritaria possibilità di cura e i nostri politici miopi. Mi preoccupa questa volontà di morte che finanzia la guerra più della vita: è la sconfitta della nostra Costituzione che, unificando un Paese devastato dalla guerra, credeva nella parola per gestire le relazioni e nella famiglia per gestare il futuro. A classi politiche centrate sul potere più che sulla vita, la storia dovrebbe mostrare che quando un Paese aumenta la spesa per la guerra e non quella per la cura (ospedali e scuole), quel Paese non è al tramonto ma ha deciso di tramontare. E le decisioni non accadono, si prendono.

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I BAMBINI NON GIOCANO PIU'

 

Crepet: “I bambini non giocano più. Questo per molti genitori è normale, perché è meglio stare dentro a uno schermo. 


Come fanno i bambini a crescere 

senza aver giocato?

Di redazione

 La società contemporanea sembra sempre più caratterizzata da una preoccupante mancanza di empatia e gentilezza. L’individualismo, la corsa al successo personale e i rapidi cambiamenti tecnologici hanno contribuito a erodere questi valori fondamentali, lasciando spazio all’egoismo e al materialismo.

 Paolo Crepet ha approfondito questa tematica, evidenziando le conseguenze di questa deriva sociale.

 La mancanza di empatia: uno spettro della civilizzazione

Crepet sottolinea come l’assenza di gesti affettuosi e di contatto umano, anche in luoghi affollati, sia un segnale allarmante della perdita di empatia nella società. “Voglio impazzire per un abbraccio di un vecchio amico, di una persona che non vedo da anni ma anche di chi ho visto ieri”, afferma lo psichiatra, sottolineando l’importanza delle relazioni umane autentiche.

 Bambini sconnessi dalla realtà

Un altro aspetto preoccupante è la crescente disconnessione dei bambini dalla realtà, causata dall’uso eccessivo di dispositivi elettronici. “I bambini non giocano più”, osserva Crepet, evidenziando come il gioco sia fondamentale per lo sviluppo delle relazioni sociali, dell’empatia e della capacità di affrontare le sfide della vita.

 Un mondo orwelliano?

Crepet esprime preoccupazione per il mondo che stiamo costruendo, un mondo in cui i giovani sono costantemente connessi ai loro dispositivi, ma sconnessi dalla realtà circostante. “Se questo treno prendesse fuoco chi è che li avvisa?”, si chiede lo psichiatra, mettendo in luce la fragilità di una generazione immersa nella tecnologia ma incapace di interagire con il mondo reale.

 

Orizzonte scuola

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lunedì 13 maggio 2024

ALGORITMI E INTELLIGENZA DEL CUORE


 “Intelligenza artificiale e sapienza del cuore:

per una comunicazione pienamente umana”.

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-         di Chiara Giaccardi

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Il messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali di quest’anno ha un titolo che è già in sé programmatico: “Intelligenza artificiale e sapienza del cuore: per una comunicazione pienamente umana”. Rischiamo sempre, e già lo aveva riconosciuto McLuhan evocando il mito di Narciso, di lasciarci sedurre dalla nostra stessa immagine cristallizzata nelle tecnologie, dimenticando il nostro ruolo e la nostra responsabilità.

Ma oggi più che mai i rischi sono molteplici, e minacciosi. Intanto ci sono le metafore ingannevoli, che ci orientano verso cattive interpretazioni. Una volta si parlava dei “cervelli elettronici” per indicare i computer, e questa antropomorfizzazione dei dispositivi si è poi ribaltata nella meccanizzazione delle facoltà umane: il cervello come macchina che processa informazioni, un riduzionismo che mortifica la complessità della mente. 

Anche “intelligenza artificiale” è un’espressione scivolosa, perché l’analogia rischia di esaltare le macchine, di sminuire l’idea di intelligenza riducendola ad attività di calcolo (che trasforma tutto in “dato”, dove ciò che non si può contare non conta) e di interiorizzare le capacità umane: se l’intelligenza è calcolo, le macchine sono certamente superiori agli umani! 

Forse non possiamo abbandonare la metafora, ma dobbiamo essere consapevoli del suo limite, e delle conseguenze negative che derivano dal non coglierlo. Kate Crawford, cofondatrice dell’AI Now Institute presso la NY University, ha scritto Né intelligente né digitale (Edizioni Il Mulino) per mettere in guardia da tutti i discorsi che fanno da velo alla comprensione delle reali dinamiche in corso: per esempio, che quella dell’IA è una vera e propria “industria estrattiva”, che depaupera la terra di risorse, sfrutta il lavoro sottopagato, contribuisce in modo rilevante alla produzione di anidride carbonica, senza contare che i data center sono tra i maggiori consumatori di elettricità al mondo. 

