lunedì 15 dicembre 2025

VENIRE ALLA LUCE

 

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-di Alessandro D’Avenia

 

Il Pantone Color Institute ha scelto per il 2026 un colore paradossale: il bianco.

Per identificarlo lo ha infatti dovuto rappresentare con una donna che danza tra le nubi: «Cloud Dancer». Non quindi un bianco sparato, ma una tonalità ariosa e pacifica come le nubi dei giorni sereni, che invoca calma in una vita maltrattata da un eccesso di stimoli, paure, rumori, fretta... È ora di dare «una mano di bianco» a quest'anima nostra così usurata. Il bianco inaugura, viene prima del colore, come la biacca sulle tele dei pittori. È indossato da chi ha, almeno negli intenti, purezza e virtù: papi, spose, medici, neonati, cuochi, tennisti (a Wimbledon), defunti (in Oriente) e, nell'antica Roma, ragazzi tra 14 e 18 anni e politici in campagna elettorale, «candidato» era infatti chi indossava una veste bianca (candida) in segno di onestà. 

 Un rumore si dice bianco perché contiene tutte le frequenze, smorza gli altri rumori e calma anima e corpo. Sul ponte purtroppo non sventola la bandiera bianca, in compenso prenotiamo le settimane bianche. Notti e balene se sono bianche diventano memorabili. Diciamo bianco il vino che in realtà non lo è, ma il rosso e il bianco, sangue e latte, sono i colori della vita e per questo i primi a esser nominati in quasi tutte le culture. Mettere nero su bianco è chiarezza, avere carta bianca è libertà. E bianco è il Natale anche perché la luce torna a prevalere sul buio. Bianco viene infatti da una radice antica per «splendore». E noi, splendiamo? 

 Bianca è la luce dei fotoni che in 8 minuti dal Sole incontra le cose terrestri, colorandosi delle frequenze che ciascuna riflette (il colore di una cosa è proprio quello che essa restituisce alla luce, una specie di grazie che ognuna pronuncia apparendo), quindi un oggetto è bianco quando riflette quasi tutta la luce che lo investe, non trattiene nulla, come le nubi, la neve, il latte, i cigni, le ninfee e la Luna che infatti catturano artisti e bambini. L'esperienza del bianco è esperienza radicale, del venire alla luce e quindi del venire alla vita. 

 Qualche giorno fa mentre passeggiavo in una tersa notte stellata stesa su maestose montagne innevate, la Luna, che gli antichi chiamavano Selene, cioè la Splendente, piena per l'ultima volta nell'anno, faceva brillare la neve in un crescendo di quel bianco che per Kandinsky colpisce gli uomini come un grande assoluto. Nel cielo danzava in bianca coreografia anche Orione, costellazione invernale, visibile da quasi ogni punto della Terra e nota, con miti diversi, a quasi tutti i popoli della Storia. Per i Greci antichi era il coraggioso Cacciatore che sfida il Toro o lo Scorpione, costellazioni a cui contende la volta celeste. 

 Sotto un cielo così è difficile avere pensieri cattivi, e forse per questo le città di notte sono spesso malvagie o tristi, perché ci rubano il bianco di Luna e stelle, bianco che risveglia in noi il desiderio (distanza de- dalle stelle -sidera) di vita, spazio vuoto che chiede pienezza, mancanza non assenza. Lo sapeva il presidente della Repubblica CecaVáclav Havel, che nel 2002 firmò una legge per proteggere il cielo stellato, imponendo limiti alla luce artificiale emessa verso l'alto. 

Per Havel, che era un artista, la politica era un potenziamento della libertà dei cittadini, e quindi della loro ricerca di senso che sempre comincia dalla bellezza: senza cielo stellato è impossibile avere un'anima, sentire la gratuità della vita, come il giovane Werther di Goethe che tentenna di fronte al suicidio perché non vuole perdere lo spettacolo delle stelle. 

 «Fill in the blanks» (riempi gli spazi) mi chiedevano gli esercizi scolastici d'inglese, e in quella lingua infatti la radice di «bianco» ha dato la parola «blank», un vuoto da riempire. Bianco è lo spazio in cui la vita chiede compiutezza, attesa di colori. L'esperienza del bianco è questa: io non mi basto, e non bastarsi è l'origine di ogni ricerca e quindi di ogni compimento, difficile da accettare in una cultura del «pienessere», dal tempo (ri-)pieno di bambini derubati dell'immaginazione che cresce solo nel vuoto, all'ego di adulti pieni di sé e quindi vuoti d'amore. 

 Chi è pieno non crea altra vita, la consuma o si consuma. Un paradosso che Cristo delinea in una di quelle sue pazze definizioni di felicità: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati», perché può essere felice solo chi cerca la verità (giustizia ne è sinonimo nella lingua evangelica) e trasforma il desiderio in azione creativa. Crea chi sa stare nel vuoto, nel bianco, come lo scrittore nella pagina, il pittore nella tela, il musico nel silenzio, l'innamorato nella distanza, lo scienziato nell'ignoto, l'uomo nella preghiera... La vita è già in noi, come lo sono i colori nella luce, ma come i colori emergono quando la luce incontra un limite, così la vita si colora grazie ai nostri limiti, intesi come ciò che ci rende unici. 

 L'odierna fortuna dell'armocromia tradisce un profondo bisogno spirituale: rivogliamo i nostri colori in un quotidiano spesso grigio e uniforme in cui non c'è spazio per diventare chi siamo ma solo chi ci dicono o obbligano ad essere. 

 Il bianco ce lo chiede con la sua luce: «Ricomincia, prepara i colori». È il colore del desiderio, che è quella inesauribile mancanza che ci rende incapaci di accontentarci di niente che non sia «per sempre», cioè infinito, e ci spinge quindi a cercare e creare sempre il nuovo: «ancora» è l'avverbio del desiderio. 

 Desideriamo senza poter esaurire il desiderio, perché il desiderio non è di qualcosa di preciso, perché è l'energia stessa che ci rende vivi, ci spinge a mettere vita nella vita, a diventare vivi. 

