martedì 9 dicembre 2025

QUANTO VALE LA NOSTRA VITA?


 Recalcati: “Il valore della vita dipende da quanto è viva e non da quanto è lunga”, una riflessione sul desiderio che allarga il nostro orizzonte e dà senso autentico alla nostra esistenza

La Redazione

La vita, imprevedibile ed imponderabile, riesce sempre a stupirci, regalandoci emozioni uniche ed irripetibili, mettendoci alla prova e giorno dopo giorno insegnandoci a danzare sotto la pioggia.

Ed invero sono proprio i momenti più difficili, quelli nei quali sarebbe più semplice mollare che andare avanti, che ci fortificano, temprando il nostro carattere, trasformandosi così in ottime occasioni di rivalsa per poter rialzarci, volgendo lo sguardo verso uno splendido arcobaleno.

Ed allora quando possiamo definire la nostra vita degna di essere vissuta?

A tal proposito lo psicoanalista e saggista italiano Massimo Recalcati esprime il suo pensiero in tal modo:

“Uno dei miti contemporanei è quello di attribuire un valore in sé al prolungamento illimitato della vita. Garantire la vita più lunga possibile sembra imporsi su qualunque altra valutazione di merito. Di qui l’ossessione per il cosiddetto benessere, ovvero per un salutismo spesso penitenziale che vorrebbe scongiurare non solo la malattia ma la morte stessa. Nessun tempo ha conosciuto in forme così esasperate l’ossessione per il benessere e per il prolungamento ad ogni costo della vita. Un corteo variegato di specialisti ci spinge ad identificare indebitamente il valore della vita con la sua durata dimenticando che ciò che dà valore alla vita non è affatto il suo essere lunga quanto la possibilità di poter

Dunque, il valore della nostra vita non si misura dalla sua durata, quindi dalla sua quantità, ma piuttosto dalla qualità degli attimi che abbiamo vissuto con intensità, così da rendere ogni giorno unico ed impareggiabile.

A rendere viva la nostra vita, pertanto, è proprio il desiderio, “nostra inclinazione singolare, nostro talento particolare. La nostra responsabilità consiste nel riconoscerlo e nell'assumerlo, ovvero nel vivere secondo la sua legge”, così come ci spiega molto significativamente lo psicoanalista.

Ecco allora l’importanza di coltivare il proprio talento perché il desiderio non è altro che “una potenza che allarga l'orizzonte della nostra vita”.

Tanto più saremo in grado di allargare la nostra vita, tanto più la nostra vita sarà viva e degna di essere vissuta.

“Certamente non esistono misure standard per definire questa ampiezza. Un amico monaco che vive in una condizione eremitica mi spiegava che l’ampiezza della sua vita coincideva con quella del geranio sulla sua finestra e dell’uccello che dimorava sul ramo di un albero nel giardino. 

Nessuno può decidere quando una vita sia davvero larga”, queste le parole con le quali Massimo Recalcati culmina la sua disamina.

Perciò, bisogna sempre avere il coraggio di osare, volgendo lo sguardo oltre l’orizzonte, coltivando il proprio talento, le proprie passioni, lottando per esaudire i propri sogni, abbandonando così l’illusione di una vita lunga e spesso priva di valore.

A scuola oggi

Immagine

DISLESSICO FAMIGLIARE

 


 Cronache (s)connesse di una famiglia straordinariamente normale 


di Giampaolo Morelli (Autore), Gloria Bellicchi (Autore)  


 Giampaolo era considerato uno studente pigro, svogliato, addirittura poco dotato, ma la verità era un'altra: il suo cervello, semplicemente, funzionava in modo diverso. All'epoca non si parlava di dislessia e disturbi dell'apprendimento, mentre oggi questi temi sono all'ordine del giorno. Eppure, quanto ne sappiamo davvero sull'argomento? È quello che si è chiesta Gloria nel momento in cui ha scoperto che non solo suo marito Giampaolo, ma anche i loro due figli, Gianmarco e Pier Maria, sono dislessici.

Questo libro nasce dal bisogno di raccontare la quotidianità di una famiglia per tre quarti neurodivergente: e così, tra compiti a ostacoli e lettere che si rincorrono, prende forma un racconto vivo, umano, che mescola il memoir al consiglio pratico, l'esperienza personale alla riflessione condivisa; senza la pretesa di insegnare, ma con il desiderio di offrire uno spaccato di vita e uno sguardo onesto su ciò che significa convivere con la dislessia - da genitori e da figli -, affrontando le difficoltà ma anche valorizzando le risorse, i talenti, le prospettive diverse.

Tra aneddoti, errori e traguardi, il lettore troverà una storia in cui riconoscersi e un piccolo vademecum costruito sul campo: utile per chi deve affrontare situazioni simili, illuminante per chi vuole semplicemente capire qualcosa in più.

Due voci autentiche e autorevoli - quelle di Giampaolo e Gloria - in queste pagine si alternano per mostrare come essere «diversi» non significhi essere sbagliati. 

E come, in fondo, la vera sfida sia imparare a cambiare punto di vista.



L'ARTE DEL PRENDERSI CURA

 


Il Piccolo Principe

 e la lezione 

della sua rosa: 

il vero amore 

nasce dalla cura

 

Per Antoine de Saint-Exupéry, la lezione della Rosa ne "Il Piccolo Principe" insegna che le relazioni importanti richiedono cura e responsabilità.