Non solo: il suo sviluppo non è neutro. Cosa viene ottimizzato, per chi, chi decide sono questioni che seguono interessi ben precisi. Gli algoritmi non sono mai neutri, lo afferma anche Papa Francesco nel messaggio di quest’anno, ed è un primo caveat. Come poi ha sostenuto Jonathan Crary nella sua analisi del capitalismo digitale (Terra bruciata) il funzionamento degli algoritmi basato sull’estrazione e gestione dei dati alimenta e sfrutta il meccanismo stimolo-risposta per accelerare il flusso di consumo e comprimere il tempo di riflessione, sollecitando una reazione immediata alla molteplicità di stimoli. Ormai reagire è diventata la forma comune di azione, con gli effetti disumanizzanti che ne derivano, e con l’assottigliamento sempre più preoccupante dei nostri margini di libertà - che consiste non nel reagire, ma nell’agire altrimenti. E per farlo bisogna avere il tempo di pensare! «Quando un’informazione scaccia l’altra, ecco che non abbiamo più tempo per la verità», scrive il filosofo coreano Byung-chul Han. 

Non possiamo e non dobbiamo demonizzare i cambiamenti, ce lo ricordava già Guardini nelle sue Lettere dal Lago di Como: il nostro posto è nel divenire. Abitiamo la possibilità, direbbe Emily Dickinson. Ma per non rimanerne schiacciati, o sedotti e per non diventare “idioti tecnologici” come scriveva McLuhan, magari abilissimi nell’utilizzo ma incapaci di cogliere il senso di ciò che facciamo, la consapevolezza è fondamentale. 

Perché, se lasciamo che gli algoritmi decidano per noi, se ci rassegnano al “dataismo” che trasforma il pensiero in calcolo, l’esito non potrà che essere un immiserimento della nostra conoscenza, una perdita di umanità e anche di libertà. 

Intanto rendiamoci conto della natura “farmacologica” del nuovo ambiente tecnico. Platone ci ha insegnato che ogni tecnica (a partire dalla scrittura, che traduce il pensiero dalla forma temporale a quella spaziale) è un pharmakon, ovvero allo stesso tempo un veleno e un rimedio. La nostra tentazione è sempre quella di oscillare tra l’entusiasmo acritico e la logica del capro espiatorio, mentre Papa Francesco ci richiama a un’ambivalenza ineliminabile, che possiamo solo cercare di abitare umanamente. Sforzandoci di contenere la dimensione tossica dei nuovi ambienti digitali e di potenziare quella curativa rispetto alle fratture del nostro tempo. 

E qual è la via? Papa Francesco ci indica la via del cuore. 

Le radici etimologiche ci aprono un orizzonte di significato prezioso: non solo “vibrare” (il cuore è il centro pulsante della vita!) ma anche “domare”, ovvero trasformare l’esperienza in “sapienza” anziché lasciarsi travolgere dagli eventi. 

L’intelligenza del cuore è quella che si sviluppa nella concretezza dell’incontro, del coinvolgimento, della sollecitudine, della cura. È quell’idea di intero che dà senso alle parti, e che ci fa sentire parte: di una storia, di un mondo comune, di una fraternità sempre a rischio di fratricidio. Che ci fa affezionare alla realtà e in questo modo ci consente di vedere ciò che i dati non rivelano. «Tutto quello che conosco, lo conosco perché amo», scriveva Tolstoj. 

L’amore è l’inizio del pensiero. Platone sosteneva che la mente non si apre se prima non si è aperto il cuore. È questa la specificità dell’umano, che ha a vedere non tanto con l’essere buoni, ma prima di tutto con l’essere sapienti. Con il saper sentire, patire e compatire (anche la compassione, il patire-con è via di conoscenza, lo ricorda il Papa). Con il saper perdonare, ovvero liberare il futuro, senza cancellarlo, dal peso di un passato che inchioda al già accaduto. 

L’intelligenza artificiale è “apatica”, senza pathos, senza passione. Forse può “cancellare” ma non “perdonare”. È luogo di efficienza (forse) ma non di libertà: a meno che non coltiviamo quella intelligenza vivente, quella intelligenza del cuore (cioè, integrale) che solo l’umano ha ricevuto in dono. 

Senza dimenticare il monito di Bergson: «Ci sono cose che soltanto l’intelligenza è capace di cercare ma che, da sola, non troverà mai».

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PETRARCA, POETA CRISTIANO

 " IO VO GRIDANDO PACE, PACE, PACE"

Una riflessione di p. Giuseppe Oddone, assistente ecclesiastico di AIMC e UCIIM sul grande protagonista della letteratura italiana

 

- di p. Giuseppe Oddone

 Seicentocinquanta anni fa, nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 1374, moriva ad Arquà, vicino a Padova, Francesco Petrarca. Uno o due giorni successivi avrebbe compiuto settant’anni, essendo nato ad Arezzo il 20 luglio del 1304.