Agostino per questo diceva che vivere è esercizio del desiderio: «C’è una preghiera interiore che non conosce interruzione, ed è il desiderio. Se non vuoi interrompere la preghiera, non smettere mai di desiderare. Continuo è il tuo desiderio, e continua sarà la tua voce... non sempre esso giunge alle orecchie degli uomini, ma non resta mai lontano dalle orecchie di Dio». 

 Perché il bianco del 2026 non resti una metafora, una trovata pubblicitaria, un colore da indossare e basta, usiamolo come colore dell'anima. Il Natale è allora l'occasione per riscoprire che cosa ci impedisce di venire alla luce e quindi alla vita, per questo è bianco, non per la neve e le luci artificiali, che sono solo metafore mondane della verità, ma perché illumina, anche con dolore, gli angoli bui della nostra vita: disamore, paure, fallimenti, tristezze, rabbia, fatiche, inquietudine, ferite, tradimenti, delusioni... Ma è proprio grazie a questo buio che può brillare la vita che noi da soli non ci siamo dati e non possiamo darci, ed è questa Vita che è luce invincibile che festeggiamo: «In lui è la vita e la vita è la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l'hanno vinta» (Gv 1).

 Corriere della Sera

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MALATI DI EPISTEMIA

 


Ci stiamo ammalando

 di epistemia, 


l'illusione 

di sapere cose 

solo perché 

l'AI le scrive bene



L'intelligenza artificiale è molto brava a farci credere di sapere cose che non sa.

 E noi ci stiamo convincendo di conoscerle,

 mentre ci affidiamo a risposte che suonano bene

 

-di Luca Zorloni

C'era una volta l'episteme. La vera conoscenza, secondo i filosofi dell'antica Grecia. Oggi ci ritroviamo invece con l'epistemia. Che della conoscenza è un'illusione. Una sorta di specchio della realtà deformato da una fede cieca nelle risposte dei grandi modelli linguistici (Llm) alle nostre domande. Giudizi. Valutazioni. Classificazioni di fonti. Azioni di discernimento che deleghiamo ai modelli di AI. E fin qui, tutto lecito. Il problema insorge quando riceviamo la risposta. Quanto la prendiamo per buona?

Qui si colloca il bivio tra episteme ed epistemia. Tra conoscenza e illusione. Perché gli Llm non sono progettati per effettuare verifiche sostanziali, ma per generare una risposta che sia plausibile dal punto di vista linguistico. Il loro scopo, in fondo, è questo. Restituire un output che “suoni” bene. Al netto che sia vero o falso. Se quel risultato non viene verificato da chi delega all'AI un pezzo del suo lavoro, ecco che succede il patatrac.

È qualcosa che ricorda molto da vicino il confronto tra Socrate e i sofisti nell'Atene del quinto secolo. Di questi uno degli esponenti di spicco era Gorgia. Il quale sosteneva che nulla esiste, che se anche esistesse non sarebbe conoscibile e se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile. L'AI fa un po' il contrario, perché può comunicare tutto, pur senza conoscerlo. Alla fine, però, l'esito è lo stesso. Un esercizio di persuasione che si fonda sulla capacità di costruire un discorso plausibile, non vero.

Lo studio italiano

Un recente studio pubblicato su Pnas e condotto da un team di ricerca guidato da Walter Quattrociocchi, docente dell'università La Sapienza di Roma e al timone del Center of data science and complexity for society, ha analizzato per la prima volta in modo sistematico come sei modelli linguistici di ultima generazione, tra cui ChatGPT di OpenAI, Gemini di Google o Llama di Meta, “operazionalizzano il concetto di affidabilità". Come si legge nella nota che annunciava la pubblicazione del progetto, "il lavoro confronta le loro valutazioni con quelle prodotte da esseri umani ed esperti del settore (NewsGuard, Mbfc), utilizzando un protocollo identico per tutti: stessi criteri, stessi contenuti, stessa procedura. Il focus non è sull’accuratezza del risultato finale, ma su come il giudizio viene costruito”.

In una parola, l'epistemia. Se dovessi scegliere, è questa per me la parola dell'anno. Perché identifica questa nuova stagione della nostra società dominata dalla costruzione di una impressione di conoscenza che sta in piedi perché non si sa, perché non si sa delegare all'AI e perché non si sa controllare e verificare il risultato. Ci si bea, in compenso, di una risposta cucita talmente bene da illuderci di non poter essere che vera. L'AI ci renderà più stupidi se vorremo cullarci nella stupidità indotta. Se ci accontenteremo della prima risposta del chatbot, senza considerare i meccanismi probabilistici che governano il funzionamento dei grandi modelli linguistici.

Come reagire?

Le conclusioni dello studio condotto dal team di Quattrociocchi non identificano solo il problema, ma indicano anche la soluzione. Che è saperne di più dell'AI a cui ci affidiamo. Delegare la navigazione solo se si conosce la rotta, la destinazione, gli scogli che affiorano. O se si hanno gli strumenti per comprendere se, circondati dalla nebbia, si sta viaggiando nella giusta direzione. L'impiego dell'AI richiede di alzare il nostro livello di conoscenza, di ampliarlo e di mantenerlo aggiornato. Da un lato, rispetto alla capacità di utilizzare gli strumenti di intelligenza artificiale, di saperne distinguere i risultati, i meccanismi di funzionamento e quindi i punti di forza e quelli di debolezza. Dall'altro, rispetto alle materie su cui chiedono all'AI di sostituirci a noi.

Alla fine, quando si parla degli effetti della tecnologia sul sapere, torniamo sempre al punto di partenza. Che fake news, deepfake, epistemia si disinnescano non tanto con etichette posticce o filigrane, ma coltivando lo spirito critico, investendo sulla formazione, allenando la mente a non cadere nei tranelli di una conoscenza superficiale. È una buona notizia, se volete, che ridimensiona gli allarmi delle trombe dell'Apocalisse. Ma è anche una consapevolezza che sposta il fuoco della trasformazione dall'AI a noi stessi. E ci inchioda alle nostre responsabilità. Sapremo uscirne migliori?