 

-         di Saro Trovato

-          

Una delle più grandi lezioni sul valore delle persone a cui si vuole bene che Il Piccolo Principe dona ai suoi lettori è sorprendentemente semplice e, al tempo stesso, rivoluzionaria: una relazione diventa unica solo quando qualcuno sceglie di averne curaAntoine de Saint-Exupéry affida questa verità a una Rosa fragile e alla saggezza silenziosa della Volpe, mostrando che il vero amore, e qualunque legame profondo, non nasce dalla perfezione dell’altro, ma dal tempo, dall’attenzione e dalla responsabilità investiti nella relazione.

È solo comprendendo questa legge che il Piccolo Principe riesce a cogliere ciò che gli occhi non avevano saputo mostrargli. La sua Rosa non era speciale per natura, ma lo era diventata grazie alla storia costruita giorno dopo giorno attraverso gesti di cura.

Questa intuizione risiede nel cuore di uno dei testi più significativi del Novecento. Pubblicato nell’aprile del 1943, Il Piccolo Principe è l’opera più celebre di Antoine Saint-Exupéry e uno dei libri più tradotti e amati al mondo. La sua grandezza non dipende dalla forma fiabesca, ma dalla capacità di trasformare un racconto breve in una meditazione universale sulle relazioni, sull’unicità e sulla responsabilità affettiva.

In questo quadro, la lezione della Rosa svela il suo valore più profondo: ciò che rende una persona insostituibile non è ciò che è, ma ciò che si sceglie di costruire con lei attraverso la cura.

I 5 punti della lezione della Rosa che Antoine de Saint-Exupéry dona sulle relazioni

Il percorso del Piccolo Principe con la sua Rosa diventa una guida preziosa per comprendere che cosa renda davvero unico un legame. Attraverso cinque momenti chiave, Saint-Exupéry mostra come il valore di una relazione nasca dalla cura, dal tempo condiviso e dalla responsabilità affettiva.

Sono lezioni che riguardano l’amore, l’amicizia e ogni relazione profonda della vita.

1. La crisi del valore: quando l’unicità sembra svanire

La grande svolta narrativa e simbolica arriva quando il “Piccolo Principe” scopre un intero roseto simile alla sua Rosa. Ciò che fino a quel momento era stato percepito come unico, improvvisamente appare comune, replicabile, sostituibile.
Da qui nasce la delusione che lo spinge a mettere in discussione tutto ciò che credeva di sapere sull’amore:

Credevo di essere ricco perché avevo un fiore unico al mondo, e invece non sono che il proprietario di una rosa qualsiasi.

La sua crisi rivela una verità che riguarda ogni relazione umana. Finché non viene costruita una storia condivisa, una persona è una tra molte, non una tra le poche. Saint-Exupéry mette in scena il crollo dell’illusione estetica per mostrare che l’unicità non è qualcosa che si trova, ma qualcosa che si costruisce nel tempo.

E questa è la prima grande intuizione: senza cura, nessun rapporto può dirsi speciale.

2. La rivelazione della Volpe: l’unicità nasce dal tempo donato

È la Volpe a trasformare la crisi del Piccolo Principe in consapevolezza. Il suo insegnamento contiene la chiave interpretativa dell’intera opera:

È il tempo perso per la tua rosa che rende la tua rosa così importante.

Quel “tempo perso” non è tempo sprecato, ma tempo donato, sottratto alla produttività e al calcolo, dedicato alla costruzione di un legame.
Il “Piccolo Principe” ripensa allora a tutto ciò che ha fatto per la sua Rosa. L’ha protetta sotto una campana di vetro nelle giornate di vento, l’ha annaffiata ogni mattina con pazienza, l’ha ascoltata quando si lamentava o quando si vantava, e ha accolto anche i suoi silenzi.

Sono questi gesti, ripetuti e spesso invisibili, che trasformano un rapporto in qualcosa di unico.

L’unicità non è un dono naturale, ma la conseguenza del tempo donato, dell’attenzione e della responsabilità che si decide di assumere.

3. La verità dell’essenziale: il cuore vede ciò che sfugge agli occhi

La Volpe offre poi la frase più celebre dell’opera:

Si vede bene soltanto col cuore. L’essenziale non lo vedono, gli occhi.

Non è un invito al sentimentalismo, ma una riflessione sulla percezione del valore. Gli occhi vedono solo ciò che è replicabile: le cinque mila rose del roseto. Il cuore vede ciò che è insostituibile: la storia vissuta, i gesti, la cura.

Quando il Piccolo Principe si rivolge alle rose del giardino, afferma:

Voi non siete affatto uguali alla mia rosa, voi non siete ancora niente… Siete belle ma siete vuote.

Questa frase racchiude una verità universale, ovvero che la bellezza senza legame non crea valore e che la cura senza bellezza crea invece un legame inestimabile.

4. La responsabilità del legame: la prova definitiva dell’amore

L’insegnamento si compie nella frase più adulta e impegnativa dell’intera opera:

Tu sarai per sempre responsabile di ciò che hai addomesticato.

Qui Saint-Exupéry introduce la dimensione etica dell’amore: un legame non è soltanto sentimento, ma responsabilità. Chi diventa parte della nostra vita merita continuità, presenza, fedeltà emotiva.

Il legame non è un evento, ma una scelta rinnovata, un impegno che nasce dal riconoscere la vulnerabilità dell’altro e la nostra capacità di influire sulla sua felicità.