È giusto ricordarlo in questo anniversario perché è stato un grande intellettuale, ma soprattutto un grande poeta, che si è ispirato come Dante ai valori cristiani. Dante appartiene pienamente alla civiltà comunale e nella Divina Commedia compie un viaggio dal mondo umano al mondo divino, dal tempo all’eternità, da Firenze al popolo giusto e sano del Paradiso, e dopo lo sbandamento giovanile della selva oscura, nel suo desiderio di riformare la società e la Chiesa, orienta saldamente la sua vita verso Dio, pur sapendo che le passioni terrene possono ancora tentarlo e prega la Vergine, tramite San Bernardo, che conservi sani fino alla morte tutti i suoi affetti e lo protegga dalle inclinazioni del senso e dalle passioni.

Anche il Petrarca, che ebbe una formazione cristiana ed aveva ricevuto per interessi economici gli ordini ecclesiastici minori, nel suo Canzoniere compie un viaggio, ma è un viaggio tutto terreno, nel quale unisce attraverso al filtro della memoria tanti ricordi ed episodi della sua esistenza, legati al senso tormentoso della caducità di tutte le cose terrene; ma esse lo affascinano, lo attraggono, lo legano. Vorrebbe che avessero una perenne stabilità e soffre e piange e ragiona sul loro svanire.

È il poeta di quanto è destinato inesorabilmente a passare e a morire. Questo sentimento che affiora in tutte le sue opere, era già radicato nell’animo del Petrarca ancor prima dell’inizio delle poesie del Canzoniere, e gli proveniva sia dalla lettura dei poeti latini, come Virgilio e ad Orazio, sia dalla sua conoscenza della Bibbia, in particolare dei salmi, sia dalla sua sensibilità personale e dal suo carattere riflessivo e malinconico. Laura Come voleva la tradizione poetica del suo tempo, il Petrarca inquadra il suo sentimento ed il suo pensiero in una cornice amorosa, proiettandoli in una donna, Laura, di cui si innamora, anche se non corrisposto. Laura come creatura umana rappresenta la bellezza femminile, l’aspirazione alla pienezza di un amore contraccambiato, con tutta la gamma di emozioni che vanno dall’ammirazione, alla contemplazione, al desiderio, al rimpianto, al sogno, alla delusione, alla malinconia, alla ricerca di solitudine. Ma Laura richiama anche il valore della cultura classica e della poesia, a cui il poeta dedica la sua vita, perché il nome è collegato al lauro, la pianta sacra ad Apollo, il Dio delle Muse, ed anche il successo e la gloria poetica cui il Petrarca aspirava, simboleggiata dalla laurea, la corona di alloro con cui venivano incoronati i poeti; infine Laura diventa anche l’aura, l’atmosfera della natura che attrae con il suo fascino, nella quale egli ama immergere la sua donna e riflettere sul proprio tormento amoroso.

 Il dissidio interiore

La fede cristiana, in cui il Petrarca è cresciuto ed educato e con la quale si confronta soprattutto dopo che il fratello Gherardo diventa nel 1343 monaco certosino, non è per lui uno strumento di spiegazione del mondo e un centro unificatore della sua vita, ma diventa piuttosto un fatto personale, uno stimolo alla introspezione psicologica, alla consapevolezza della fragilità umana; egli sente il valore e la bellezza delle realtà terrene, non orientate a Dio, e vorrebbe impadronirsene e goderle e conservarle per sempre, nonostante siano avvertite come realtà caduche e destinate a svanire. Di qui nasce nella sua coscienza il senso del peccato e nello stesso tempo il bisogno di redenzione da parte di Cristo.