  WIRED

Immagine: Il pensatore di Auguste RodinGABRIEL BOUYS/AFP via Getty Images

sabato 13 dicembre 2025

HAMAS E ISRAELE

 


I crimini 

contro l’umanità 

di Hamas,

 e quelli di Israele

 

Amnesty International documenta il genocidio e l'apartheid commessi da Israele e i crimini di guerra di Hamas e altri gruppi armati palestinesi, in particolare l'attacco del 7 ottobre 2023. «I responsabili di crimini di diritto internazionale devono rispondere alla giustizia. Tutte le parti devono riconoscere le proprie responsabilità», dice Agnès Callamard, segretaria generale dell'organizzazione.

 

di Redazione

 Al termine dell’Assemblea degli stati parte della Corte penale internazionale, svoltasi all’Aja, Amnesty International ha chiesto agli stati di dimostrare il loro impegno per la giustizia internazionale assicurando che le vittime dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e del genocidio nel Territorio palestinese occupato e in Israele vedano i responsabili chiamati a risponderne.

«Il sistema di giustizia Internazionale è sotto attacco ed è di fronte a minacce alla sua esistenza. Non c’è maggiore banco di prova della situazione in Israele e nel Territorio palestinese occupato. Gli stati devono dimostrare il loro impegno per la giustizia internazionale sostenendo organismi come la Corte penale internazionale e proteggendo la possibilità che essa giudichi i responsabili di crimini internazionali», ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

Amnesty International ha ampiamente documentato come Israele abbia commesso e stia continuando a commettere il crimine di genocidio contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza, persino dopo il cessate il fuoco, e come il suo sistema di apartheid costituisca un crimine contro l’umanità. L’organizzazione per i diritti umani ha pubblicato anche un’approfondita ricerca sui crimini di guerra e sui crimini contro l’umanità commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi durante e dopo gli attacchi lanciati il 7 ottobre 2023.

«I leader mondiali hanno accolto con favore la risoluzione adottata il mese scorso dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul piano per una pace sostenibile nella Striscia di Gaza. Ma decenni di crimini internazionali non possono essere nascosti sotto il tappeto proprio mentre gli accordi in essere ignorano la ricerca delle responsabilità e rafforzano l’ingiustizia. Verità, giustizia e riparazioni sono le fondamenta di una pace duratura», ha aggiunto Callamard. «Chiediamo a tutte le parti coinvolte in Israele e nel Territorio palestinese occupato, così come alla comunità internazionale che nutre preoccupazione per le evidenti mancanze insite nella risoluzione del Consiglio di sicurezza, di sviluppare e impegnarsi a realizzare una roadmap verso la giustizia e le riparazioni, i cui obiettivi siano da un lato la fine del genocidio israeliano, del sistema di apartheid e dell’occupazione illegale del territorio palestinese e dall’altro la persecuzione dei crimini internazionali commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi».

Per garantire una giustizia genuina, efficace e significativa e la non ripetizione dei crimini internazionali, Amnesty International ha raccomandato che questa roadmap si fondi sulla complementarità di più istituzioni e meccanismi giudiziari.

Le indagini della Corte penale internazionale sui crimini commessi dal lato israeliano e da quello palestinese devono andare avanti senza essere ostacolate e prendere in considerazione tanto il genocidio e il crimine contro l’umanità di apartheid da parte israeliana quanto i crimini commessi dai gruppi armati palestinesi prima, durante e dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 in modo da assicurare che tutte le singole persone – per lo meno, quelle ancora in vita tra le principali responsabili – siano portate di fronte alla giustizia.

La roadmap dovrebbe impegnare gli stati a sostenere e a collaborare pienamente con organismi quali la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite e la stessa Corte penale internazionale. Gli stati dovrebbero eseguire i mandati d’arresto della Corte e fare tutti i passi necessari per assicurare l’annullamento delle sanzioni e delle restrizioni imposte alle organizzazioni palestinesi per i diritti umani, che da decenni documentano le violazioni del diritto internazionale e ne rappresentano tutte le vittime.

Parallelamente ai meccanismi internazionali, gli stati possono tratteggiare un nuovo corso per la pace basato sulla giustizia attraverso gli organi giudiziari nazionali, la giurisdizione universale o ulteriori forme di giurisdizione penale extraterritoriale per i crimini commessi nel Territorio palestinese occupato e in Israele.

«Le vittime delle atrocità in Israele e nel Territorio palestinese occupato meritano una giustizia autentica. Questo significa non solo vedere i responsabili processati e condannati ma anche assicurare rimedi effettivi e sviluppare garanzie di non ripetizione. Non c’è alcun dubbio che questi siano passi cruciali verso una pace e una sicurezza che durino nel tempo», ha commentato Callamard.

Il genocidio, l’apartheid e l’occupazione illegale

Trascorsi due mesi dall’annuncio del cessate il fuoco e rientrati in Israele tutti gli ostaggi ancora in vita, le autorità israeliane stanno ancora commettendo nella totale impunità il crimine di genocidio nei confronti della popolazione palestinese della Striscia di Gaza occupata, continuando a sottoporla deliberatamente a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, senza alcun segnale di un cambiamento nelle loro intenzioni. Amnesty International ha recentemente pubblicato un’analisi giuridica della situazione in atto che dimostra come il genocidio stia continuando, unita a testimonianze di abitanti della Striscia di Gaza e di personale medico e umanitario che hanno evidenziato le drammatiche condizioni in cui versa la popolazione palestinese. Nonostante una riduzione dell’intensità degli attacchi e alcuni limitati miglioramenti, non c’è un significativo cambiamento delle condizioni cui Israele sta sottoponendo la popolazione della Striscia di Gaza e non vi è alcuna prova che le intenzioni israeliane stiano mutando.