5. Una lezione universale: vale per l’amore, l’amicizia e ogni relazione significativa

La cura che rende unica la Rosa non è solo metafora dell’amore romantico. È la legge che regola ogni legame profondo, dall’amicizia agli affetti familiari, fino alle persone con cui si costruisce un rapporto importante.

Ogni volta che qualcuno investe tempo, ascolto, attenzione, un legame prende forma. Ogni volta che si accettano le imperfezioni dell’altro, quel legame si rafforza. Ogni volta che si sceglie di restare, nasce l’unicità.

Il Piccolo Principe non invita a cercare persone perfette, ma a riconoscere la bellezza che nasce dalla cura reciproca.

La cura come fondamento di ogni legame umano

Nel percorso de Il Piccolo Principe, Antoine de Saint-Exupéry non offre semplicemente una metafora poetica, ma un principio che riguarda da vicino ogni persona: la qualità di un legame dipende dalla cura che gli viene dedicata. È questo il punto in cui la fiaba si trasforma in un’analisi lucida delle relazioni umane.

Il Piccolo Principe comprende troppo tardi che la Rosa non chiedeva perfezione, ma presenza. Non pretendeva di essere capita senza sbavature, ma desiderava che qualcuno restasse accanto alla sua fragilità. Questa intuizione, frutto di rimpianto e consapevolezza, rivela la dinamica più profonda delle relazioni contemporanee. Spesso si confonde la facilità con il valore, la bellezza con la verità, la novità con l’unicità.

Eppure, come insegna il libro, una relazione non diventa importante perché appare straordinaria, ma perché qualcuno sceglie di attraversarne le imperfezioni con continuità.
La cura è ciò che trasforma un incontro in una storia, una conoscenza in amicizia, una presenza in amore.

Comprendere questa legge significa riconoscere che nessun legame può reggersi sul desiderio immediato, sulla spontaneità o sull’emozione passeggera. Tutto ciò che è umano vive di attenzione ripetuta, di gesti piccoli ma costanti, di responsabilità che non si impone, ma che nasce naturalmente dal valore che l’altro acquisisce nella nostra vita.

Saint-Exupéry sembra ricordare che oggi, più che mai, il rischio maggiore non è soffrire per qualcuno, ma non concedere a nessuno il tempo necessario per diventare importante. Chi non investe cura resta circondato da “rose belle ma vuote”, relazioni superficiali, legami senza profondità.

Il Piccolo Principe, invece, scopre che l’essenziale non è la perfezione della Rosa, ma il rapporto che ha costruito con lei. E che ciò che si cura, ciò che si protegge, ciò per cui si resta, diventa inevitabilmente unico.

Questa è, in ultima analisi, la lezione che attraversa il libro di Antoine de Saint-Exupéry e continua a parlare agli adulti.

 L’unicità non si eredita, si crea.

E ciò che si crea con cura merita di essere custodito.

 Libreriamo

Immagine

 

 

lunedì 8 dicembre 2025

FORMARE COSCIENZE DI PACE


 A partire dalla Nota di Zuppi:


Il testo del cardinale Matteo Zuppi sulla Nota della CEI “Educare a una pacedisarmata e disarmante” nasce dentro un tempo di guerre diffuse e di violenza quotidiana. Non è un commento teorico, ma una consegna: il Signore ci dona la sua pace, e nello stesso tempo ce la affida. È un dono da custodire e una responsabilità da assumere.

Seguendo il suo intervento punto per punto, si vede emergere un vero percorso pedagogico: dalla radice evangelica della pace alla lettura severa del presente, fino al compito concreto di trasformare comunità, istituzioni e relazioni in “case di pace”.

1. La pace come dono e compito

Zuppi parte dal Vangelo: la pace non è semplicemente assenza di conflitti, ma il volto stesso di Dio consegnato agli uomini. Gesù chiama «beati gli operatori di pace» perché assomigliano al Padre; la pace, dunque, non è un accessorio spirituale, ma l’identità del cristiano.

Per questo – ricorda – i credenti non possono limitarsi a desiderare la pace: devono coltivare una vera “cultura di pace”. È una cura quotidiana, una preoccupazione costante per tutti, credenti e uomini di buona volontà, perché la pace non riguarda solo i fronti armati ma il modo in cui viviamo, parliamo, lavoriamo, costruiamo rapporti.

2. Le comunità come “case della pace e della non violenza”

Zuppi riprende l’idea – cara al magistero recente – che ogni comunità cristiana dovrebbe diventare una “casa della pace e della non violenza”.

Che cosa significa, in concreto?

• un luogo dove si impara a disinnescare l’ostilità con il dialogo;

• dove la giustizia non è parola astratta ma stile di vita;

• dove il perdono viene custodito come risorsa umana e spirituale, non come debolezza.

La parrocchia, l’associazione, il gruppo di volontariato, la famiglia credente: tutti possono essere piccoli laboratori in cui si sperimenta che un altro modo di stare insieme è possibile. Se le comunità non diventano scuole di pace, il Vangelo resta una predicazione disincarnata.

3. La Nota della CEI: continuità e novità

Per dare forma concreta a questo compito, la Commissione episcopale per i problemi sociali, il lavoro, la giustizia e la pace – insieme a teologi e teologhe che da anni riflettono su questi temi – ha preparato la nuova Nota pastorale.

Zuppi ricorda che non si parte da zero: già nel 1998 la CEI aveva pubblicato Educare alla pace. Oggi, però, è necessario un passo ulteriore: parlare di una pace “disarmata e disarmante”.

