domenica 12 ottobre 2025

DIFENDERCI DALL'ORRORE


 Fino a che punto si arriverà, mentre sembra dormire un sonno di pietra e non riesce a tenere gli occhi aperti di fronte a una ferita grande quanto un intero popolo?

 


-di Rosella De Leonibus 

 

Francesca AlbaneseQuando il mondo dorme

Durante la persecuzione degli ebrei da parte del nazismo, le immagini più crude dell’orrore sono arrivate agli occhi del mondo solo al momento della liberazione dei campi di concentramento. Oggi, nel contesto delle guerre attuali, come nel genocidio di Gaza, la narrazione visiva è profondamente cambiata: sono le stesse vittime a diffondere video e notizie in tempo reale, portando la realtà della sofferenza direttamente nelle case di miliardi di persone.

Eppure, malgrado la mole infinita di immagini e testimonianze, persiste uno zoccolo duro di indifferenza. Apparentemente sembra inspiegabile questa reazione, però trova spiegazioni profonde nel campo della psicologia. La mente, esposta in modo continuo e intensivo a immagini traumatiche, finisce per mettersi in una sorta di “modalità protettiva”, riducendo la sensibilità emotiva attraverso un processo noto come compassion fatigue. È un meccanismo di autodifesa, che protegge il nostro equilibrio psicologico, ma anestetizza l’empatia e spegne l’urgenza morale insieme alla spinta a reagire.

La compassion fatigue (Joinson, 1992; Figley, 1995), o fatica da compassione, è una condizione psicologica tipica di chi, come operatori sanitari, psicoterapeuti, assistenti sociali o altri professionisti dell’aiuto, si espone in modo continuativo e prolungato alla sofferenza altrui. Questo stato si manifesta come un esaurimento fisico, emotivo e mentale causato dalla tensione empatica legata all’assistenza a persone in grave difficoltà o in condizioni traumatiche, si riduce la capacità di provare compassione e arrivano sintomi emotivi come ansia, depressione, rabbia, senso di colpa e apatia. Ma tutto ciò non accade solo a chi direttamente opera in ambiti di tragedia: anche chi assiste ripetutamente o è esposto a immagini e racconti traumatici ne è colpito. A livello cognitivo ci sarà confusione, perdita di concentrazione e senso di vuoto, mentre a livello fisico ci sarà affaticamento, dolori, tachicardia o problemi gastrointestinali. A livello sociale vedremo tendenza a ritirarsi, intolleranza o indifferenza.

Così, mentre il mondo assiste in tempo reale a scene di devastazione, diventa muto davanti a una sofferenza troppo grande per essere elaborata e si distacca emotivamente davanti a ciò che dovrebbe invece scuotere le coscienze. I bambini di Gaza, uccisi brutalmente in quantità indescrivibili, amputati, affamati, assetati, orfani di tutto, sono il confine ultimo della nostra umanità. La sfida è urgente: come realizzare modalità nuove e consapevoli per riconnetterci con l’umanità reale che soffre dietro ogni immagine, per superare l’indifferenza e trasformare le testimonianze di dolore in impegno e solidarietà reali?

IL SILENZIO DELLE NOSTRE MENTI DAVANTI ALLA VIOLENZA

Ogni giorno i nostri occhi si posano su immagini che raccontano l’orrore: guerre, aggressioni, crudeltà senza fine. All’inizio lo sguardo sostiene un peso insopportabile, un nodo alla gola che ci spinge a reagire, a indignarci. Ma col tempo quella stessa esposizione ripetuta diventa un rumore di fondo, un’eco lontana che la mente impara a ignorare. È così che nasce la desensibilizzazione: un lento spegnersi delle emozioni, un’assuefazione che riduce il dolore, ma anche la nostra umanità. Il cervello sottrae emozione per sopravvivere.

In condizioni di stress entra in gioco l’amigdala, la parte più antica e istintiva del nostro cervello, che regola la paura e la risposta allo stress. Quando siamo di fronte a immagini violente, l’amigdala si attiva, generando una scarica emotiva intensa. Ma se questa attivazione diventa continua, il cervello sviluppa una sorta di difesa: la risposta emotiva si attenua, come per proteggersi da un sovraccarico di dolore inutile e paralizzante (Wikipedia, 2024). L’iperstimolazione può compromettere le aree prefrontali, responsabili del controllo razionale e della regolazione dell’empatia, mentre si perde la capacità di sentire il dolore dell’altro e la compassione svanisce (Chinello, 2025).

Le conseguenze umane e sociali di una mente assuefatta sono devastanti. Se da un lato questo meccanismo ci protegge, dall’altro ci allontana dal sentire autentico e dalla solidarietà. La violenza, nell’esperienza diretta o mediatica, perde la sua carica di urgenza emotiva, e il nostro sguardo diventa più freddo e distaccato. L’abitudine al dolore altrui può trasformarsi in indifferenza, abbassando quella soglia che ci fa agire per la giustizia e la cura.

ZIMBARDO: LA VIOLENZA DELLA SITUAZIONE

Uno degli studi più emblematici per comprendere come la mente possa adattarsi a scenari di violenza e sopraffazione è l’esperimento della prigione di Stanford, condotto da Philip Zimbardo nel 1971. Qui emerge con chiarezza quanto il contesto sociale e i ruoli imposti possano guidare comportamenti crudeli, persino in individui ordinari e psicologicamente sani.

I partecipanti, divisi in “guardie” e “prigionieri”, subirono una rapida trasformazione: le guardie, investite di potere, iniziarono a esercitare forme di violenza psicologica e fisica, mentre i prigionieri caddero in uno stato di passività e sottomissione. Entra in campo un processo di deindividuazione: l’identità personale si dissolve all’interno del gruppo, il senso di responsabilità individuale diminuisce e si abbassano le difese morali (Zimbardo, 2007).

In questo contesto, la deumanizzazione delle vittime e la loro colpevolizzazione giustificano l’abuso, attenuando il senso di colpa di chi esercita il potere. Dall’altra parte, il senso di impotenza vissuto dalle vittime genera difese psicologiche come la dissociazione e l’assuefazione, la desensibilizzazione necessaria a sopportare il dolore (Campanale, 2023).