Almeno 327 persone, tra le quali 136 minorenni, sono state uccise dagli attacchi israeliani a partire dal 9 ottobre 2025, giorno in cui è stato annunciato il cessate il fuoco. Nel contesto del genocidio ancora in corso da oltre due anni, Israele ha intenzionalmente ridotto alla fame i civili palestinesi e limitato – nonostante alcuni modesti miglioramenti – l’accesso ad aiuti fondamentali e a forniture di soccorso, quali quelle mediche e le attrezzature necessarie per riparare infrastrutture indispensabili per la vita umana. Ha sottoposto la popolazione civile palestinese a successive ondate di trasferimenti forzati in condizioni inumane che hanno acuito la sua catastrofica sofferenza. Complessivamente almeno 70mila persone palestinesi sono state uccise e 200mila sono rimaste ferite, molte delle quali in un modo grave e che ha cambiato la loro vita.

La probabilità oggettiva che le attuali condizioni possano causare la distruzione della popolazione palestinese della Striscia di Gaza persiste tuttora. Ciò nonostante, le autorità israeliane non hanno mostrato un cambiamento nelle loro intenzioni: hanno ignorato tre serie di decisioni vincolanti della Corte internazionale di giustizia e non hanno indagato né sottoposto a procedimenti giudiziari le persone sospettate di atti di genocidio o chiamato a rispondere le autorità e i funzionari che hanno fatto dichiarazioni genocidarie. Le autorità responsabili della direzione e della commissione del genocidio restano al potere, con la garanzia di poter continuare a commettere atrocità. Il genocidio israeliano contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza va collocato nel contesto di una pervasiva impunità per il crimine contro l’umanità di apartheid tuttora in corso e di decenni di occupazione illegale del territorio palestinese.«È in questo scenario di apartheid e occupazione illegale che Israele ha intenzionalmente causato una carestia di massa, un bagno di sangue senza precedenti, livelli apocalittici di distruzione e massicci sfollamenti forzati e ha intenzionalmente bloccato l’aiuto umanitario: tutti esempi del crimine in corso di genocidio», ha commentato Callamard.

 In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, il crudele sistema di apartheid israeliano e l’occupazione illegale costano assai caro alla popolazione palestinese. Le operazioni militari israeliane, compresi gli attacchi aerei, hanno causato l’uccisione di almeno 995 persone palestinesi tra le quali almeno 219 minorenni, lo sfollamento di decine di migliaia di esse ed estesi danni a infrastrutture civili essenziali, ad abitazioni e a terreni agricoli. Negli ultimi due anni c’è stato un aumento degli attacchi dei coloni sostenuti dallo stato israeliano, che hanno causato morti, feriti e sfollamenti tra la popolazione palestinese. L’Ufficio di coordinamento per gli affari umanitari delle Nazioni Unite ha documentato, dal gennaio 2025, oltre 1.600 attacchi dei coloni che hanno causato danni alle persone o a proprietà. Le comunità di pastori dell’area C sono quelle più colpite da questa ondata di incessante violenza sostenuta dallo stato israeliano. Nonostante le condanne internazionali e alcuni provvedimenti restrittivi adottati da stati terzi contro singoli coloni e loro organizzazioni, la violenza continua a crescere a causa del sostegno del governo israeliano e della pressoché totale impunità di cui beneficiano i coloni. Il piano di pace Trump è l’ultima di una serie di iniziative fatalmente manchevoli, che cercano di proporre “soluzioni” che ignorano il diritto internazionale premiando così implicitamente Israele per la sua occupazione illegale, i suoi insediamenti illegali e il suo sistema di apartheid che sono le cause di fondo delle continue atrocità inflitte alla popolazione palestinese.

Le condizioni stabilite durante l’attuale cessate il fuoco rafforzano ulteriormente il sistema israeliano di apartheid e l’occupazione illegale così come l’ingiustizia. L’imposizione, da parte israeliana, di un “perimetro di sicurezza” (una zona cuscinetto) nella Striscia di Gaza rischia di rendere permanente l’illegale occupazione israeliana e priva la popolazione palestinese delle sue terre più fertili, così come di perpetuare la frammentazione territoriale che puntella il sistema israeliano di apartheid impedendo la libertà di movimento delle persone palestinesi verso l’altra parte del territorio occupato. Analogamente, beneficiano dell’impunità le forze israeliane responsabili delle detenzioni arbitrarie, delle sparizioni e della sistematica tortura delle persone prigioniere palestinesi. Di recente il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha descritto una “politica statale de facto di maltrattamenti e torture organizzati e diffusi, gravemente intensificatasi dal 7 ottobre 2023” e ha espresso forte preoccupazione per le “ampie denunce di violenza sessuale nei confronti di prigioniere e prigionieri palestinesi, che costituiscono maltrattamenti e torture”. «L’ostinata mancanza di azione da parte della comunità internazionale per chiamare Israele a rispondere dei suoi crimini internazionali e premere affinché aderisca alle raccomandazioni dai meccanismi delle Nazioni Unite e delle organizzazioni internazionali per i diritti umani ha rafforzato l’occupazione illegale e l’apartheid e ha direttamente permesso a Israele di compiere il crimine di genocidio contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza», ha ribadito Callamard.

I crimini contro l’umanità commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi

È a sua volta fondamentale assicurare giustizia per i crimini commessi dai gruppi armati palestinesi. A oltre due anni distanza, continuano a emergere resoconti delle atrocità da loro commessi durante gli attacchi del 7 ottobre 2023 guidati da Hamas nel sud d’Israele e il successivo trasferimento di ostaggi nella Striscia di Gaza. Le persone sopravvissute agli attacchi, gli ex ostaggi e le loro famiglie continuano a tenere accesi i riflettori sull’esperienza passata e a chiedere giustizia e riparazioni. Il rapporto pubblicato da Amnesty International dà conto dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità commessi dall’ala militare di Hamas, le Brigate al-Qassam, e da altri gruppi armati palestinesi durante il loro assalto nel sud d’Israele e contro gli ostaggi successivamente portati nella Striscia di Gaza.