• Disarmata, perché rifiuta la logica delle armi come soluzione ai conflitti.

• Disarmante, perché smonta le giustificazioni culturali, economiche, politiche che rendono la guerra “accettabile” o inevitabile.

La Nota è stata approvata dall’assemblea della CEI ad Assisi: non è quindi solo il pensiero di alcuni esperti, ma una parola assunta collegialmente dai vescovi italiani.

4. Cristo «nostra pace» e la dottrina sociale della Chiesa

Il cuore del documento – e del commento di Zuppi – è la centralità di Cristo. Non esiste un discorso cristiano sulla pace che prescinda dal suo modo di vivere e di morire.

Chiamare Gesù «nostra pace» significa:

• riconoscere che la riconciliazione parte dalla croce, dove l’odio viene vinto non con altra violenza ma con il dono di sé;

• capire che ogni annuncio cristiano deve portare dentro di sé un impegno concreto per la concordia, la giustizia, la vicinanza agli ultimi.

Zuppi mostra come la Nota si collochi nel solco della dottrina sociale della Chiesa: non è solo un testo spirituale, ma un’analisi lucida della realtà, delle sue ferite, delle sue strutture di ingiustizia. La pace, per la tradizione cristiana, è sempre legata alla giustizia; non c’è pace vera dove le disuguaglianze esplodono e i diritti di molti vengono sacrificati per gli interessi di pochi.

5. Le “inutili stragi” del nostro tempo

Da qui il cardinale passa a leggere la situazione attuale. Il mondo è segnato da «inutili stragi» – espressione che evoca le parole già usate contro le carneficine della prima guerra mondiale – e oggi riguarda soprattutto civili e bambini.

 

Zuppi denuncia tre grandi malattie:

1. La logica della deterrenza armata

L’idea che la sicurezza si fondi sull’accumulare armi sempre più sofisticate e distruttive. È una mentalità che sposta risorse enormi verso l’industria bellica e alimenta un clima di paura permanente.

2. La violenza diffusa

Non solo sui fronti di guerra, ma nelle città, nei linguaggi d’odio, nelle relazioni segnate da aggressività, nel bullismo, nella violenza domestica. Quando la violenza diventa “normale”, i giovani ne restano affascinati: non la percepiscono più come scandalo ma come modo di affermarsi.

3. L’economia che si abitua alla guerra

Il mercato degli armamenti influenza la politica, orienta scelte di bilancio, crea interessi che hanno bisogno del conflitto per continuare a prosperare.

Di fronte a tutto questo Zuppi non si rassegna: proprio per questo, dice, è urgente un rinnovato annuncio di pace, e la Nota intende essere un piccolo strumento per suscitare coscienze critiche, comunità vigili, cittadinanza responsabile.

6. La voce comune delle Chiese: la Dichiarazione congiunta

Il testo fa memoria anche di una Dichiarazione congiunta recente del Papa e del Patriarca ecumenico. Insieme chiedono il «dono divino della pace sul nostro mondo» e sottolineano che, in tante regioni, conflitti e violenze continuano a distruggere vite innocenti.

Non si tratta solo di parole: è una chiamata diretta a chi ha responsabilità politiche e civili perché faccia tutto il possibile per fermare le guerre e per avviare percorsi di riconciliazione. Zuppi insiste su questo punto: la pace non è un sentimento privato, ma una responsabilità pubblica.

L’unità delle Chiese – quando si esprime in una voce concorde contro il riarmo e la corsa alle armi nucleari – diventa un segno profetico, una provocazione rivolta ai governi e alle opinioni pubbliche.

7. La Parola di Dio come scuola di riconciliazione

La seconda parte della Nota – e del commento di Zuppi – indica il fondamento biblico e teologico della pace.

Dalla Scrittura e dal Magistero emerge una visione di riconciliazione e convivenza tra i popoli, continuamente minacciata dal peccato non solo come fragilità personale, ma anche come strutture di ingiustizia: economie che escludono, sistemi politici violenti, culture che legittimano l’odio.

Mettersi alla “scuola della pace” significa, allora:

• lasciarsi educare dalla Parola di Dio a gesti concreti di misericordia e perdono;

• imparare a vedere il mondo con lo sguardo delle vittime, non solo con quello dei vincitori;

• riconoscere che la conversione parte dal cuore ma domanda scelte sociali, economiche, politiche coerenti.

8. Diventare “case di pace”: i luoghi concreti

Zuppi individua alcuni ambiti privilegiati in cui questa educazione può prendere corpo:

• La preghiera

Non fuga dal mondo, ma grido ostinato che invoca la pace come dono di Dio e sostiene la speranza quando la storia sembra smentirla.

• La famiglia

Primo laboratorio di relazione, dove si impara ad ascoltare, a chiedere scusa, a gestire i conflitti senza distruggere l’altro. Una famiglia ferita può diventare comunque scuola di pace se sceglie la via del rispetto.

• La scuola

Luogo dove si imparano le parole, e quindi anche il linguaggio della non violenza. L’educazione civica, la memoria storica, l’incontro con culture diverse possono aiutare a spegnere alla radice l’odio e il razzismo.

• La società civile e la politica

Qui, dice Zuppi, la pace deve tradursi in visioni di sviluppo e di solidarietà: politiche che non alimentino la corsa agli armamenti, che contrastino la proliferazione nucleare, che investano in salute, educazione, lavoro dignitoso. Sono “i nomi nuovi” della pace.