LA MENTE SI PROTEGGE DAL DOLORE

Il senso di impotenza nasce quando ci troviamo di fronte a situazioni che ci appaiono incontrollabili, dove ogni tentativo di cambiare o influenzare gli eventi sembra inutile e vano. Se abbiamo accumulato esperienze di insuccesso o di sopraffazione, avremo interiorizzato un’idea profonda di incapacità personale, l’“impotenza appresa” (Seligman, 1975). Arriva un pesante senso di rassegnazione, una sorta di rinuncia passiva che protegge la mente dall’angoscia di sentirsi totalmente esposti e vulnerabili. Sul piano comportamentale, ci sarà evitamento, inibizione dell’azione e abbassamento della motivazione.

Per sopravvivere al dolore, la psiche mette in atto una serie di meccanismi di difesa che, in modo automatico e inconscio, contengono l’angoscia e preservano l’equilibrio interno: la negazione, cioè il rifiuto di riconoscere la realtà dolorosa, consente di distanziarsi temporaneamente da ciò che sembra insopportabile; la rimozione, con l’occultamento di ricordi o emozioni traumatiche nella parte inconscia della mente; la proiezione, per cui si attribuiscono ad altri sentimenti o impulsi propri difficili da accettare (Agostini, 2019).

In origine sono forme di adattamento sane, ci aiutano a sopravvivere in condizioni estreme, ma diventano disfunzionali quando si radicano profondamente, perché impediscono che il trauma venga elaborato e quindi bloccano la riconnessione emotiva con sé e con gli altri.

Il dolore nascosto deve trovare espressione per poter farci riscoprire la nostra umanità ferita, e trasformarsi in strumento di resilienza e crescita. È essenziale una consapevolezza collettiva rispetto a questi meccanismi, per non ridurre la violenza a un fatto ordinario e lontano.

PER NON VOLTARCI DALL’ALTRA PARTE

È urgente promuovere a livello sociale e di comunità una maggiore sensibilità verso le tragedie del mondo e superare la desensibilizzazione, è necessario mettere in campo strategie integrate che coinvolgano educazione, cultura, media. Educazione fin dalla prima infanzia: introdurre programmi scolastici che insegnino empatia, rispetto, consapevolezza del dolore altrui e cultura della non violenza, in modo da preparare le nuove generazioni a gestire con responsabilità il confronto con la violenza e l’ingiustizia. Coinvolgimento responsabile dei media e sensibilizzazione pubblica: i media devono adottare un approccio etico nella rappresentazione delle violenze, evitando spettacolarizzazioni e sensazionalismi, e integrare i contenuti con dati scientifici e analisi sociologiche, perché la narrazione sia anche strumento di conoscenza e prevenzione. I media stessi possono modellare comportamenti positivi con campagne di storytelling, mostrare esempi di solidarietà, interventi efficaci e trasformazioni positive per stimolare empatia e azioni concrete, fare focus sulle persone e non solo sui fatti, raccontare storie umane, coinvolgenti e autentiche di vittime, sopravvissuti e attivisti, mettendo in luce le emozioni, i vissuti e i cambiamenti personali, anziché limitarsi a dettagli cruenti o fredde statistiche.

Insieme al racconto della tragedia, è necessaria una chiamata all’azione chiara e concreta: ogni storia o testo o video dovrebbe invitare a iniziative che coinvolgano il pubblico nel creare contenuti positivi e condividere messaggi di solidarietà, supportare la costruzione di una comunità attiva e consapevole, e invitare a compiere un gesto concreto – firmare una petizione, partecipare a un evento, sostenere un’associazione – trasformando l’empatia in impegno attivo. 

Non più volti spenti e braccia conserte, ma cuori sensibili e menti lucide, esseri umani pronti a impegnarsi per fermare l’orrore.

 

Riferimenti bibliografici

Agostini M. (2019), Meccanismi di difesa: cosa sono e come li utilizziamo, https://www.guidapsicologi.it/articoli/meccanismi-di-difesa-cosa-sono-e-come-li-utilizziamo (consultato il 15 settembre 2025)

Campanale G. (2023), L’Effetto Lucifero e la labilità della dicotomia Bene-Male, https://www.stateofmind.it/2023/01/effetto-lucifero-esperimento/ (consultato il 15 settembre 2025)

Chinello V. (2025), I rischi psicologici della continua esposizione delle scene di violenza sui socialhttps://vivianachinellopsicologa.com/2025/09/06/i-rischi-psicologici-della-continua-esposizione-delle-scene-di-violenza-sui-social/ (consultato il 15 settembre 2025)

Figley C.R. (Ed.) (1995), Compassion fatigue: Coping with secondary traumatic stress disorder in those who treat the traumatized, Brunner/Mazel.

Joinson C. (1992), Coping with compassion fatigue, Nursing, 22, 4, pp. 116-120.

Seligman M.E.P. (1975), Helplessness: On Depression, Development, and Death, W. H. Freeman, San Francisco.

Wikipedia (2024), Desensibilizzazione (psicologia), https://it.wikipedia.org/wiki/Desensibilizzazione_(psicologia) (consultato il 15 settembre 2025)

Zimbardo P. (2007), L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?Raffaello Cortina Editore, Milano.

 Rocca

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sabato 11 ottobre 2025

LA TUA FEDE TI HA SALVATO


 12 ottobre 2025

XXVIII domenica nell’anno


Luca 17,11-19 (2Re 5,14-17)



11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va'; la tua fede ti ha salvato!».


Commento di di Luciano Manicardi*

 La prima lettura (2Re 5,14-17) presenta la guarigione dalla lebbra dello straniero Naaman a opera del profeta Eliseo e il vangelo (Lc 17,11-19) narra la guarigione, a opera di Gesù, di dieci lebbrosi di cui uno solo, uno straniero (un samaritano), torna a ringraziarlo. Il tema dell’azione di grazie, della capacità eucaristica lega le due letture. Naaman, che voleva sdebitarsi con Eliseo per la guarigione ottenuta e che incontra il rifiuto del profeta, ottiene un po’ di terra d’Israele per poter venerare il Signore, Dio d’Israele. La gratitudine appare così nella sua dimensione teologale. Il profeta scompare davanti al Signore, vero autore del beneficio, e Naaman rivolge a Dio il suo ringraziamento. Anche il vangelo presenta la dimensione eucaristica della fede: il ringraziamento del samaritano a Gesù (cf. Lc 17,16) esprime la sua fede (cf. Lc 17,19).

Il testo di 2Re mostra la difficoltà, soprattutto per un uomo importante, ricco e potente come Naaman (2Re 5,1), di riconoscersi debitore: coprire di denaro e preziosi chi lo ha beneficato significherebbe “sdebitarsi”, far divenire l’altro grato nei suoi confronti, e così non perdere la propria grandezza e la propria immagine di uomo che “non deve nulla a nessuno”. La gratitudine è difficile e richiede la messa a morte del proprio narcisismo per entrare nel novero di coloro che si sanno graziati.