Nelle prime ore del 7 ottobre 2023, le forze di Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno lanciato un attacco coordinato, principalmente contro luoghi civili. Sono state uccise circa 1.200 persone, oltre 800 delle quali civili, compresi 36 minorenni: prevalentemente ebrei israeliani ma anche beduini con cittadinanza israeliana e decine di lavoratori, studenti e richiedenti asilo di nazionalità straniera. Sono state ferite oltre 4mila persone e centinaia di case e di strutture civili sono state distrutte o rese inabitabili. Attraverso l’analisi dello schema seguito negli attacchi, prove e contenuti delle comunicazioni tra le persone che vi stavano prendendo parte, Amnesty International ha concluso che questi crimini sono stati condotti nell’ambito di un attacco massiccio e sistematico contro una popolazione civile. Gli uomini armati hanno ricevuto istruzioni di prendere di mira persone civili.

«Le nostre ricerche hanno confermato che i crimini commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi nei loro attacchi del 7 ottobre 2023 e contro le persone prese in ostaggio hanno fatto parte di un massiccio e sistematico assalto contro la popolazione civile e costituiscono pertanto crimini contro l’umanità», ha dichiarato Callamard. «Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno mostrato un abominevole disprezzo per la vita umana: hanno intenzionalmente e sistematicamente colpito civili nelle loro abitazioni e durante un festival musicale con l’obiettivo di prendere ostaggi, ciò che costituisce un crimine di guerra; hanno deliberatamente ucciso centinaia di civili, usando armi da fuoco e granate per portare fuori dalle loro stanze di sicurezza, o da altri luoghi in cui si nascondevano, persone terrorizzate, comprese famiglie con bambini piccoli o le hanno attaccate mentre erano in fuga. Amnesty International ha trovato prove che alcuni palestinesi si sono resi responsabili di pestaggi e aggressioni sessuali e hanno maltrattato i corpi di coloro che avevano ucciso», ha aggiunto Callamard.

Hamas ha sostenuto che le sue forze non sono state coinvolte negli omicidi mirati, nei rapimenti e nei maltrattamenti dei civili durante gli attacchi del 7 ottobre 2023 e che molti civili sono stati uccisi dal fuoco israeliano. Ma, sulla base di ampie prove, video inclusi, e testimonianze, Amnesty International è giunta alla conclusione che, seppure alcuni civili siano stati uccisi dalle forze israeliane nel tentativo di respingere gli attacchi, la vasta maggioranza delle persone morte è stata intenzionalmente uccisa da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi, che hanno preso di mira luoghi civili lontani da qualsiasi obiettivo militare. Uomini armati palestinesi, comprese le forze di Hamas, sono stati allo stesso modo responsabili del rapimento di civili da più località e di violenza fisica, sessuale e psicologica contro le persone rapite.

Sono state 251 le persone, per lo più civili compresi anziani e bambini, prese in ostaggio e portate nella Striscia di Gaza. Nella maggioranza dei casi, sono state rapite vive ma si ritiene che 36 di esse fossero già morte. Queste persone sono state trattenute per settimane, mesi e in alcuni casi due anni. Alcuni degli ostaggi tornati vivi hanno riferito ad Amnesty International o in occasione di incontri pubblici di essere stati tenuti in catene in tunnel sottoterra per parte o per tutto il tempo e di aver subito intense violenze, privazioni e tormenti psicologici come la minaccia di esecuzione. Alcuni di loro hanno subito aggressioni e violenze sessuali e minacce di matrimonio forzato e sono stati costretti a stare nudi. Almeno sei ostaggi sono stati uccisi dai loro rapitori.

Amnesty International ha intervistato 70 persone: 17 sopravvissute agli attacchi del 7 ottobre 2023, familiari di vittime, medici legali, professionisti sanitari, avvocati, giornalisti e autori di indagini. I suoi ricercatori hanno visitato alcuni dei luoghi attaccati e hanno esaminato oltre 350 fotografie e video di tali luoghi e delle persone tenute in ostaggio nella Striscia di Gaza. Sulla base delle proprie indagini Amnesty International ha concluso che Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno commesso i crimini contro l’umanità di “uccisione”, “sterminio”, “imprigionamento o altra grave forma di privazione della libertà fisica in violazione delle norme fondamentali del diritto internazionale”, “sparizione”, “tortura”, “stupro (…) o ogni altra forma di violenza sessuale di gravità comparabile” e “altri atti inumani”.

«Decenni di spaventose violazioni ai danni delle persone palestinesi e di occupazione illegale e di apartheid nonché il genocidio tuttora in corso nella Striscia di Gaza non possono giustificare in alcun modo questi crimini né esonerare i gruppi armati palestinesi dai loro obblighi di diritto internazionale. Le violazioni dei diritti umani da parte dei gruppi armati palestinesi nel contesto degli attacchi del 7 ottobre 2023 devono essere riconosciute e condannate per ciò che sono: crimini di atrocità. Hamas, inoltre, deve restituire senza alcuna condizione il corpo di una persona uccisa il 7 ottobre 2023 e presa in ostaggio non appena lo avrà localizzato», ha sottolineato Callamard.

Nelle ultime settimane il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato la costituzione di un comitato che esaminerà il processo decisionale del governo in occasione degli attacchi del 7 ottobre 2023. Questo annuncio è stato assai criticato, anche dalle persone sopravvissute agli attacchi e dalle famiglie di quelle uccise, in quanto privo di indipendenza e disallineato rispetto ai precedenti di commissioni d’inchiesta dirette da un giudice. Amnesty International chiede alle autorità dello Stato di Palestina di riconoscere e denunciare le gravi violazioni del diritto internazionale commesse dai gruppi armati palestinesi e di condurre indagini indipendenti e imparziali per identificare persone sospettate di aver commesso crimini di diritto internazionale nonché di cooperare totalmente coi meccanismi internazionali d’indagine, anche condividendo prove in loro possesso.

Una giustizia internazionale necessaria per tutte le vittime

Le indagini in corso della Corte penale internazionale sulla “situazione in Palestina” e i mandati d’arresto emessi dalla stessa Corte nei confronti del primo ministro Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Gallant per crimini di guerra e crimini contro l’umanità restano elementi fondamentali di un genuino accertamento delle responsabilità. Assumere iniziative per chiamare alti funzionari israeliani a rispondere di crimini di diritto internazionale è un passo essenziale per far terminare il genocidio israeliano nella Striscia di Gaza, per ripristinare la fiducia nel diritto internazionale e per assicurare a tutte le vittime dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità giustizia, verità e riparazioni.