Il Petrarca trova nelle Confessioni di Sant’Agostino il libro della sua vita, ma non riuscirà mai come Agostino a liberarsi dalle sue passioni; è legato alla terra con catene d’oro, vorrebbe spezzarle, ma nello stesso tempo conservare e portare sempre con sé il peso di tutto quell’oro che lo ha incatenato: cosa impossibile, gli dice il suo maestro Sant’Agostino. Di qui la sua lacerazione interiore, il suo dissidio talora straziante, il forte senso del peccato, il rimorso della coscienza, la paura di fronte alla morte ed al giudizio di Dio. Cristo e Laura vengono tutti e due contrapposti e immersi in una specie di liturgia sacrale. Il poeta si innamora di Laura in una chiesa il venerdì santo, nel giorno in cui Cristo con la sua passione manifesta per noi il suo massimo amore: subito sono percepiti come due amori coinvolgenti, ma in opposizione tra loro. Nel sonetto “Movesi il vecchierel canuto e bianco” il Petrarca descrive con simpatia un anziano che va a Roma con ardente desiderio di fede per contemplare nel lino della Veronica il volto di Gesù, che spera di rivedere in cielo, mentre egli va cercando nel volto di ogni donna - e lo dice con rammarico e con un lamento “lasso!”, ahimè, - il volto perfetto ed ideale della donna, oggetto del suo desiderio. Il bisogno di preghiera e di salvezza. Nello stesso tempo, consapevole del suo dramma, il Petrarca sente il bisogno di silenzio, di solitudine, di interiorità, di preghiera. Proprio perché è consapevole di essere peccatore e sa bene” che quanto piace al mondo è breve sogno” e “come nulla quaggiù diletta e dura” può elevare al Padre del ciel ed a Cristo la sua invocazione, implorare la divina misericordia come il pubblicano nel tempio: “miserere del mio non degno affanno!” e pregare il “Re del cielo, invisibile, immortale” che gli doni finalmente pace e salvezza: “Tu sai ben che ‘n altrui non ho speranza”.

Vergine bella

Il Petrarca aveva posto all’inizio del suo Canzoniere un sonetto riassuntivo in cui esprimeva il proprio rammarico per essersi perduto dietro un vano sogno d’amore e lo conclude con la canzone alla Vergine, perché interceda per lui al termine del suo cammino terreno e poetico e gli ottenga la pace e la salvezza eterna tanto desiderata. La canzone Vergine bella ha tre protagonisti: la Vergine, il poeta nel suo dramma di peccato e redenzione, Laura, simbolo di tutte le seduzioni mondane. Maria è esaltata con i nomi più significativi con una cadenza litanica. La parola Vergine infatti ricorre due volte in ogni stanza o strofa, all’inizio del primo e del nono verso; è bella, saggia, pura, benedetta, gloriosa, unica al mondo, dolce e pia, chiara e stabile in eterno, regina del cielo, benigna, soccorritrice dei miseri, madre, figliola e sposa di Dio. Ma in ognuno di questi titoli dati a Maria si sente vibrare tutto l’amore del poeta per la Vergine Maria. Per esemplificare basti l’inizio: Vergine bella che di sol vestita, coronata di stelle, al sommo Sole piacesti sì che ‘n te Sua luce ascose amor mi spinge a dir di te parole. Il Petrarca espone a Maria tutto il suo dramma: la prega perché lo soccorra nella sua lotta interiore, gli dia saggezza, lo renda degno della grazia, plachi il suo animo nell’amore di Cristo, conceda finalmente stabilità al suo cuore travolto nel mare delle passioni: egli teme il naufragio, la morte, la dannazione eterna. Nella seconda parte della poesia, pur senza mai essere nominata, compare la figura di Laura: quante lacrime sparse per lei, quanto affanno, quanto ingombro dell’anima in una vita destinata a finire! Laura è stata per il poeta come la mitica Medusa, lo ha reso di sasso, insensibile ai valori spirituali. Il poeta raffronta poi Laura e la Vergine: Laura è terra, la Vergine è donna del cielo, Laura era insensibile al suo dolore, Maria lo conosce perfettamente, Laura non poteva aiutarlo senza infamia per lei e morte spirituale dello stesso poeta, la Vergine invece lo può salvare accrescendo il proprio onore. Egli rivolge a Lei il suo grido: “Miserere d’un cor contrito, humíle”, aiutami a rialzarmi, a consacrare a te la mia vita e la mia poesia! La morte è vicina, il rimorso dei peccati angoscia il mio cuore, raccomandami al tuo Figlio che accolga nella pace l’ultimo mio respiro!

Con questi drammatici ed umanissimi versi, pensando alla morte e alla intercessione di Maria si conclude la canzone alla Vergine: Il dí s’appressa, et non pòte esser lunge, sí corre il tempo et vola, Vergine unica et sola, e ’l cor or coscïentia or morte punge. Raccomandami al tuo figliuol, verace homo et verace Dio, ch’accolga ’l mïo spirto ultimo in pace. Nella pace, raccomandato da Maria e accolto nel suo ultimo respiro da Cristo, desidera il poeta concludere la sua vita; la stessa parola “pace”, aspirazione di ogni uomo e di tutta l’umanità, era stata ripetuta tre volte nel verso conclusivo della canzone dedicata all’Italia, lacerata dalle guerre. “I’ vo gridando: Pace, pace, pace!”.


sabato 11 maggio 2024

QUARANTESIMO GIORNO



- di don Giuseppe Grampa

Sono da poco trascorsi quaranta giorni dalla Pasqua.