Sono grandi cantieri aperti, nei quali occorre formare coscienze illuminate da un ideale alto, capace di resistere al cinismo e alla rassegnazione.

9. Il modello di Francesco d’Assisi

Per sostenere questo cammino, Zuppi affida la Chiesa italiana alla scuola di Francesco d’Assisi. Dopo otto secoli, la sua figura rimane sorprendentemente attuale: un uomo disarmato e disarmante, capace di parlare al sultano nel pieno delle crociate, di abbracciare il lebbroso, di riconciliare nemici.

Il cardinale richiama un passo della Vita Prima di Tommaso da Celano: Francesco, prima di annunciare il Vangelo, augurava sempre la pace dicendo «Il Signore vi dia la pace» e, con quella benedizione, molte persone che rifiutavano sia la pace sia la propria salvezza finivano per abbracciare la pace con tutto il cuore.

È l’immagine di un annuncio che non impone, ma convince; non schiaccia, ma guarisce. Diventare “figli della pace” significa lasciare che questa benedizione attraversi le nostre parole, i nostri gesti, le nostre scelte pubbliche.

10. Formare coscienze, non solo firmare documenti

Alla fine, l’articolo di Zuppi è un invito a non accontentarsi di dichiarazioni solenni. La pace si costruisce:

• formando coscienze capaci di resistere alla logica dell’odio;

• educando i giovani a non lasciarsi sedurre dalla violenza;

• costruendo reti di cooperazione tra comunità cristiane, altre religioni, società civile e istituzioni democratiche;

• scegliendo, anche come cittadini, politiche e stili di vita che non alimentino le “inutili stragi” del nostro tempo.

 

La Nota Educare a una pace disarmata e disarmante diventa così non solo un documento da studiare, ma una mappa di conversione: per le parrocchie, le famiglie, le scuole, le associazioni, i movimenti, i singoli credenti.

Zuppi ci ricorda che la pace non è un’utopia ingenua: è una via umile, fatta di gesti quotidiani che intrecciano pazienza e coraggio, ascolto e azione. Sta a noi decidere se restare spettatori preoccupati o diventare davvero, come lui dice, artigiani di concordia contro tutte le inutili stragi.

 www.avvenire.it 

Immagine



 

IL COMPLESSO DELL'OSTRICA

 


-  di G. Ravasi



Siamo troppo attaccati allo scoglio, alle nostre sicurezze, alle lusinghe gratificanti del passato. Ci piace la tana. Ci attira l'intimità del nido. Ci terrorizza l'idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci in mare aperto. Se non la palude, ci piace lo stagno.

Molti di coloro che oggi mi leggono sono davanti a un mare aperto; la risacca batte sugli scogli o si infrange in mille ripetizioni sul litorale. Forse è questo l'orizzonte a cui pensava l'indimenticato monsignor Tonino Bello, anche perché la sua sede episcopale, Molfetta, si affaccia sul mare. Sono stato varie volte in quella città e ho sostato in quel porto ove sono stati celebrati i suoi funerali, davanti allo stupendo Duomo vecchio. Evoco ora " attraverso queste immagini marine " una sua pagina che denunciava «il complesso dell'ostrica», un rischio non solo psicologico ma anche ecclesiale.

Talora, infatti, entrando in certi gruppi o comunità, sembra quasi di avvertire subito un'aria viziata, una mancanza di respiro. 
Certo, l'ambiente asfittico ti rende meno agitato e teso, ti avvolge come un grembo protetto e ti fa cadere a terra in un apparente riposo. Ma è solo il risultato di un'assenza d'ossigeno spirituale, che rende inerti. 
È l'essere come immersi in uno stagno ove non si può nuotare e navigare. La vera spiritualità è, invece, ricerca e cammino, è fremito e attesa, è freschezza di vita e passione del cuore. 
Purtroppo, però, continuava don Tonino, noi nell'itinerario dell'anima, «appena trovata una piazzola libera, ci stabilizziamo nel ristagno delle nostre abitudini, dei nostri comodi». E si spegne in noi l'ansia della pienezza e dell'infinito.


sabato 6 dicembre 2025

PREPARATE LE VIE DEL SIGNORE

 

Voce di uno che grida nel deserto: 

Preparate la via del Signore,

raddrizzate i suoi sentieri!


7 dicembre 2025

II Domenica d’Avvento A

Mt 3,1-12

 

Commento del Patriarca di Gerusalemme,  Card. Pizzaballa

 Sia il tempo di Avvento che quello della Quaresima portano con sé un urgente invito alla conversione.

I due inviti, però, hanno una sfumatura diversa: il tono della Quaresima è più penitenziale, rimanda alla lotta interiore, ed indica pratiche come il digiuno, l’elemosina e la preghiera. È la conversione del cuore, che ha bisogno di lasciarsi trasformare dall’amore pasquale, un amore che vince il peccato e la morte.

La conversione che ci viene proposta nel tempo dell’Avvento riguarda innanzitutto lo sguardo: vuole aiutarci a fare attenzione, a saper riconoscere il Signore che viene. È una conversione “escatologica”, un gioioso apprendimento a vivere fin d’ora come cittadini del Regno che viene.

La conversione è il tema centrale anche del brano di Vangelo di questa seconda domenica di Avvento (Mt 3,1-12). E proprio questo brano ci aiuta ad approfondire il rapporto tra Avvento e conversione.