Il testo evangelico si apre con un’annotazione geografica che dice che Gesù, mentre andava verso Gerusalemme, “attraversava” la Samaria e la Galilea. Penso che quell’“attraversare” vada inteso nel senso di “costeggiare”, di “passare lungo la frontiera”, dando collocazione anche fisica all’atteggiamento di Gesù quale uomo della soglia, che abita i confini. Di fatto, subito dopo, egli incontrerà un gruppo di lebbrosi che si rivelerà composto di giudei e samaritani, popoli ormai separati da inimicizie religiose e ostilità reciproche, ed egli destinerà a tutti indistintamente la sua azione terapeutica.

Apprestandosi a entrare in un villaggio, ecco che un gruppo di dieci lebbrosi gli si fanno incontro fermandosi a distanza. La legislazione che regolava il comportamento di quanti erano afflitti da lebbra imponeva loro di stare lontani dai centri abitati (“il lebbroso … abiterà fuori dell’accampamento”: Lv 13,46) e di andare in giro gridando la propria condizione di impurità per avvertire della propria presenza contagiosa e impura e consentire di evitarli a chi li avesse incrociati sul cammino (“il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto, velato fino al labbro superiore, andrà gridando: ‘Impuro! Impuro!’”: Lv 13,45). Tuttavia, questo gruppo di uomini ci viene presentato non in atto di gridare la propria impurità, ma di supplicare aiuto. Le parole che rivolgono a Gesù sono una preghiera colma di fiducia e di speranza: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi” (Lc 17,13). La loro supplica echeggia espressioni che i Salmi di frequente rivolgono a Dio (Sal 6,2; 31,10; 41,5; 51,3-4) ed esprime la loro fede nel potere di Gesù di guarirli. Colpisce che Gesù, ascoltata la loro richiesta, non compia alcun gesto (come invece nei confronti del lebbroso in Lc 5,12-16, quando “Gesù tese la mano, lo toccò dicendo: ‘Lo voglio, sii purificato’”, e il narratore annota che “immediatamente la lebbra scomparve da lui”: Lc 5,13). Gesù li invia immediatamente a farsi visitare dai sacerdoti che dovevano verificare l’avvenuta guarigione e dunque riammettere alla partecipazione al culto avendo constatato la sparizione dell’impurità. Ma i dieci uomini obbediscono a Gesù senza che la guarigione sia avvenuta. Tutti loro mostrano fede in Gesù obbedendo alla sua parola pur senza aver visto nessun gesto di cura verso di loro e tanto meno di guarigione. Vanno a “mostrarsi” ai sacerdoti senza essere guariti! Potremmo chiederci il perché di questo atteggiamento di Gesù. Come intenderlo? Quale significato avrebbero potuto dare alle sue parole i dieci uomini? Come una maniera di liberarsi di loro? Di non prenderli sul serio? Un po’ come avviene per quella donna cananea che gli si era fatta incontro supplicandolo con analoghe parole (“Abbi pietà di me”, eléesón me: Mt 15,22; cf. “Abbi pietà di noi”, eléeson emâs: Lc 17,13.) a cui Gesù prima non aveva nemmeno risposto e poi aveva rivolto parole aspre e dure. In realtà, essi non interpretano così l’atteggiamento di Gesù, non mostrano delusione, non mormorano con rimostranze, non criticano quella che avrebbero potuto sentire come indifferenza e perfino presa in giro da parte di Gesù. Obbediscono a Gesù mostrando fede in lui. Ed è nel cammino, “mentre andavano” (Lc 17,14), che avviene la guarigione. Il loro mettersi in cammino senza essere guariti è una manifestazione straordinaria di fede nella parola di Gesù e nella sua persona. Potremmo dire che credono senza avere visto. Sembra che abbiano fatto proprio l’atteggiamento del Salmista che crede nell’esaudimento nel mentre stesso che implora aiuto: “Quando ho gridato al Signore con la mia bocca, la sua lode era già sulla mia lingua. Se il dubbio fosse stato nel mio cuore il Signore non avrebbe ascoltato” (Sal 66,17-18). Tutti e dieci hanno fede, eppure una differenza radicale emerge tra di loro quando uno solo torna da Gesù per ringraziarlo: “Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce e si prostrò davanti a Gesù per ringraziarlo” (Lc 17,17). Tutti sono guariti, ma uno solo lo vede, cioè lo riconosce e vi risponde. Quest’uomo sa vedere ciò che è avvenuto alla propria vita, riconosce che è grazie a un altro che è avvenuto ciò che è avvenuto e risponde a questo evento: cambia strada, non va dai sacerdoti, ma da Gesù e lo ringrazia. Nulla di rituale o di religioso in tutto questo. La differenza tra i nove e questo uno è nel suo saper vedere e rispondere. Si tratta di una differenza che si situa sul piano prettamente umano e precede la differenza religiosa che separava giudei e samaritani e i loro rispettivi luoghi di culto e sistemi sacerdotali. E che diversifica anche la fede che pure tutti hanno mostrato. Tanto che solo al samaritano Gesù dirà: “La tua fede ti ha salvato” (Lc 17,19). Qual è la differenza? Luca presenta nel samaritano la fede come propedeutica all’umano, la fede che insegna a vivere umanamente, la fede che approfondisce l’umano e rende autentiche le relazioni umane. Presenta la fede che insegna a vedere se stessi e a riconoscere l’altro, la fede che radica l’uomo nell’umano e non ve lo sradica. Sradicamento che a volte è operato dalla religione. Il Dio che il samaritano loda è quello che si è manifestato nell’uomo Gesù. È una differenza puramente umana, di atteggiamento umano, di presa sul serio dell’umano. La solenne proclamazione “la tua fede ti ha salvato” va dunque intesa come: ti ha posto nell’unità, ti ha dato integrità, ti ha situato nella tua verità umana. La tua fede aderisce alla tua umanità, fa tutt’uno con essa. È a questa fede, che integra pienamente l’umano, che Gesù dice il suo sì. Gli altri nove si saranno fatti vedere dai sacerdoti e avranno certamente goduto della nuova condizione di guariti, ma non avranno visto ciò che è intervenuto nella loro vita e così saranno restati nella loro cecità, nell’inerzia di chi ha occhi e non vede, orecchie e non sente, bocca e non parla. Guariti dalla lebbra, ma non dalla cecità.