Ad avviso di Amnesty International, la Corte penale internazionale dovrebbe proseguire a indagare sui crimini commessi dai gruppi armati palestinesi prima, durante e dopo gli attacchi del 7 ottobre, per assicurare che le persone sospettate di essere responsabili di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità siano portate di fronte alla giustizia. «Si tratta di questioni non negoziabili. I responsabili di crimini di diritto internazionale devono rispondere alla giustizia e le istituzioni che essi rappresentano, devono avviarsi lungo un percorso nuovo, basato sui diritti umani e sul diritto internazionale, anche adottando leggi che impediscano la futura ripetizione di tali violazioni. Tutte le parti devono riconoscere le proprie responsabilità e fornire piena collaborazione agli organismi investigativi e ai meccanismi della giustizia internazionale, come la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite e la Corte penale internazionale, dando seguito alle loro raccomandazioni e permettendo loro di raccogliere, conservare e analizzare prove al fine di accertare le responsabilità. Le vittime devono essere ascoltate, devono essere riconosciute per ciò che hanno subito e devono ricevere rimedi efficaci, comprese le riparazioni. Senza queste misure concrete per assicurare verità e giustizia non potrà esserci alcuna pace duratura», ha concluso Callamard.

VITA

 


PREPARATE LE VIE DEL SIGNORE

 DOMENICA 14 DICEMBRE

Testo del Vangelo (Mt 11,2-11): In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».


«Giovanni era una voce provvisoria. Quando gli fu chiesto: ʽChi sei?ʼ Rispose: ʽIo sono la voce che grida nel deserto: Spianate il cammino del Signore!ʼ. Cosa significa: ʽSpianate il camminoʼ, se non: ʽPensate con umiltàʼ?» (Sant’Agostino)


Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

«Fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista»

Oggi, come la domenica scorsa, la Chiesa ci presenta il personaggio di Giovanni Battista Questi aveva molti discepoli ed una dottrina chiara e distinta: per i pubblicani, per i soldati, per i farisei e sadducei...Il suo impegno era quello di preparare la vita pubblica del Messia. Prima mandò Giovanni e Andrea, oggi manda altri affinché lo conoscano. Vanno con una domanda: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro» (Mt 11,3) Giovanni sapeva bene chi era Gesù. Lo afferma lui stesso: «Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo» (Gv 1,33). Gesù risponde con i fatti: i ciechi vedono e gli zoppi camminano...

Giovanni era di carattere fermo nel suo modo di vivere e nel restare nelle Verità, cosa che pagò con il carcere ed il martirio. Anche in carcere parla esitosamente con Erode. Giovanni ci insegna ad unire la fermezza di carattere con l’umiltà «Non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,27); «Lui deve crescere io, invece, diminuire» (Gv 3,30); se ne compiace al sapere che Gesù battezzi più di lui, perché si considera solamente “amico dello sposo” (cf.Gv 3,26).

Per dirla in breve, Giovanni ci insegna a prendere sul serio la nostra missione sulla terra: essere cristiani coerenti, che sanno di essere ed agiscono come figli di Dio. Dobbiamo domandarci: -Come si saranno preparati Maria e Giuseppe alla nascita di Gesù? Come preparò Giovanni l’insegnamento di Gesù? Come ci prepariamo noi per commemorarlo per la seconda venuta del Signore alla fine dei tempi? Come, dunque, diceva san Cirillo di Gerusalemme: «Noi annunciamo la venuta di Cristo, non solo della prima, ma anche della seconda, molto più gloriosa della prima; giacché la prima stette impregnata dalla sofferenza, ma la seconda porterà la corona della gloria divina».

Evangeli.net

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I DUE CRISTIANESIMI

 


I due cristianesimi negli Stati Uniti 

al tempo di Trump

 

-         di Giuseppe Savagnone  



Il ruolo politico delle sette evangeliche

Si sente spesso parlare di islamismo – di solito per condannarne il fondamentalismo – come di un blocco monolitico. Nella stessa logica l’antisemitismo attacca gli ebrei senza distinzioni. E allo stesso modo anche il cristianesimo viene considerato una visione che ha caratterizzato in modo univoco la nostra civiltà, anche se oggi se ne registra il declino.

È raro che si sottolineino le profonde differenze che si riscontrano all’interno di queste religioni e che si manifestano anche nel loro rapporto con la politica. Per guardare a quella cristiana, che ci è più vicina e che pensiamo di conoscere meglio, è un esempio significativo di questi diversi approcci la situazione degli Stati Unti.

È noto il ruolo che hanno avuto le sette neo-evangeliche, nell’elezione di Donald Trump, sia nel primo che nel secondo mandato. Meno noto, forse, è di che cosa si tratta. L’evangelicalismo o evangelismo non prevede autorità religiose o la necessità di chiese consacrate: è un movimento teologico all’interno del protestantesimo (ampiamente maggioritario negli Stati Uniti) che si concentra sulla lettura della Bibbia, che non deve essere interpretata, ma considerata come “parola di Dio” e per questo insindacabile.

I membri di questi gruppi si considerano crociati impegnati in una lotta contro il male, nell’impaziente attesa dell’Apocalisse e del ritorno di Gesù Cristo. I loro principali testi di riferimento non sono i libri del Nuovo Testamento, ma quelli dell’Antico, che essi tendono a leggere in modo letterale. Da qui la convergenza con gli ebrei ortodossi che ritengono loro missione ricostituire l’antico Israele sul territorio che Dio steso gli aveva promesso, cacciando via le popolazioni arabe che vi si erano insediate nel frattempo.

Collegando la prospettiva vetero-testamentaria con quella neo- testamentaria, queste sette cristiane ritengono che proprio la ricostituzione del regno del popolo eletto in Palestina sia la condizione per la venuta del Messia da loro atteso. Da qui il sostegno politico ed economico allo Stato ebraico e le pressioni su Trump perché sia garante della sua sicurezza.