Protagonista è Giovanni, il Battista, che è nel deserto e da lì invita tutti alla conversione (Mt 3,1-5).

La sua figura, austera, rimanda a quella del profeta Elia, e quindi suscita in chi lo vede e lo ascolta l’attesa della venuta imminente del Messia. Il profeta Malachia, infatti, aveva legato il ritorno di Elia alla venuta del Messia, e questa credenza era comune in quel tempo. (“Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore: egli convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri” - Mal 3,23-24). La predicazione del Battista creava proprio questa atmosfera di attesa. L’eco della sua parola è forte: in molti scendono al Giordano e si fanno battezzare, confessando i propri peccati (Mt 3,5-6).

Le sue parole scuotono tutti, ma soprattutto quei molti “farisei e sadducei” (Mt 3,7) che si lasciano richiamare da Giovanni e che si sentono apostrofare “razza di vipere”: Giovanni denuncia la possibile ipocrisia di coloro che si accontentano di una religiosità esteriore, e non si aprono invece ad una reale conversione del cuore.

L’invito, per tutti, è quello di entrare in un atteggiamento penitenziale, per essere pronti ad accogliere Colui che sta venendo e che Giovanni descrive come uno più forte di Lui, che battezzerà in Spirito Santo e fuoco, che giudicherà tutti con giustizia (Mt 3,11-12).

Due sono dunque i poli di questo processo di rinnovamento che Giovanni cerca di innestare: da una parte la conversione e dall’altra l’attesa. Sono due poli fondamentali per la vita di fede, e vanno tenuti insieme.

Perché senza conversione, l’attesa rischia di essere sterile: un sogno vago, una speranza che non incide nella vita concreta. Ma senza attesa, la conversione rischia di diventare moralismo, un esercizio ascetico chiuso in se stesso, che non apre all’incontro con l’Altro.

Giovanni Battista, invece, tiene insieme questi due atteggiamenti, e lo dice da subito: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2). La vicinanza del Regno è la ragione, il motore della conversione, che diventa così un volgere lo sguardo verso Colui che viene, verso Colui che si attende.

Per conversione non si intende lo sforzo volontaristico di chi cerca di migliorarsi, di non commettere più errori. La conversione, sempre rimanendo nelle immagini usate da Giovanni, assomiglia piuttosto al lavoro del contadino, che si prende cura delle sue piante.

Giovanni usa l’immagine agricola per due volte in questo brano: prima, quando chiede a farisei e sadducei di fare frutti degni della conversione (“Fate dunque un frutto degno della conversione” - Mt 3,8); poi, subito dopo, al v. 10, quando afferma che la scure è posta alla radice degli alberi, e che ogni albero che non dà buon frutto sarà tagliato (“La scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” -Mt 3,10).

La conversione di cui parla il Battista, dunque, non consiste nel fare uno sforzo temporaneo, che solitamente si esaurisce in breve tempo, o di darsi uno stile moralistico. Si tratta invece di fondare la vita, di mettere le proprie radici in ciò che, poco alla volta, costruisce una vita piena e grata: la relazione con Dio. Nell’ascolto perseverante della Parola di Dio, e lasciandosi trasformare il cuore dall’attesa di Colui che viene per amore della nostra vita, perché la nostra vita porti frutti.

 + Pierbattista

 Patriarcato latino di Gerusalemme

Immagine


 

UN NEO-CRISTIANESIMO ?

 

In un articolo su «La Stampa» del 9 novembre scorso Vito Mancuso ha riassunto la tesi fondamentale del suo ultimo, ponderoso volume, intitolato Gesù e Cristo, edito da Gazanti. Dove la “e” non accentata indica il fatto che, per lui, «Gesù e Cristo sono due personaggi diversi».


-di Giuseppe Savagnone 

Gesù e Cristo: due figure parallele?

Su questa diversità l’autore insiste: «Gesù è un nome ebreo; Cristo è un nome greco. Ma non è solo una questione di nomi»: «Gesù nacque a Nazareth; Cristo a Betlemme. Gesù aveva un padre terreno; Cristo era il Figlio unigenito del Padre celeste. Gesù aveva quattro fratelli e un numero imprecisato di sorelle; Cristo era figlio unico. Gesù ebbe come maestro Giovanni il Battista; Cristo era cugino del Battista e non aveva bisogno di nessun maestro. Gesù non si capisce senza il Battista; Cristo non si capisce senza Pietro e senza Paolo». 

I personaggi in questione, secondo Mancuso, avrebbero avuto una fortuna molto diversa: «Di Gesù ben pochi parlano e coltivano la spiritualità; di Cristo ogni giorno sulla terra si proclama la natura divina». Il primo diede vita a una fede che «tramontò ben presto rimanendo pressoché sconosciuta», mentre il secondo è stato al centro di una religione, «fondata successivamente dai suoi discepoli, tra i quali emergono Pietro di Betsàida e Paolo di Tarso», che «ebbe un successo mondiale divenendo la più diffusa del pianeta».

Per la ricerca storica, Gesù era un profeta escatologico-apocalittico e un guaritore, che predicava un messaggio di giustizia destinato a realizzarsi con l’imminente avvento del regno di Dio e che fu messo a morte dalle autorità politiche e religiose, timorose di possibili conseguenze sediziose. Per la fede, Cristo è il  Crocifisso-Risorto, Figlio di Dio, «generato, non creato, della stessa sostanza del Padre».