Il samaritano non si presenta ai sacerdoti, ma ringrazia Gesù. E Gesù non si lamenta del fatto che nessun altro sia venuto a ringraziare lui – gli è sconosciuta l’arte perversa di fare del ringraziamento dovuto un’arma di ricatto –, ma si stupisce che uno solo sia tornato indietro a dare gloria a Dio, che uno solo abbia riconosciuto il Dio che agisce nei rapporti intraumani e abbia saputo discernere il Dio che lui narra nella sua umanità. Davvero, non è più sul monte Garizim, dove celebravano il culto i samaritani, o nel tempio di Gerusalemme, dove adoravano i giudei (cf. Gv 4,21) e da cui già erano dovuti uscire i sacerdoti quando la nube della presenza divina ne aveva preso possesso (1Re 8,10), ma nell’umanità di Gesù che va riconosciuta la presenza di Dio. Non nella mediazione religiosa, ma nell’immediatezza umana.

E autentificazione della fede è la dimensione eucaristica, ovvero la capacità di riconoscere, nel senso di entrare nel riconoscimento per giungere alla riconoscenza. Si tratta di riconoscere l’intervento di Dio nella semplicità e opacità dell’umano, del reale. Ma il riconoscimento è pieno quando si dilata nel rendimento di grazie. Quando lo sguardo che ha visto l’umano, da quello stesso umano risale al divino. Allora il culto è autentico e celebrato nella vita, nella trama delle relazioni, nella qualità dei gesti, delle parole e degli sguardi. Allora la conversione è compiuta: il samaritano “tornò indietro (hypéstrepsen) lodando Dio a gran voce” (Lc 17,15). 

La lode a Dio si unisce in modo inscindibile al rendimento di grazie a Gesù. Nell’uomo Gesù si manifesta il volto di Dio.

*Monastero di Bose

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venerdì 10 ottobre 2025

LA PAURA DELLA SOLITUDINE

 



I ragazzi oggi hanno bisogno più che mai di sapere se c’è qualcuno che li ama (li vuole al mondo, si impegna per il loro esserci) così come sono e non così come il mondo li vuole




- di Riccardo D'Avenia   


Ho chiesto ai miei studenti la loro paura più grande. La maggioranza ha risposto: rimanere soli. Un timore connaturato all’uomo, ma che stupisce nell’epoca della condivisione costante. Sebbene iper-connessi siamo iper-slegati, e “social” non è sinonimo di relazione significativa ma di solitudine di massa. E questo perché l’unico modo per non sentirsi soli è il riconoscimento della propria unicità: volersi ed essere voluti al mondo come si è. Se ciò non accade non dipende dai social ma dalle relazioni primarie (personali, familiari, amicali). L’onlife, come Luciano Floridi (La quarta rivoluzione) definisce l’identità oggi, si sposta fuori dalla vita spirituale che è il luogo dell’amarsi e del sentirsi amati, e si affida a rappresentazioni (“Chi sono per te?” diventa “Chi sono online?”).

Ma se ad essere amata è la rappresentazione di me e non io, allora ci si sente soli anche in mezzo alla folla (o ai follower). Il concetto di auto-stima, oggi tanto diffuso, è l’ingannevole correttivo di questa mascherata, perché non può auto-amarsi chi non si sente amato, e non esiste doping spirituale per una identità relazionale come quella umana: l’io nasce e rinasce da un tu che ci fa sentire voluti. I social non possono darci l’amore, perché non arrivano al sé, possono darcene l’impressione, ma amata è la post-produzione che facciamo di noi, non noi. Figuriamoci per un ragazzo che sta cercando di dare alla luce il sé autentico e viene invece allenato a farsi “un profilo, cioè a identificarsi con l’ego voluto dal mondo. Questo alimenta la paura della solitudine. Che fare?

Il sé è una nascita graduale che richiede parti dolorosi. Quando mi è capitato di perdermi, sono riuscito a dare alla luce un sé più autentico solo rinunciando alle rappresentazioni rassicuranti dell’ego, compromessi d’amore che amore non erano, e ci sono riuscito grazie alla forza ricevuta da persone che non amavano quelle rappresentazioni, ma me: mi vogliono bene “a prescindere”, cioè per loro è un bene che io ci sia, a prescindere da cosa io rappresenti.

Ci accade come nel Cyrano de Bergerac di Rostand in cui il protagonista, innamorato di Rossana, non ha il coraggio di dichiararsi a causa della bruttezza del suo volto deturpato da un naso gigantesco, e si limita a prestare le parole del corteggiamento al giovane spasimante di lei, Cristiano, bello quanto vuoto. Cristiano è come il profilo social di Cyrano. A un certo punto Cyrano, nella scena memorabile in cui, nascosto, detta le parole d’amore a Cristiano, fa chiedere alla donna: “Mi ameresti anche se fossi orrendo?”. Tradotto: anche se fossi me stesso?

Ecco il punto: i ragazzi oggi hanno bisogno più che mai di sapere se c’è qualcuno che li ama (li vuole al mondo, si impegna per il loro esserci) così come sono e non così come il mondo li vuole. A quell’età poi ci si sente brutti non tanto o non solo per l’aspetto fisico in trasformazione, ma perché, messi da parte i genitori, ci si scopre “soli”, cioè unici, ma si teme che questa unicità non interessi a nessuno là fuori. E così si cerca approvazione (non amore) ovunque, anche a costo di vendersi, tradirsi, nascondersi. La paura di rimanere soli non è la paura di non trovare qualcuno, ma di non essere “belli” abbastanza perché qualcuno ami proprio noi, anche perché l’unicità, scambiata per “farsi vedere”, è fatta proprio di ciò che nascondiamo: i nostri limiti. In una cultura della performance, auto-promozione e post-produzione di se stessi, si teme di non essere amabili e farsi amare diventa un lavoro. Tutti i ragazzi sono generati biologicamente ma pochi spiritualmente, cioè non riescono a contattare il sé, quel nucleo della persona che non è frutto di costruzioni, prestazioni, risultati, ma che si scopre e si abita se è amato gratuitamente, a prescindere da qualsiasi risultato.

