DI
FUTURO
Uno studente molto intelligente, diretto
e quindi scomodo provoca l’insegnante con una protesta che fa riflettere
«Questo romanzo mi interessa di più» Se Mattia non
segue la lezione del prof.
Ha quasi 18 anni, i voti migliori della classe e viene beccato a leggere Asimov durante le spiegazioni in aula
«Credo di avere la capacità di scegliere come
investire il mio tempo». E le regole?
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di MARCO ERBA*
Le proteste degli
studenti fanno sempre discutere, che siano gli universitari di medicina o i
maturandi che si rifiutano di sostenere l’orale. Anche io, come prof, mi sono
imbattuto nella mia carriera in diverse forme di protesta. Una delle più
pittoresche, se così si può definire, fu quella di un mio allievo di quarta
superiore, che fece infuriare un collega. Ricordo l’ingresso di quel docente in
sala insegnanti: era furente e aveva ragione. Il ragazzo in questione era
intelligentissimo, dotato di un elevato senso critico, ma a tratti anche duro,
eccessivamente diretto; mai esplicitamente provocatorio, mai platealmente
sgradevole, ma a volte scomodo o addirittura indisponente. Il collega raccontò
l’accaduto. Stava spiegando e aveva notato che quell’allievo non seguiva. Lui,
prof preparatissimo, molto deciso, appassionato, era subito intervenuto.
L’allievo, che stava guardando sotto il banco, aveva alzato la testa. « Mattia,
cosa stai facendo? Cos’hai lì sotto? ». Mattia, sereno, aveva risposto:
«Questo!». E aveva alzato un romanzo di fantascienza di Isaac Asimov.
La sua naturalezza era
riuscita a far restare il prof senza parole. Mattia aveva spiegato serafico:
«Questo romanzo mi interessa più di quello che lei sta spiegando. Comunque
studierò tutto sul libro, a casa, e nell’interrogazione prenderò un buon voto».
Su quest’ultima affermazione non c’era alcun dubbio, dato che Mattia era uno
degli studenti coi voti migliori della classe.
Ne era seguita una
sacrosanta sfuriata, ma Mattia non si era scomposto minimamente, difendendo la
sua posizione: se riteneva un argomento irrilevante per la propria vita,
riteneva di avere il diritto di ignorarlo. Mi sentii subito dalla parte del mio
collega, provai fastidio io stesso. Mi innervosiva l’atteggiamento di Mattia:
se ognuno dei suoi compagni si fosse comportato come lui, noi prof come avremmo
potuto fare lezione? Eppure, comprendevo che quella sua forma di contestazione,
o forse semplicemente quella sua scelta, in qualche modo conteneva una
provocazione utile. Per questo gli parlai. Lui accettò il confronto, come
sempre. «Prof, ho quasi diciotto anni. Credo di avere la capacità di scegliere
come investire al meglio il mio tempo, no?». «Sì, Mattia, però ci sono delle
regole, dal cui rispetto dipende una condizione di lavoro serena per tutti, non
credi?». «Certo. Io però non impedivo ai miei compagni interessati di seguire.
Ero in perfetto silenzio».
« Ma pensa agli altri che
ti vedevano! Il tuo atteggiamento ti sembra costruttivo?». « Perché, prof?
Vedere uno che legge un romanzo distoglie chi è interessato da una spiegazione?
». « E l’insegnante? Sta spiegando, ce la mette tutta e vede uno che legge un
romanzo sotto il banco!». « Mi sta dicendo che un prof che insegna da tanti
anni si offende se uno studente non segue una sua lezione? O mi sta
consigliando di fingere di seguire?». Niente: non ne cavai un ragno dal
buco.