«Gesù è storia, Cristo è idea». L’intento di Mancuso è di recuperare il primo, ma non per negare il secondo, bensì per ricollocarlo in una prospettiva – inevitabilmente diversa da quella della Chiesa ufficiale – «che torni a essere accettabile per la coscienza contemporanea», sempre più lontana dal cristianesimo tradizionale.

Tuttavia, come Mancuso ha precisato in una intervista, lo stesso giorno, al «Corriere della Sera», non si tratta di opporre Gesù e Cristo, perché di entrambi abbiamo bisogno, ma di «distinguere per poi unire a un livello più alto» .

Ma l’idea di cui il Gesù della storia può essere considerato portatore non è, come nel cristianesimo che conosciamo, l’incarnazione di un Dio che entra nella storia, in un tempo e in un luogo determinati, per redimere il mondo. In questo neo-cristianesimo, secondo Mancuso, «non è un evento storico a costituire uno spartiacque prima del quale le cose erano in un modo e dopo del quale le cose sono mutate in un modo tutto diverso, a cui è necessario credere e partecipare per potersi salvare».

Per «la salvezza senza redenzione» che la nuova religione proporrebbe «il mezzo salvifico è l’etica, è la vita buona, è la vita giusta. Questa etica professata e vissuta non fa altro che esprimere una logica eterna (…). Cristo non è colui che salva perché ha offerto il suo corpo sulla croce con un sacrificio, con il suo sangue, con l’espiazione del peccato originale, ma è colui che salva nella misura in cui aderiamo a questa logica eterna che da sempre accompagna il mondo e che il lui si è manifestata».

Di questa logica eterna, secondo Mancuso, è espressione non solo il vangelo, ma tutta la grande tradizione spirituale dell’umanità. Come,  per esempio, il capitolo 125 del Libro dei morti dell’Antico Egitto, scritto 1.500 anni prima del vangelo di Matteo in cui si legge un identico messaggio: «Ho onorato Dio con ciò che egli ama. Ho dato da mangiare all’affamato, da bere all’assetato, una veste all’ignudo e una barca a chi non l’aveva».

Questo non significa che la religione debba essere ridotta all’etica. «La forza del cristianesimo deve essere la sua capacità di tornare a ripresentarsi come teoria della salvezza e come teoria delle cose ultime, come contatto, comunione con l’eterno».

L’appello del Gesù rivoluzionario effettivamente esistito nella storia ha bisogno del fondamento trascendente e universale, radicato nel  mistero, offerto dalla fede nel Cristo dalla Chiesa primitiva.

L’incarnazione

Alla radice di questa posizione c’è un’idea dell’incarnazione e della stessa trascendenza di Dio diversa da quella. Lo ha chiarito lo stesso Mancuso presentando il suo libro al Palazzo Ducale di Genova. Alla domanda se Gesù fosse  solo un uomo o anche Dio, ha risposto: «Era sia uomo che Dio, ma bisogna capire cosa si intende con questa espressione. Tra umanità e divinità non c’è un fossato invalicabile. Come dicono le grandi religioni, noi dobbiamo arrivare a sentire questa identità che sta tra il mistero divino e il mistero umano, quindi sì, Gesù era il figlio di Dio ma non era l’unico, sono convinto che anche qui in questa sala ce ne sono, perché il divino non è “altro” rispetto all’umano, ma piuttosto la perfezione dell’umano. Gesù ha portato a compimento la missione di essere a immagine e somiglianza di Dio».

Il post-teismo di Paolo Gamberini

Non possono non venire in mente le tesi care al filone del post-teismo, per esempio a quelle di Paolo Gamberini, il quale, nel suo lodevole sforzo di «ripensare il cristianesimo oggi», ha rimesso in discussione il modo tradizionale di concepire il rapporto tra Dio e il mondo. In un articolo su «Settimana News» dello scorso 30 agosto e nella risposta alle obiezioni, il noto teologo prende atto che «il concilio di Nicea ha voluto “decidere” della distinzione tra creatio ex nihilo e generatio de substantia Dei patris (homoousia), definendo Cristo, a differenza delle creature, «generato, non creato», ma, in questo modo, «ha introdotto un’epocale scissione (decisione) tra Dio e mondo. L’uomo Gesù è stato isolato dalle altre creature, per riconoscerne così la sua divinità. Il risultato è che il Dio è stato pensato “senza” la creatura».

Per rimediare a questa unilaterale separazione, Gamberini propone di superare la contrapposizione tra “generazione” e  “creazione”. Per lui, anche «iI mondo è stato creato dall’essenza divina (ex essentia dei). Il Figlio dipende dal Padre, così come il mondo da Dio». In questo senso, l’universo creato fa parte necessariamente di Dio, esattamente come il Figlio in cui sussiste. «Riconoscere che il mondo è “da Dio” e “sussiste” nel Logos significa affermare che l’essere del mondo non è altro da Dio, ma è lo stesso essere in modo differente: assoluto “il Dio” e relativo “il mondo”». «Dio e mondo sono i due modi con cui la sostanza divina (θεός) si definisce. Il modo “infinito” della sostanza è il Dio (ὁ θεός). Il modo “finito” della sostanza è la creatura». 

A questo punto, evidentemente, appare superata l’idea – su cui tutto il vangelo e la tradizione ebraico-cristiana sono fondati – di un Dio trascendente che crea il mondo con un atto libero e potrebbe esistere anche senza di esso. Da qui la domanda retorica «Il teismo è l’unica forma di cristianesimo possibile? Il teismo è l’unica e sola forma della fede cristiana?».