La domanda di Cyrano è la domanda di tutti: “Posso essere amato anche se sono brutto?”, dove “brutto” non è estetica ma la verità di chi io sono, l’unicità dei miei limiti. I social che parlano il linguaggio del mondo, cioè dove gli umani ricevono attenzione solo perché se lo meritano o perché ti seducono, non possono nutrire la vita spirituale, che è vita amata gratuitamente. Nessuno di noi si è dato la vita e quindi per sentirsi amato ha bisogno di sapere che quella vita è stata voluta a prescindere da tutto (per questo i ragazzi adottati hanno la cosiddetta ferita dell’origine e prima o poi vanno alla ricerca dei genitori biologici, per sapere quella verità oscurata dal fatto di essere stati “abbandonati”). Ma un amore che ci ama anche “brutti”, che ci vuole esistenti a prescindere è una chimera? No, se il poeta può così testimoniare della sua amata: “Possesso di me tu mi davi, dandoti a me” (Pedro Salinas, La voce a te dovuta). Ecco la vita spirituale: il possesso di sé che nasce dall’amore gratuito.

Questo amore è stato da sempre ritenuto “divino” da noi umani perché noi non riusciamo ad amare così, eppure si dà anche nel quotidiano quando qualcosa o qualcuno smette di farmi sentire un mezzo e mi rende un fine: “sei il fine e quindi la fine del mondo!”. Può accadere in un bosco, in un quadro, in un angolo di città, in un volto, in una carezza, in una parola… insomma in tutte quelle situazioni in cui cose e persone non “si aspettano” nulla ma “ci aspettano”, lasciano “in pace” (danno pace al-) la nostra alterità (unicità), non ci manipolano, non ci rendono oggetti ma soggetti, ci rendono liberi, in ultima istanza ci testimoniano un amore che ci vuole esistenti, a prescindere da quanto siamo belli e bravi. Questo amore è la vita vera, la vita che non muore, la vita eterna, l’unica realtà che vince la paura di rimanere soli. E se in noi troviamo questo desiderio, allora questo amore c’è, altrimenti non ne avremmo notizia o nostalgia. La paura della solitudine dei ragazzi si rivela per quello che è: desiderio di spogliarsi delle rappresentazioni con cui l’ego crede di meritarsi di esistere ed essere amato, per far nascere il sé, che è dove la vita limitata che abbiamo si sente amata a prescindere.

Abbiamo appena festeggiato San Francesco che comincia la sua vita nuova proprio da giovane, con un denudamento sulla pubblica piazza: rinuncia a tutte le finzioni dell’ego per abbracciare la vita vera, quella in cui tutti sono figli e quindi fratelli e sorelle, dal fuoco alla morte. Non fa altro che seguire la frase paradossale di Cristo secondo cui chi perde la vita la trova, cioè solo chi smette di nascondersi e si libera dalle illusioni d’amore trova l’amore. Cyrano, alla fatidica domanda sul poter essere amato anche brutto (convinto com’è che la sua vita sia tutta definita dal naso deforme) si sente rispondere da Rossana: «Ma certo! E ti amerei ancora di più». Solo quando mi vengono restituite amate le mie insufficienze, le cose di cui io stesso mi vergogno, allora mi sento amato, e la mia vita è in pace, perché è voluta sino alle sue fondamenta. La paura di rimanere soli di questa generazione non è altro che la ricerca dell’amore “a prescindere”, non sotto condizione, che Social, dio delle inesauribili aspettative e solitudini, non potrà mai dare.

Prof 2.0

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INFANZIA RUBATA


 “La Danimarca e tutti gli altri che hanno deciso di vietare i social”



-di Viviana Daloiso

La premier Frederiksen ha annunciato al Parlamento con un discorso durissimo l'intenzione di varare una legge restrittiva: «Dobbiamo restituire ai nostri figli l'infanzia che gli abbiamo sottratto».

Le parole, a volte, pesano anche più delle leggi.

E quelle pronunciate dalla premier danese Mette Frederiksen, aprendo i lavori del Parlamento di Copenhagen ieri, sono pesantissime.

Il governo che guida si prepara infatti a vietare l’uso dei social media ai minori di 15 anni, una misura senza precedenti in Europa.

Ma sono le sue frasi, più ancora della decisione politica, a restituire la portata del gesto: una presa di posizione che va dritta al cuore del dibattito del nostro tempo, funestato dagli effetti molto reali, molto tangibili, della dipendenza digitale e del linguaggio «tossico» della rete.

«È come se i confini del lecito da dire e da fare uno sull’altro siano stati cancellati.

Ci siamo abituati a questa durezza nei commenti e nei toni social: è diventato normale.

Dobbiamo chiederci se quel che si dice sui social non sia ormai fonte di corrosione del rispetto reciproco.

I telefoni cellulari e i social media stanno rubando l’infanzia dei nostri figli – ha detto la premier –.

Mai prima d’ora così tanti giovani hanno sofferto di ansia, depressione o difficoltà di concentrazione.

Sui loro schermi, vedono cose che nessun bambino dovrebbe vedere».

Di qui la decisione comunicata ai deputati: «L’idea non è vietare tutto senza criteri, ma restaurare una soglia di umanità.

Rendere le piattaforme responsabili: che tengano conto di quanto tempo consumi, di quali contenuti vengano mostrati, dell’effetto che hanno sulle emozioni.

E se serve, porre limiti legali e tecnologici. È tempo di restituire ai nostri figli l’infanzia che gli abbiamo sottratto».

Un percorso già avviato

La misura annunciata da Frederiksen si inserisce in una strategia più ampia, già avviata dal suo governo.

A febbraio 2025, la Danimarca ha infatti introdotto il divieto di smartphone nelle scuole per tutti gli studenti dai 7 ai 16-17 anni, trasformando gli istituti appunti in spazi «phone-free».

La decisione è nata dal lavoro della Commissione sul benessere, istituita nel 2023, che ha denunciato gli effetti della digitalizzazione precoce sulla salute dei ragazzi: dipendenza, isolamento sociale, cyberbullismo, perdita di concentrazione.

«Dobbiamo passare – ha detto la ministra per la digitalizzazione Caroline Stage – dalla cattività digitale alla comunità».

La Danimarca non è sola. L’Australia ha fatto da apripista, approvando a fine 2024 una legge che vieta l’uso di piattaforme come TikTok, X, Facebook e Instagram ai minori di 16 anni.

A giugno 2025, la Grecia ha proposto a Bruxelles di fissare una «età digitale maggiorenne» valida per tutta l’Unione europea. In Scandinavia, la Norvegia ha alzato a 15 anni il limite per l’uso dei social, mentre Finlandia e Svezia hanno vietato gli smartphone a scuola.

E ora, anche dall’altra parte del mondo, arriva un segnale simbolicamente potente: la città di Toyoake, nel Giappone centrale, ha introdotto una limitazione di due ore al giorno per l’uso dello smartphone, con l’obiettivo di contrastare la dipendenza digitale e la privazione del sonno.