Fino a un recente passato questo giorno quarantesimo era festivo, oggi non più, e così rischiamo di dimenticare un difficile eppur prezioso evento della vita di Gesù.

Diciamo nel Credo: “Ascese al cielo”. Perché è difficile per la nostra comprensione questo evento? Dobbiamo immaginare che Gesù, come un aquilone sfuggito alla mano di un bambino, si perda in alto tra le nubi?

Così l’hanno immaginato molti pittori, così dicono certe Guide di Terrasanta mostrando ai pellegrini l’orma lasciata dai piedi di Gesù che si staccava da terra e l’apertura circolare nella cupoletta del tempietto, via di fuga verso il cielo.

Lasciamo l’immaginazione e affidiamoci piuttosto a una parola di san Paolo che si domanda che cosa significhi che ascese e risponde: “Colui che discese è lo stesso che ascese al di sopra di tutti i cieli per essere la pienezza di tutte le cose”(Ef 4,10).

L’ascensione è solo la traccia visibile di una realtà più grande: Cristo è il vertice della storia umana e l'Ascensione è il compimento, la verità della passione e della croce. E infatti l'evangelista Giovanni per indicare la crocifissione adopera un verbo singolare: elevare, innalzare.

Gesù stesso così annuncia la sua morte imminente: "Quando sarò elevato-innalzato da terra, attirerò tutti a me"(Gv 12,32).

L'elevazione da terra sul patibolo della croce è innalzamento, glorificazione. Il patibolo è addirittura cantato come "albero bello e splendente". Una volta Gesù, sempre alludendo alla sua morte, aveva detto: “Se il chicco di grano, caduto in terra, muore, produce molto frutto" (Gv 12,24).

L'Ascensione esprime visibilmente questa certezza: solo chi dà la sua vita, chi la perde, chi si abbassa, chi scende nei solchi bui della sofferenza umana, sarà elevato, innalzato, sarà principio di salvezza. Chi discende, nella logica del condividere, del perdersi dentro, chi non teme di abbassarsi in un movimento di partecipazione con chi è al fondo; questi solo ascende ed è l'innalzato.

L'Ascensione è la risposta luminosa al più oscuro discendere. 

RS-SERVIRE

 

ANDATE E PREDICATE


 Ascensione del Signore

 




Vangelo: Marco 16,15-20

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «15Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. 16Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. 17Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, 18prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». 19Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. 20Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

 Commento di  Sabino Chialà

 Seguendo la cronologia lucana (At 1,3), la liturgia colloca l’ascensione del Signore al quarantesimo giorno dalla resurrezione. In questo tempo Gesù ha accompagnato i suoi discepoli nel loro non facile cammino di rielaborazione di quanto era accaduto e di ricominciamento dell’avventura comunitaria.

 Nell’ascensione quel cammino condiviso giunge a un ulteriore passaggio. Gesù è nuovamente sottratto ai suoi, anche se in forma diversa e certo meno traumatica della prima volta. Tuttavia, anche l’ascensione segna una sottrazione, come indica il verbo greco (analámbano) impiegato all’inizio e alla fine della narrazione di tale evento nel libro degli Atti degli apostoli (At 1,2.11).

 Gesù è sottratto e i discepoli sono spinti oltre, a riprendere il cammino. Questo evento segna certamente una fine e un nuovo inizio, ma soprattutto segna il passaggio a una nuova forma di presenza del Maestro con i suoi e nel mondo. Il Signore Gesù torna al Padre, ma al contempo resta presente e operante nella vita e nell’azione della sua comunità. Questa è la prospettiva da cui il brano evangelico previsto per questa domenica ci invita a guardare all’evento che celebriamo. Un brano che al racconto dell’ascensione dedica un solo versetto (v. 19), mentre dà più ampio spazio a quello che Gesù affida ai suoi prima di tornare al Padre (vv. 15-18) e a come tale missione inizia a inverarsi (v. 20).

 Andate in tutto il mondo

Nella prima parte (vv. 15-18) sono raccolte le ultime parole di Gesù secondo il vangelo di Marco (nella cosiddetta “finale lunga”, una delle aggiunte al testo originario, che terminava al v. 8). Si tratta di parole che il Maestro rivolge a un gruppo di discepoli ancora oppresso da incredulità e durezza di cuore (v. 14), e per di più ferito dalla mancanza di un fratello che li rende “Undici” (v. 14). Eppure, proprio a loro, con un’immediatezza che può stupire, Gesù affida l’annuncio del vangelo, in vista della fede: “Andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvato, chi non crederà sarà condannato” (vv. 15-16). Rimproverati per la loro incredulità, sono mandati a chiamare altri alla fede. Nulla di strano in questo. Anzi vi si descrive la dinamica della fede e dell’annuncio: ad essere mandati non sono dei credenti saldi e sicuri di sé, ma esseri umani chiamati a diventare essi stessi sempre più credenti, anche grazie all’annuncio che rivolgeranno ad altri. Di tale dinamica sono testimonianza eloquente i primi passi degli annunciatori così come sono narrati negli Atti degli apostoli.