Ma da questo superamento del teismo deriva un altro modo di intendere anche l’incarnazione: «Il Logos incarnato non va inteso nella sua esclusività dell’uomo Gesù ma comprende e si estende a tutto il creato. Se da un lato si afferma che “questo” Gesù è Logos, si deve affermare anche che tutto ciò con cui questo Gesù è collegato (carne della sua carne!) è assunto dal Verbo. La grammatica ipostatica (Gesù è il Logos) indica un’identificazione che non si ferma a questo Gesù ma al creato intero. Questa è la dimensione cosmica dell’incarnazione».

È evidente la convergenza con la posizione di Mancuso. Anche per Gamberini Gesù non è il Logos incarnato, ma solo una sua manifestazione tra le tante che costellano il mondo e l’umanità.   

Due considerazioni

Non è questa, evidentemente, la sede per una puntuale analisi critica di queste posizioni, che peraltro richiederebbe un confronto diretto con i testi, di cui qui abbiamo riportato solo le sintesi essenziali fatte dai loro autori. Possiamo, però,  basandoci su queste ultime, fare alcune considerazioni.

La prima è che all’origine dell’esigenza di un neo-cristianesimo stanno la sincera preoccupazione per la progressiva scristianizzazione dell’Occidente e la giusta esigenza di dare della tradizione cristiana una versione più vicina alla sensibilità degli uomini e delle donne di oggi. Meritano dunque attenzione e rispetto tutti i tentativi fatti in questa direzione.

E tuttavia c’è da chiedersi – e questa è la seconda considerazione – se quello che resta, dopo l’eliminazione della divinità di Gesù e, più a monte, dello stesso Dio Padre a cui Gesù si rivolge come a una Persona trascendente, si possa ancora considerare “cristianesimo”. In questa rilettura verrebbe meno, infatti, l’annuncio centrale che costituisce l’originalità di questa religione rispetto a tutte le altre, e cioè l’incarnazione, che da un lato suppone un Dio radicalmente “altro” rispetto al mondo, dall’altro afferma che questo Dio ha scelto, per un atto d’amore, di entrare nella storia, facendosi Egli stesso uomo,  per scendere fin negli abissi più profondi del male  e redimerlo con il suo sacrificio.

Privata di questo, la “nuova” religione annunciata da Mancuso e da Gamberini assomiglia molto, in realtà, a tante altre  che considerano  Gesù, al pari di Buddha, di Confucio e di tutti i grandi spiriti della storia, come maestri di saggezza, in cui si esprime una divinità che non è “Qualcuno”, ma “Qualcosa”, e che pervade tutto.

Ciò è particolarmente evidente nella interpretazione di Mancuso. A dire il vero la contrapposizione tra il Gesù della storia e il Cristo della fede risale a una celebre conferenza di Martin Käler, nel 1892. E da allora essa ha costituito il filo conduttore di tute le interpretazioni dell’evento cristiano, segnata da un’alternanza tra chi ha privilegiato Gesù, il personaggio storico,  rispetto al Cristo , l’idea, e chi ha fatto il contrario . Ciò che costituisce l’originalità della  posizione di Mancuso è che egli si propone  di tenere insieme le due figure.

È ciò che egli chiama «distinguere per unire a un livello più alto». Solo che la distinzione si dà tra aspetti di una stessa realtà – sono distinti il colore di un oggetto e la sua larghezza – ed è stata già ampiamente utilizzata dalla teologia per parlare di Gesù al tempo stesso come uomo e come Figlio di Dio. Quello che Mancuso propone, invece, è di distribuire queste caratteristiche su due personaggi diversi, radicalmente separati l’uno dall’altro, e spesso contrapposti l’uno all’altro. La sua, perciò, non è una distinzione, ma una separazione. E a questo punto unire le due figure diventa una somma arbitraria di realtà differenti.

Che rapporto ci può essere tra il profeta-guaritore, estraneo ad ogni figliolanza divina, effettivamente esistito, e il Risorto frutto solo della fede dalla comunità cristiana?  A renderlo impossibile è la stessa separazione a priori, fatta dall’autore, tra una dimensione storica che esclude la compenetrazione col trascendente e una trascendenza che non può essere cercata nella storia.

Se poi, in nome della «identità che sta tra il mistero divino e il mistero umano», la divinità di Cristo si riduce a un’apertura all’universalità di una legge morale, di cui ogni essere umano può essere rappresentante quanto Gesù, la Buona Notizia che Dio, Dio in persona, si è fatto uomo, assumendo la nostra vita in ogni suo aspetto, viene definitivamente vanificata.

È veramente questo che può restituire al cristianesimo il suo fascino agli occhi dei nostri contemporanei? Eliminare la scandalo dell’incarnazione della crocifissione – ma anche della resurrezione – di Dio, banalizzando il vangelo come un messaggio di giustizia e un’apertura generica al mistero forse lo renderebbe più gradito perché più inoffensivo, ma non certo più interessante. Soprattutto, al di là del gradimento o meno di cui sarebbe oggetto, lo svuoterebbe della sua carica rivoluzionaria, quella che duemila anni fa ha provocato la reazione dei contemporanei di Gesù, decisi a lapidarlo, gli dissero, «perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (Gv 10,33). 

 www.tuttavia.eu

Immagine