L’ordinanza, pur senza sanzioni, è la prima del genere in Asia e ha già aperto un dibattito nazionale.

E in Italia?

Anche nel nostro Paese il tema è più che mai attuale.

La deriva social, con i rischi di cui parla ormai ogni giorno la cronaca – dall’istigazione alla violenza ai casi di suicidio in diretta, fino ai fenomeni di dipendenza, ansia e stress – ha spinto la politica a muoversi.

In Parlamento sono numerose le proposte di legge, presentate da tutti i gruppi e spesso bipartisan, che mirano a regolamentare l’accesso alle piattaforme digitali e a rafforzare la tutela dei minori online.

L’ultimo disegno di legge depositato al Senato porta la firma della leghista Erika Stefani, insieme al vicepresidente di Palazzo Madama Gian Marco Centinaio e ad altri senatori del Carroccio.

Il testo propone il divieto assoluto di accesso alle piattaforme social per i minori di 14 anni, estendendo il limite anche ai servizi di messaggistica istantanea come WhatsApp, Telegram, Messenger, Signal e Skype.

Tra i 14 e i 16 anni, invece, l’ingresso nel mondo social sarebbe possibile solo con l’autorizzazione dei genitori o dei tutori legali.

La proposta impone inoltre alle piattaforme digitali l’obbligo di dotarsi di sistemi efficaci di verifica dell’età e di raccogliere il consenso genitoriale, con la previsione di sanzioni severe in caso di inadempienza: prima la diffida, poi, se necessario, il blocco temporaneo del sito o dell’applicazione disposto dall’Agcom.

Il ddl include anche attività formative nelle scuole «rivolte ai genitori» per prevenire forme di disagio giovanile legate all’uso precoce della rete.

Un altro testo – il ddl n. 1136, a prima firma della senatrice Lavinia Mennuni (Fratelli d’Italia) e sottoscritto anche da esponenti di Pd, Lega e Forza Italia – fissa invece a 15 anni l’età minima per accedere ai social network, con la possibilità per i genitori di concedere un permesso anticipato.

La legge prevede anche l’introduzione di un tasto «Emergenza» su tutte le piattaforme, per collegare direttamente i minori in difficoltà al numero 114, dedicato all’infanzia e all’adolescenza.

Sul piano culturale e pedagogico, la discussione è accesa.

Studiosi come Matteo Lancini, Alberto Pellai e Daniele Novara richiamano da tempo la necessità di difendere bambini e adolescenti da una digitalizzazione precoce. «Restituire ai ragazzi la lentezza e la presenza è un gesto educativo, non una nostalgia del passato», ha scritto Pellai, sintetizzando un pensiero ormai condiviso da molti esperti.

Sulla stessa linea si colloca il Forum delle Associazioni Familiari, che ha espresso «forte preoccupazione per l’abuso dei device e per l’accesso indiscriminato ai social network da parte dei più piccoli».

Il presidente Adriano Bordignon ha definito «urgente» l’approvazione di misure restrittive: «Altri Paesi europei – ha ricordato – come Svezia, Norvegia, Francia e Gran Bretagna, hanno già adottato provvedimenti simili, riconoscendo il grave danno che l’esposizione eccessiva agli strumenti digitali può provocare nei soggetti più fragili».

Bordignon ha però aggiunto che «il solo intervento normativo non basta», auspicando un’alleanza educativa fra famiglie e scuole.

In questa direzione il Forum sostiene l’esperienza dei «Patti digitali», promossa da Università di Milano-Bicocca, MEC, Aiart e Sloworkingnate, che propone impegni condivisi per un uso più consapevole e comunitario della tecnologia.

Intanto, sul fronte scolastico, l’Italia ha già intrapreso un percorso di regolamentazione.

Dal 1° settembre 2025, con la nota ministeriale n. 3392 del 16 giugno, è in vigore un divieto rigoroso dell’uso di smartphone e dispositivi personali durante l’orario di lezione nelle scuole secondarie di secondo grado.

Il provvedimento, promosso dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, estende il divieto anche agli usi didattici salvo esplicita autorizzazione e si fonda su studi condotti da Ocse, Oms e Istituto Superiore di Sanità, che mettono in relazione l’abuso di dispositivi con calo dell’attenzione, stress cognitivo, disturbi del sonno e ansia.

Un approccio analogo è da tempo realtà in Francia, dove una legge del 2018 vieta i telefoni cellulari in tutte le scuole fino alle medie, e dove dal 2024 è partita la pause numérique – la «pausa digitale» – in circa duecento istituti pilota: gli studenti consegnano il telefono all’ingresso e lo riprendono solo a fine giornata.

 www.avvenire.it

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AL DI LA' DEL'ODIO

 


LA GIOIA 


DELLA 


PACE




By Giuseppe Savagnone 

 I titoli delle prime pagine

Si può considerare la prospettiva di pace che finalmente si delinea per la Palestina da diversi punti di vista. In attesa di averne nei prossimi giorni una visione più completa, qui ci limiteremo, ad analizzare le reazioni che essa sta suscitando in Italia, partendo da queste per una riflessione sul clima politico del nostro paese.

Cominciamo dalla stampa. I più diffusi e autorevoli quotidiani italiani salutano l’evento sottolineandone la più immediata e importante conseguenza, la fine del massacro che da due anni insanguina la Striscia di Gaza. «Israele-Gaza, l’ora del cassate fuoco», titola il «Corriere della Sera». Sulla stessa linea «Repubblica» –  «Pace a Gaza, ora stop alle armi» – e «La Stampa»: «Gaza, il mondo crede alla pace».

Da parte sua il cattolico «Avvenire» esprime, nella sua prima pagina, «La gioia della pace». Anche un giornale di sinistra come «L’Unità» ha come tutolo: «Finalmente tregua». Più cauto e dubitativo, ma pur sempre positivo, il titolo del «Manifesto»: «Fosse vero».

Non può non colpire il tono completamente diverso del gruppo di giornali che fanno capo alla destra oggi al governo. I titoli di prima pagina esprimono anche qui esultanza, ma non per la pace, bensì per il colpo che essi ritengono abbia inferto alla sinistra. E di «Sinistra sotto un Trump» parla nel suo tutolo principale «Libero», commentando, nell’occhiello: «Pace a Gaza, compagni nel panico». In perfetta sintonia «La Verità» che, accanto alle foto dei leader dell’opposizione, titola: «Spiazzati». Sempre accanto alle stesse foto, «Il Tempo» mette: «Attaccatevi al Trump».