La scorsa estate, quando
alcuni studenti si sono rifiutati di sostenere l’esame orale della maturità in
segno di protesta, mi è tornato in mente Mattia. Le sue affermazioni avevano
qualcosa in comune con quella contestazione. Credo che la questione fondamentale
sia questa: quanto la scuola tocca davvero la vita degli studenti? Quanto
davvero li aiuta a crescere come persone? E quanto invece è, o viene percepita,
come una noiosa imposizione, come un dovere arido, come una pressione volta
alla prestazione pura? L’atteggiamento di Mattia con quel collega è
assolutamente non condivisibile, proprio come è estremamente forte e
provocatoria la scelta di non sottoporsi alla prova orale della maturità. Sono
però convinto che un atteggiamento di pura censura, di critica, da soloni
che hanno già la verità in tasca e si limitano a urlare O tempora,
o mores! facendo il verso a Cicerone e spiegando a quei
ragazzi come avrebbero dovuto comportarsi invece di fare ciò che
hanno deciso di fare, non porti da nessuna parte. Ma non portano
da nessuna parte nemmeno i tentativi di strumentalizzare
quella protesta attraverso una acritica esaltazione. Trovo molto
più promettente, di fronte a queste azioni, pormi e porre delle
domande: le domande schiudono il cammino, aprono orizzonti, al
contrario dei giudizi troppo netti, che costruiscono steccati. Potremmo ad
esempio chiederci che senso hanno i voti nella scuola. Che senso ha il buon
voto di Mattia in una interrogazione su un argomento che trova tanto
irrilevante per la sua esistenza da leggere un romanzo di fantascienza durante
la spiegazione in classe? Che senso hanno i voti di maturità e i voti in
generale? Sono stimoli per un percorso o un giudizio sulla qualità di una
persona?
Essere valutati è
importante.
Ottenere un voto positivo dopo essersi
impegnati può essere un’esperienza molto formativa. I voti però misurano
una prestazione scolastica, nulla di più: non sono un giudizio di Dio, non
dicono nulla della qualità umana dei nostri studenti: occorre ricordarlo. Le
persone non sono i voti che prendono, eppure quante volte io, da prof, ho
faticato a vedere il valore di chi a scuola va male o molto male e invece ho
colto con molta più facilità le qualità personali dei miei allievi più attivi,
partecipi, impegnati, capaci di ottenere ottimi risultati con facilità? I voti
sono un cartello che indica una direzione, non un proiettile da sparare su chi
riteniamo inadatto o colpevole. Dobbiamo sempre ricordare che l’intelligenza
non ha una definizione univoca: ognuno ha le proprie doti. Se uno studente si
impegna, ma va male nella mia materia, non significa che non sia intelligente,
significa semplicemente che ha un’intelligenza diversa dalla mia, in quanto
essere umano unico, irripetibile e quindi diverso da me. Di fronte alle
provocazioni degli studenti potremmo inoltre chiederci cosa sia per noi la
scuola: un luogo accogliente o un campo di battaglia? Una spedizione verso una
cima difficile, nella quale ci aiutiamo a vicenda, o uno Squid Game giocato
tutto sull’eliminazione dei più fragili, sulla selezione dei migliori? La
scuola forse può ambire ad essere una privilegiata palestra di felicità, se
accetta la sfida delle interrogazioni e delle verifiche senza però scadere
nell’ossessione per la prestazione e la selezione a tutti i costi. Una scuola
esigente con tutti, ma che non riduce le persone a numeri. M i
piacerebbe però porre una domanda anche a Mattia e a quegli studenti che hanno
rifiutato di sottoporsi all’orale: voi agite seguendo i principi in modo
assoluto o cercando di essere responsabili? I principi, se seguiti in modo
inflessibile, possono portare a rifiutare la realtà, a tirarsene fuori, a
contestarla. Tutto legittimo, ma poi? Non esiste realtà umana che sia come
dovrebbe essere: le istituzioni, il mondo, le persone stesse non sono come
dovrebbero, sono ciò che sono. È una banalità, ma bisogna farci i conti. La
realtà, anche quella della scuola, si può rifiutare perché ingiusta o
inadeguata, oppure si può vivere con amore, standoci dentro, cambiando le cose
nella fatica di ogni giorno. Questo è lo stile della responsabilità, di chi si
fa carico degli altri, di chi si chiede quale effetto la sua azione concreta
avrà sul contesto intorno. Ricordo una classe estremamente competitiva, dove
ogni interrogazione o verifica era l’occasione per una malsana gara a chi
prendeva i voti migliori. Due compagne, che ottenevano voti molto buoni, ma si
trovavano a disagio in quel clima, decisero una forma di protesta strepitosa:
iniziarono a trovarsi al pomeriggio con i loro compagni più in difficoltà
aiutandoli a studiare. Scelsero di avere più a cuore il miglioramento di chi
faticava che il primeggiare. Non rinunciarono ai loro principi, ma li
trasformarono in responsabilità, in cura, in dedizione. Mi commossero: se la
protesta scuote, è la responsabilità che costruisce futuro.
Le contestazioni dei
ragazzi richiamano una domanda: la scuola tocca davvero la loro vita? La si può
rifiutare perché inadeguata. Ma la si può anche vivere, e cambiare, standoci
dentro.
La scuola richiede lo
stile della responsabilità di chi si fa carico anche degli altri.
*Insegnante e scrittore