 Questo ricorda che primi destinatari del vangelo sono gli stessi che lo annunciano. Potrebbe sembrare un’affermazione banale. Invece è utile perché ricorda che quel loro messaggio descrive per tutti, anche per loro, uno spazio di salvezza e uno di condanna. Non lascia indisturbati: o ci si lascia attrarre in un cammino di fede e si riceve la vita, o ci si arena in un cammino di rifiuto e ci si condanna alla morte.

I segni della fede

Vita e morte che appaiono da quelli che Marco chiama i “segni” della fede: “Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono” (v. 17). E anche qui, credenti sono da intendersi sia coloro che annunciano sia i destinatari della loro parola. Il movimento è unico, se i primi a dover diventare credenti sono gli annunciatori.

 L’Evangelista enumera segni diversi, ma accomunati da un tratto che li riassume tutti: descrivono azioni che fanno arretrare il potere del male. Non il “male”, ma il “potere del male”. In questa enumerazione, infatti, Gesù parla di liberazione dai demoni e di malattie che vengono alleviate: “scacceranno demoni” (v. 17) e “imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (v. 18). Ma anche di un male che non è tolto; con il quale si entra in contatto, senza però riceverne danno. Non è né evitato né distrutto, ma reso innocuo: “prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno” (v. 18). Tutti questi segni rimandano alla vita e all’azione di Gesù durante la sua predicazione. Ora però sono affidati ai discepoli che, facendo spazio al vangelo, rendono ancora presente nel mondo la forza di vita del Maestro.

 Infine, segno della fede è la capacità di parlare “lingue nuove” (v. 17), che Luca descriverà come il dono dello Spirito a Pentecoste, quando gli apostoli sapranno farsi comprendere nelle lingue dell’intera terra abitata (At 2,4-11). Segno della fede è anche la capacità di una parola chiara, libera, nuova e comprensibile.

 Tutti questi segni ricordano che Gesù non manda i suoi a costituire degli adepti. Chiede invece loro di diventare e generare uomini e donne liberi, capaci di percorrere cammini di liberazione dal male. Altrimenti la loro sarà solo propaganda per uno dei tanti falsi profeti della storia. Detto in altri termini: la fede nel Risorto si rende evidente dalla libertà che essa genera, sia in chi annuncia sia in chi riceve l’annuncio.

 A questo punto, precisato il mandato, Marco descrive brevemente l’evento dell’ascensione: “Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio” (v. 19). Siamo al momento del passaggio, che inaugura il tempo nuovo della chiesa, in cui il Signore continua ad agire attraverso i suoi discepoli. La descrizione è scarna perché gli occhi del lettore non siano rapiti in cielo, ma restino sulla terra, ad osservare come la missione appena affidata agli Undici si realizza.

La missione

Essi, infatti, continua il testo nell’ultimo versetto: “Partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano” (v. 20). La descrizione di questo nuovo inizio è essenziale quanto accurata.

 La missione è affidata ai discepoli, ma è il Signore ad “agire con loro (synergéo)” e a renderla efficace. Sono essi ad annunciare la Parola, ma è il Signore a “confermarla (bebaióo)” con i segni che la accompagnano; quei segni descritti sopra come evidenza della fede. Si comprende allora la ragione per cui Gesù parla di “segni” che accompagnano coloro “che credono”: perché non di tratta di poteri magici messi nelle mani dei discepoli, ma di segni del Risorto che avvengono in loro e per loro mezzo, e che per questo presuppongono la fede.

 L’ascensione inaugura dunque un nuovo tempo di comunione, un’altra modalità di azione del Signore che non opera più alla presenza dei suoi, ma dentro di essi e attraverso di essi; e questo in forza del suo essere nel Padre e dal Padre.

Alzogliocchiversoilcielo

 

L'AUTOREFERENZIALITA' DI ISRAELE


Le ultime perplessità

 degli Stati Uniti 

sulla guerra di Israele

«Se Israele sarà costretto a restare da solo, Israele resterà solo (….). Dico ai leader del mondo: nessuna pressione, nessuna decisione da parte di nessun forum internazionale, impedirà a Israele di difendersi».

 - di Giuseppe Savagnone

Sono le parole con cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha risposto all’annuncio del presidente Biden che, se le truppe israeliane entreranno a Rafah, gli Stati Uniti sospenderanno l’invio di armi allo Stato ebraico.