La denuncia del clima di odio da parte della destra

Non possono non venire in mente le reiterate dichiarazioni con cui esponenti della destra ultimamente hanno accusato l’opposizione di alimentare un clima di odio che avvelenerebbe la politica italiana.

L’occasione è stato l’assassinio di Charlie Kirk negli Stati Uniti. Ed è stato il presidente americano ad avviare la polemica. Trump ha definito Kirk una «vittima delle retorica della sinistra radicale», che «da anni paragona meravigliosi americani come Charlie ai peggiori criminali della storia», creando un clima d’odio: «Questa retorica è direttamente responsabile per il terrorismo che stiamo vedendo nel Paese e deve cessare ora».

Partendo dalla giusta considerazione che «la violenza e l’omicidio sono le tragiche conseguenze della demonizzazione di coloro con cui non si è d’accordo», il Tychoon ha attribuito questo atteggiamento distorto alla «sinistra radicale».

Ma l’onda di analoghe accuse ha attraversato anche l’Europa. In Spagna è stata la destra di «Vox» a riprenderle: «L’omicidio di Charlie Kirk sta mostrando la mania omicida che domina gran parte della sinistra occidentale». 

Sulla stessa linea, in Ungheria, il premier Viktor Orban: «La morte di Charlie Kirk è il risultato della campagna internazionale di odio condotta dalla sinistra progressista-liberale (….). Dobbiamo fermare l’odio! Dobbiamo fermare la sinistra che semina odio!».

Non ha fatto eccezione la destra italiana. In verità, i commenti della «sinistra progressista-liberale» nel nostro paese, sono stati subito, unanimemente, di netta condanna dell’assassinio. Valga per tutti quello di Elly Schlein: «L’uccisione di Charlie Kirk è drammatica e scioccante. In una democrazia non può e non deve trovare alcuno spazio la violenza politica, che va sempre condannata in modo netto a prescindere dalle idee di chi colpisce».

Ma questo non ha impedito al capogruppo di FdI, Galeazzo Bignami, di commentare la notizia accusando i sostenitori della sinistra di essere «impregnati di odio, livore, rancore». Aggiungendo una nota religiosa: «Ringrazio Dio di non avermi creato come loro».

E il ministro per i Rapporti col Parlamento Luca Ciriani, anche lui di FdI, ha preso spunto dalla tragedia americana per evocare un confronto con l’Italia: «Anche recentemente ho visto nei confronti della presidente Meloni toni e argomentazioni che sarebbe meglio evitare perché sono un distillato di odio». La Lega si è accodata con il deputato Eugenio Zoffilich e ha parlato «dell’odio e dell’intolleranza con cui è stato avvelenato il dibattito politico dalla retorica della sinistra radicale».

Ma le parole più chiare sono venute dalla premier che, nel suo intervento alla festa nazionale dell’Udc, il 13 settembre, ha parlato dell’omicidio di Kirk in riferimento al nostro paese: «Credo che sia arrivato il momento di chiedere conto alla sinistra italiana di questo continuo minimizzare o addirittura di questo continuo giustificazionismo della violenza nei confronti di chi non la pensa come loro – ha scandito la premier – . Perché il clima anche qui in Italia sta diventando insostenibile ed è ora di denunciarlo, di dire chiaramente che queste tesi sono impresentabili, pericolose, irresponsabili e antitetiche a qualsiasi embrione di democrazia».

Tesi ripresa poco dopo in un comizio a «Vox», in cui, sempre riferendosi a Kirk, ha detto: «Il suo sacrificio ci ricorda ancora una volta da che lato sta la violenza e l’intolleranza».

Una denuncia che assume i tratti del vittimismo nel continuo riferimento a non meglio precisati ricatti a cui la premier ripete di non voler cedere e a minacce – anch’esse non specificate – da cui promette di non lasciarsi intimidire.

Di tutto questo sappiamo, in verità, non dalla Digos, come sarebbe normale, ma interviste televisive rilasciate dalla stessa Meloni, come quella di qualche sera fa al fidato Bruno Vespa, al quale ha confidato: «Temo il clima che si sta imbarbarendo parecchio. Io non conto più le minacce di morte e penso che qui ci siano delle responsabilità di chi per esempio dice che hai le mani di sangue, da chi dice che questo governo è complice di genocidio».

Al di là dell’odio

Davanti a queste accuse non si sa bene cosa dire. Come già abbiamo accennato, nessun esponente politico della sinistra ha “minimizzato” o addirittura “giustificato” la violenza. E anche il supercitato Odifreddi, che in un’intervista ha  sottolineato le responsabilità del giovane attivista americano, sostenitore della libertà di vendita delle armi, è stato subito isolato.

Forse, in realtà, il clima di odio c’è veramente. Ma è francamente unilaterale attribuirne la responsabilità solo alla sinistra, se non altro perché ne sono intrise proprio le stesse denunce, sopra citate, da parte dei rappresentanti della destra al governo.

Questo non vuol dire che i partiti di opposizione siano esenti da un linguaggio spesso violento. Tanto meno si intende qui avallare la loro linea politica, la cui debolezza e inconcludenza è probabilmente la principale ragione della crescita esponenziale dell’astensionismo e del successo dei partiti oggi al governo.

Ma che l’incapacità di rispettare coloro che hanno idee diverse dalle proprie non sia riferibile esclusivamente ad essi, lo dimostra, se non altro, proprio questa campagna sistematica volta a demonizzarli. E basta scorrere i quotidiani di destra sopra citati per vedere che ogni giorno, quale che sia la notizia, la trasformano in un attacco ai rappresentanti dell’opposizione, fatti oggetto di continui sarcasmi e  spesso di accuse malevoli sul piano personale. Uno stile di cui abbiamo avuto un piccolo campione nei titoli citati all’inizio a proposito della pace a Gaza.

E, proprio in rapporto ad essa e a ciò che l’ha preceduta, è molto significativo il modo in cui sia i giornali di destra sia il governo hanno parlato delle generose manifestazioni popolari di solidarietà nei confronti dei palestinesi.

A cominciare da quella che si è espressa nel tentativo della Flotilla di sfidare l’illegale blocco navale stabilito da Israele in acque internazionali, per rompere l’embargo e far giungere generi di prima necessità ai palestinesi.