Organizzazioni come Christians United for Israel (CUFI), guidate da figure carismatiche come il pastore John Hagee, hanno avuto un peso decisivo nel riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, di Gerusalemme come capitale di Israele. La risoluzione dell’ONU del 1947 istitutiva dei “due Stati”, stabiliva che questa città, sacra all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam, avesse uno statuto internazionale. Ma nel 1980 il primo ministro Menachem Begin fece approvare una Legge fondamentale che dichiarava Gerusalemme “Capitale una e indivisibile dello stato ebraico di Israele”.

A questo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha risposto, con 14 voti favorevoli, nessun contrario e una sola astensione (USA), dichiarando nulla e vana la legge in questione e ribadendo per gli Stati membri  l’obbligo di mantenere le loro ambasciate a Tel Aviv. L’unico capo di governo che ha sfidato questa decisione è stato Trump, che, durante il suo primo mandato, nel 2018 ha  spostato quella americana a Gerusalemme, per compiacere i suoi sostenitori evangelici.

Non è il solo esempio dell’appoggio delle sette cristiane a Israele. Un’inchiesta del giornale israeliano «Haaretz»,  nel 2018, ha svelato che diverse associazioni che gravitano nell’orbita dell’universo evangelista avevano donato più di 65 milioni di dollari in dieci anni alla causa israeliana. Questi soldi, sempre secondo «Haaretz», avevano finanziato le attività degli insediamenti illegali dei coloni israeliani in Cisgiordania. Dopo il 7 ottobre, inoltre, secondo l’Associated Press, il CUFI e altre organizzazioni evangeliste avrebbe elargito diversi milioni di dollari  per finanziare la guerra di Israele a Gaza.

Trump non si è limitato ad ascoltare i leader evangelisti in politica estera:  ha loro riconosciuto un ruolo pubblico istituendo un Ufficio della Fede. Chiamando a guidarlo una telepredicatrice, Paula White – che da anni è una sua fidata consulente spirituale – , sostenitrice della “teologia della prosperità”, secondo cui Dio ricompensa i veri fedeli con ricchezza materiale e successo personale..

In questa occasione, il neo-presidente ha annunciato di voler «riportare la religione»  negli Stati Uniti. Rivelandosi anche in questo coerente con le dichiarazione fatte durante la sua campagna elettorale, che aveva  definito una «crociata giusta» contro «atei, globalisti e marxisti».

La posizione della Chiesa cattolica

Molto diversa da quella delle sette evangeliste, sicuramente,  la posizione dei cattolici americani. Anche se diversi vescovi, tra cui l’arcivescovo di New York Timothy Dolan,  hanno apertamente appoggiato la rielezione di Trump, bisogna tenere conto che l’alternativa era costituita da quella Kamala Harris che non ha trovato niente di meglio per la sua campagna elettorale che sventolare continuamente la bandiera della libertà di aborto.

Ed invece è stata decisa l’opposizione dei vescovi cattolici a Trump quando ha cominciato a delineare la sua politica volta a «rendere di nuovo grande l’America». Il presidente della Conferenza Episcopale statunitense, l’arcivescovo Timothy Broglio, in un comunicato, ha attaccato le disposizioni contenute negli ordini esecutivi riguardanti il trattamento degli immigrati e dei rifugiati, gli aiuti ai paesi poveri e l’ambiente. Esse, ha detto, «ignorano non solo la dignità umana di pochi ma di tutti noi».

In particolare, davanti al progetto di deportazione sistematica degli immigrati, monsignor Mark Joseph Seitz, vescovo di El Paso e presidente del Comitato per le migrazioni della Conferenza episcopale, ha dichiarat:o  «L’uso di generalizzazioni radicali per denigrare qualsiasi gruppo, ad esempio descrivendo tutti gli immigrati clandestini come “criminali” o “invasori”, per privarli della protezione della legge, è un affronto a Dio che ha creato ciascuno di noi a sua immagine».

Sulla questione è intervenuto anche papa Francesco, con una lettera inviata ai pastori della Chiesa cattolica. «Un autentico stato di diritto – si legge nella comunicazione del Pontefice – si attua sulla base del trattamento dignitoso che meritano tutte le persone, soprattutto quelle più povere ed emarginate; il vero bene comune si promuove quando la società e i governi, con creatività e rispetto rigoroso dei diritti di tutti accolgono, proteggono, promuovono e integrano i più fragili, indifesi e vulnerabili».

E il pontefice aggiungeva: «L’atto di deportare persone che in molti casi hanno lasciato la propria terra per motivi di estrema povertà, insicurezza, sfruttamento, persecuzione o grave deterioramento dell’ambiente, ferisce la dignità di tanti uomini e donne, di intere famiglie, e li pone in uno stato di particolare vulnerabilità».

Il santo padre ha poi risposto alle parole del vice presidente JD Vance, che  pure si dichiara cattolico, il quale aveva giustificato le misure anti-immigrazione illegale assunte da Trump ricorrendo al concetto agostiniano dell’ordo amoris, secondo cui si deve pensare prima a se stessi, alla famiglia, ai vicini di casa, alla propria comunità, al proprio paese e solo poi a chi vive altrove.

Ordo amoris

«Il vero ordo amoris da promuovere – ha osservato il papa – è quello che scopriamo meditando costantemente la parabola del ‘buon Samaritano’, meditando cioè sull’amore che costruisce una fraternità aperta a tutti, nessuno escluso. Preoccuparsi dell’identità personale, comunitaria o nazionale, prescindendo da queste considerazioni introduce facilmente un criterio ideologico che distorce la vita sociale e impone la volontà del più forte come criterio di verità».

Infine, nel novembre scorso, è stata tutta la Conferenza Episcopale cattolica a inviare un messaggio, approvato a larghissima maggioranza (216 sì, 5 no, 3 astensioni) in cui i vescovi esprimono il loro dissenso per una retorica che «vilipende gli immigrati» e per «le deportazioni di massa indiscriminate» in corso.