 I commentatori l’hanno definita una svolta. Anche se ribadendo il suo appoggio, per la prima volta il presidente americano prende le distanze dal governo di Netanyahu non a parole ma con i fatti.

Senza la costante fornitura assicurata dall’alleato americano, Israele non sarebbe stato in grado di sottoporre la Striscia di Gaza alla pioggia ininterrotta di bombe con cui l’ha tempestata ogni giorno per sette mesi. Già alla fine di novembre scorso, si calcolava che fossero state sganciati – su un territorio di 360 Km quadrati (poco più della metà della città di Madrid!), popolato di circa due milioni e mezzo di persone – più  di 25.000 tonnellate di esplosivi, l’equivalente di due bombe nucleari.

 In particolare, Biden ha alluso alle micidiali bombe da novecento chili che l’amministrazione americana ha fornito allo Stato ebraico – sono state circa settemila – e che, secondo inchieste indipendenti del «New York Times» e della CNN, già nei soli mesi di ottobre e novembre sono state sganciate dall’aviazione israeliana almeno in 208 casi, anche su aree indicate dalle autorità miliari come “sicure”, spingendo gli abitanti di Gaza a rifugiarsi in esse, dopo l’inizio dell’operazione di terra.

 Non c’è da stupirsi che i dati forniti da più fonti parlino di 35.000 civili uccisi in questi sette mesi, su 2mln e mezzo di abitanti – per la maggior parte donne e bambini (in Ucraina i civili morti a causa della guerra sono stati, in più di due anni,  10.000, su 40 mln di abitanti!). E si continuano a scoprire fosse comuni dove sono accatastati altri cadaveri. Per non parlare delle innumerevoli abitazioni, degli uffici, degli ospedali, delle moschee rasi al suolo da questi bombardamenti a tappeto.

 Anche se forse la violenza più grave e che tutte le organizzazioni mondiali e gli stessi Stati tradizionalmente alleati di Israele denunciano è stata la catastrofe umanitaria provocata dal blocco operato dall’esercito israeliano ai valichi della Striscia, impedendo il rifornimento di viveri e di medicinali.

 «La fame a Gaza è usata come arma di guerra, diciamolo chiaro. Ci sono sette mesi di derrate alimentari bloccate», ha denunciato il responsabile della politica estera dell’UE Josep Borrell senza mezzi termini.

 Ora che circa un milione e mezzo dei civili cacciati nei mesi scorsi dalle loro case e dalle loro terre, si sono rifugiati a Rafah, Biden – come del resto i maggiori leader del mondo occidentale – avevano chiesto a Israele di desistere dall’attaccare direttamente quest’ultimo angolo di territorio, insistendo per un accordo che portasse a una tregua accompagnata dalla liberazione degli ostaggi. 

 La risposta di Netanyahu è stata che Israele avrebbe comunque invaso Rafah, «con o senza accordo». E sta mantenendo la parola, fra le proteste del suo più stretto alleato, gli Stati Uniti, e di un inedito schieramento di governi che dalla Russia al Regno Unito, dalla Francia alla Cina, dagli Stati Arabi all’Australia, si stanno trovando, come in pochissime altre occasioni, unanimi nel condannare questa scelta.

 L’isolamento dello Stato ebraico

Il risultato di tutto questo è un isolamento internazionale che lo Stato ebraico non aveva mai sperimentato. Non solo nelle Università americane ed europee, ma anche per le strade si moltiplicano ogni giorno di più le proteste per ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza.

 È dai tempi della guerra del Vietnam che non si assisteva a una simile mobilitazione popolare. L’ultima manifestazione è quella che ha coinvolto persone di ogni età e professione, perfino famigliole con figli, a Malmö, in Svezia, in occasione della 68esima edizione dell’Eurovision, un festival musicale da sempre all’insegna dell’unione fra i popoli, per la presenza delle bandiere israeliane ma non di quelle palestinesi e per la partecipazione ufficiale di un rappresentante israeliano.

 I governi occidentali, che hanno sempre considerato Israele il baluardo della democrazia in un mondo islamico dove la regola sono regimi autoritari, e che per i primi mesi anche durante questa guerra gli hanno mostrato una piena solidarietà, si trovano ormai in grande imbarazzo.

 Un imbarazzo testimoniato, fra l’altro, dalla decisione di diversi Stati (Unione Europea (UE), Canada, Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia, Germania, Francia, Giappone, e, ultimamente anche Italia) – che, alla fine di gennaio, avevano immediatamente sospeso il finanziamento all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, dopo che il governo israeliano aveva accusato alcuni dipendenti dell’Agenzia di aver partecipato all’attacco del 7 ottobre –  , di riconoscere che Israele non ha ancora fornito le prove che sosteneva di avere a supporto della propria tesi e di riprendere gli aiuti a una popolazione stremata dall’embargo israeliano.