Una iniziativa che Giorgia Meloni ha definito «gratuita, pericolosa, irresponsabile», attribuendone la responsabilità all’opposizione che, ha detto, «non avendo grandi materie sulle quali mobilitarsi in patria, le va a cercare in Palestina». Per la premier, non si è trattato di un gesto di alto valore umanitario, ma di un complotto ai suoi danni, (ritorna il tema del vittimismo), perché chi l’ha promossa e vi partecipa  «utilizza una questione come la sofferenza del popolo palestinese per attaccare il governo italiano».

Ancora più espliciti i giornali vicini al governo. Per tutti citiamo «Libero», il cui direttore Mario Sechi, ex portavoce di Meloni e in forte sintonia con le sue posizioni, ha scritto: «Spero che le barche vengano affondate, così la prossima missione dovranno rifinanziarsela. Questa missione era una tragica pagliacciata. Ha fatto perdere solo tempo a tutti».

Non ho fatto studi particolari sul sentimento dell’odio. Ma qui mi sembra di vederne un ottimo esempio. Ed è paradossale che chi ha formulato queste parole in molti articoli accusi la sinistra di esserne la sola responsabile.

Eppure non possiamo concludere questa amara rassegna sull’odio senza aprire uno spiraglio al suo opposto, la fraternità, facendo notare che proprio all’impegno e alla partecipazione di uomini e donne comuni si deve, almeno in una certa misura, il merito della prospettiva di pace che si è aperta in questi giorni. 

In tutta Europa si sono succedute proteste popolari che ultimamente sono uscite fuori dalle mura ristrette delle università, in cui all’inizio erano circoscritte, e hanno invaso le strade e le piazze delle capitali.

Solo in Italia in pochi giorni si sono succeduti due scioperi generali partecipatissimi e una manifestazione, a Roma, che tutti gli osservatori hanno riconosciuto essere la più imponente negli ultimi decenni. Anche nei confronti di questi confortanti segnali del risveglio delle coscienze, davanti a un genocidio che si stava volgendo sotto i nostri occhi, il giudizio della nostra premier è stato, se non di odio, almeno di disprezzo, come quando ha esplicitamente ipotizzato che il secondo sciopero generale fosse stato organizzato di venerdì per metterlo in continuità con il weekend.

Una vacanza, insomma, a cui però hanno partecipato due milioni di lavoratori, che hanno sacrificato il loro stipendio giornaliero per chiedere che finisse il massacro di innocenti nella Striscia.

E ora che questo obiettivo sembra sia stato finalmente ottenuto, forse un po’ di gratitudine sarebbe dovuta anche a queste persone – uomini e donne, giovani ed anziani, di tutte le estrazioni sociali, di tutte le idee politiche – che hanno preso posizione non contro qualcuno – come si è cercato di far credere, accusandole gratuitamente di antisemitismo – , ma per soccorrere degli sconosciuti, della cui sorte si sono senti responsabili come di fratelli e di sorelle. Una bella vittoria sulla logica dell’odio, ottenuta non accusandone gli altri, ma operando in prima persona perché esseri umani – diversi da noi – possano vivere.

 www.tuttavia.eu 

 

giovedì 9 ottobre 2025

DILEXI TE

 


Esortazione Apostolica Dilexi te 

del Santo Padre Leone XIV sull’amore verso i poveri

[AR - DE - EN - ES - FR - IT - PL - PT]




-di Angela Ambrogetti

 Nei poveri Dio ha ancora qualcosa da dirci.

É il senso del documento che oggi è stato presentato in Sala Stampa ai giornalisti, il primo di Leone XIV o meglio l'ultimo di Francesco.

Siamo il pronto soccorso di Papa Leone, siamo l'ambulanza, cosi ha detto il cardinale  Konrad Krajewski, Prefetto del Dicastero per il Servizio della Carità.

Ha sottolineato come i poveri dall'inizio della Chiesa sono sempre nel centro della Chiesa. Uscire per sapere di cosa hanno bisogno i poveri.

Ha commentato il capitolo del documento che parla dei Santi. Allora la questione è di cosa hanno bisogno i nostri poveri. Il cardinale ha raccontato alcuni momenti del suo lavoro con i poveri della città di Roma durante il Covid, con il vaccino per 6000 senza tetto.

Nei secoli la Chiesa ha sempre visto il volto di Gesù nei poveri. Poi ha raccontato il lavoro per sostenere la popolazione ucraina. Krajewski parla della elemosina, una bella pagina del documento. L'Elemosineria serve a quello. Papa Francesco, diceva a padre Konrad: Tu devi fare e non parlare con i giornalisti, poi loro vedranno.

Il cardinale Michael Czerny S.J., Prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale ha riassunto il testo e messo l'accento sulla necessità della "Conversione delle strutture". Educazione, Eucarestia, Servizio, così la Chiesa offre misericordia al mondo.

Poi le testimonianze come quella di Suor Clémance delle Piccole Sorelle di Gesù e lavora tra i Roma e ha raccontato la sua esperienza, e sottolineato  che i poveri non sono un probelme da risolvere ma fratelli da accogliere.

Testimonianza anche di Fr. Frédéric-Marie Le Méhauté, Provinciale dei Frati Minori di Francia/Belgio, dottore in teologia che ha messo in luce che l'impegno per i poveri non solo una conseguenza della nostra fede, ma la garanzia di una Chiesa fedele al cuore di Dio.

In sintesi, Dilexi te, ha detto, articola una teologia della rivelazione che scaturisce dalla misericordia verso i più poveri, da un'ecclesiologia della diaconia come criterio di verità e da un'etica sociale che si unisce, con la mano tesa, alla lotta per la giustizia.

Ovviamente il testo che pure ha molto di Papa Francesco, è un testo di Papa Leone XIV perché il Magistero si sviluppa e continua, ha detto il cardinale gesuita Czerny. Certo non si diceva la stessa cosa dopo il pontificato di Benedetto, anzi si sottolineava il cambiamento.

Mentre veniva presentato il documento il cardinale Matteo Zuppi presidente della Conferenza Episcopale italiana, ha sottolineato la "piena continuità con il Magistero di Francesco" con questo testo sui poveri. E aggiunge: "È tempo di passare dalle analisi alle azioni, dall’indifferenza alla cura, dalla speculazione teorica alla concretezza dell’impegno: solo così potremo rimuovere le cause sociali e strutturali della povertà, diffondere attraverso i valori radicati nel Vangelo la custodia dell’umanità, ascoltare il grido di interi popoli, denunciare ciò che non va"

ESORTAZIONE APOSTOLICA

 Dilexi te, l'amore della Chiesa per i poveri da sempre e per sempre

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 Città del Vaticano (ACI Stampa).

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