 Tutti antisemiti?

Certo, da parte di questi governi si denunzia con grande preoccupazione una pericolosa ripresa dell’antisemitismo. Ed è vero, purtroppo, che proprio le lobbies e la associazioni ebraiche europee e americane, sostenendo incondizionatamente il modo in cui lo Stato ebraico sta conducendo la guerra e accusando di antisemitismo ogni critica nei suoi confronti, hanno finito col favorire questa identificazione anche da parte di chi inizialmente non aveva nulla contro gli ebrei in quanto tali.

 E così sono diventati tutti antisemiti: papa Francesco, accusato di aver messo sullo stesso piano le innocenti vittime israeliane della strage del 7 ottobre con quelle, altrettanto innocenti, causate dalla reazione israeliana; il segretario generali  dell’ONU, Guterres, per aver ricordato che quella terribile data non è comunque l’inizio di tutto, ma si inserisce in una storia dolorosa in cui anche Israele ha le sue responsabilità; l’ONU stessa per avere chiesto una tregua immediata che risparmiasse i civili; organizzazioni umanitarie come Amnesty International e Medici Senza Frontiere, per aver denunciato le angherie subite dalla popolazione  di Gaza.

 E tutti sono accusati di aver dimenticato e di voler rimuovere gli orribili crimini commessi da Hamas, solo perché, pur avendo più volte espresso e ribadito la loro ferma condanna di quei crimini e chiedendo il rilascio degli ostaggi, ritengono inaccettabili anche le violenze con cui Israele ha risposto.

 Né sembra un argomento sufficiente per giustificare queste violenze il fatto innegabile e ossessivamente ripetuto, che Israele è stato vittima di un’aggressione. Essere aggrediti non autorizza comportamenti disumani, contrari all’etica e ad ogni legge internazionale, tanto più se messi in atto non contro chi ha perpetrato l’aggressione, ma nei confronti di una popolazione inerme e innocente.

 E sostenere che il terribile costo umano di questa guerra sia solo un involontario danno collaterale, come fanno il governo israeliano e i rappresentanti delle comunità ebraiche, significa chiudere gli occhi sull’evidente intenzionalità delle azioni distruttive e omicide con cui si è voluto isolare i terroristi facendo terra bruciata intorno a loro, sulla pelle di un intero popolo. È involontario colpire qualcuno per sbaglio, non seviziarlo e ucciderlo deliberatamente per stanare qualcun altro che è il vero bersaglio.

 Si potrà fare ogni sorta di rilievi sugli eccessi che anche in questo caso, come spesso accade, caratterizzano le proteste universitarie; far giustamente notare che gli accordi per progetti di ricerca comuni  – a meno che non riguardino tecnologie militari – non hanno a che fare con la guerra in corso; che proprio la classe intellettuale  di Israele può costituire un risorsa critica contro la politica di Netanyahu e degli ultra-ortodossi bellicisti.

 Tre domande senza risposta

Resta il fatto che troppi governi – a cominciare dal nostro – non hanno finora mosso un dito, concretamente, per fermare questo massacro, in corso da ben sette mesi, anzi in una prima fase si sono limitati a vaghe raccomandazioni per il rispetto dei diritti umani, chiudendo gli occhi sul fatto evidente che erano clamorosamente negati. La rabbia dei giovani, con le sue intemperanze, è la risposta a questa ipocrisia ufficiale.

 Ma il problema vero, ormai, è che Israele è rimasto il solo – purtroppo col supporto dei maggiori esponenti del mondo ebraico internazionale – a sostenere di avere pienamente ragione, indignandosi, in buona fede, perché qualcuno mette in dubbio l’umanità e la legittimità del suo comportamento in questa guerra.

 Ritornano le parole di Netanyahu: «Se Israele sarà costretto a restare da solo, Israele resterà solo (….). Dico ai leader del mondo: nessuna pressione, nessuna decisione da parte di nessun forum internazionale, impedirà a Israele di difendersi».

 Ma può uno Stato rivendicare, giustamente, il proprio diritto ad esistere, in base ai criteri elementari di umanità e delle leggi internazionali, negando al tempo stesso  questo diritto a un altro popolo?

 E può chiedere il riconoscimento da parte della comunità mondiale, rifiutandone però il giudizio unanime sui propri comportamenti? E una democrazia che chiede solidarietà alle altre contro il terrorismo è ancora all’altezza della sua pretesa se cerca di colpire i suoi nemici (Hamas) terrorizzando e uccidendo degli innocenti?

 www.tuttavia.eu

*Scrittore ed Editorialista. Pastorale della Cultura - Arcidiocesi Palermo