Papa Leone ha così commentato il comunicato: «Apprezzo moltissimo quanto detto dai vescovi. È una dichiarazione importante. Inviterei in particolar modo tutti i cattolici e tutte le persone di buona volontà ad ascoltare quello che hanno detto. Credo che dobbiamo cercare maniere di trattare la gente con umanità rispettando la loro dignità».

La questione di Gaza

Anche sulla questione di Gaza si nota una profonda differenza. Mentre le sette evangelicali hanno raccolto milioni di dollari per finanziare Israele, la sua guerra e le invasioni dei coloni, lo scorso 12 agosto mons. Broglio, presidente della Conferenza Episcopale, ha inviato una lettera ai suoi confratelli vescovi in cui diceva: «La nostra Chiesa piange per le terribili sofferenze dei cristiani e di altre vittime innocenti della violenza, che lottano per sopravvivere, proteggere i propri figli e vivere con dignità in condizioni disperate»,  e chiedeva di promuovere «una raccolta speciale per offrire aiuto umanitario e sostegno pastorale ai nostri fratelli colpiti a Gaza e nelle aree vicine del Medio Oriente».

In piena sintonia, ancora una volta, con la denuncia prima di papa Francesco, che ha parlato addirittura di «genocidio», e poi di Leone XIV, il quale, smentendo le dichiarazioni del premier israeliano Netanyahu, ha denunciato la situazione drammatica di Gaza, dove, ha detto, «la popolazione civile è schiacciata dalla fame e continua ad essere esposta a violenze e morte».

No, i cristiani non sono tutti uguali. Non lo sono negli Stati Uniti e neppure in Italia, dove, addirittura tra gli stessi cattolici, sono evidenti differenze radicali. Le parole chiarissime degli ultimi due pontefici sul tema dei migranti e su quello di Gaza sono state finora ignorate dal nostro governo, al cui vertice stanno leader che ad ogni occasione e ostentano la loro fede religiosa e la loro vicinanza ai papi. Anche se il loro modello è, dichiaratamente, il presidente americano, di cui ricalcano la politica di deportazione e, soprattutto, l’atteggiamento sprezzante verso quanti considerano, per usare le parole di mons. Seitz, “criminali” o “invasori”. Per quanto ci riguarda, noi stiamo col papa.

www.tuttavia.eu 

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GUERRA ! GUERRA !


IL GRANDE INGANNO

 Una bella notizia, che farà inorridire i patriottici, è pubblicata da Avvenire del 3 dicembre.



- di Severino Dianich 

Alla domanda, proposta dall’Autorìtà garante per l’infanzia e l’adolescenza a un campione di adolescenti (14-18enni): «Se il mio Paese entrasse in guerra, mi sentirei responsabile e, se servisse, mi arruolereì. Quanto sei d’accordo con questa affermazione?”, il 68% dei ragazzi ha risposto di non essere d’accordo. 

Si potrebbe anche dire che non è una bella notizia, perché testimonierebbe la diffusa e preoccupante fragilità dei nostri ragazzi. Ma è una bella notizia venire a sapere che la nuova generazione ha demitizzato i sedicenti valori della guerra, prendendo coscienza dell’insensatezza dei suoi orrori e della sua fondamentale schifezza. 

Al di là della sensazione immediata, derivante dalla visione dei suoi effetti disastrosi, resta necessario, però. fare un passo in avanti: sbugiardare le ragioni della guerra. 

Dietro ogni mitragliata sparata per la difesa della patria, da un lato, sul fronte e sotto le macerie dei bombardamenti, cadono i morti e, dall’altro lato, piovono i dollari e i dividendi nelle tasche dei signori della guerra. I proiettili costano e chi li ha venduti ci ha guadagnato. Una sola scarica di mitraglia, affidandoci alle stime abitualmente diffuse, può costare fino a 20 euro. Un solo soldato, in una giornata di sparatoria di bassa intensità, può farci spendere fino a mille euro al giorno. Sono mille euro che, ovviamente, vanno a finire nelle tasche di qualcuno. 

Pur lasciando all’IA di chatgpt la responsabilità ultima della veridicità dei dati, è utile vedere la scheda che ce ne viene fornita a proposito della crescita dei dividendi, avvenuta nell’arco di un anno, in favore di chi investe nelle società che producono armi: RTX +45%; Leonardo +79.8%; General Dynamics +22%; Northrop Grumman +16%; L3Harris +15-16%. 

Sono dati, ovviamente, che non ignorano né il presidente Macron che sta preparando, come da lui stesso è stato dichiarato, la popolazione del suo paese alla guerra, né il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, il generale Carmine Masiello che, sulla stessa linea, in un’intervista del 2 ottobre 2025, ha ammonito gli italiani che «se si va in guerra non combatte solo l’Esercito, combatte l’Italia intera». 

Da Macron i francesi, e dal generale Masiello gli italiani, hanno il diritto di sapere se essi, mandandoci in guerra per l’Ucraina, sono sicuri di vincerla e se il prezzo da pagare per vincerla, il numero dei morti, sia in qualche modo proporzionato al valore dell’indipendenza e della libertà dell’Ucraina, che si intende tutelare. 

Si dice che, in realtà, è l’Europa chiamata a difendere se stessa dalle mire espansionistiche di Putin, ma i popoli hanno buona memoria e non dimenticano di essere già stati ingannati su presunti pericoli, che poi si sono svelati non veri, quando l’amministrazione Bush, per giustificare la seconda Guerra del Golfo, con i suoi 13.000 morti solo fra gli irakeni, sosteneva essere necessario neutralizzare Saddam, perché egli possedeva armi chimiche e biologiche, cosa che risultò non vera. 

Progettare una guerra senza prevedere i morti che costerà, per un politico e un militare, è immorale già in partenza, perché chi progetta una guerra pretendendo che venga considerata giusta, deve, prima di tutto, poter esibire la certezza che la vincerà, e poi che il numero dei morti previsto è, per quanto mai lo si possa dire con un minimo di decenza, proporzionato al valore da difendere, l’indipendenza e la libertà del paese. 

Anche questi, pur altissimi, valori non sono un valore assoluto e l’Ucraina, con i suoi 39 milioni e mezzo di abitanti corre il rischio di veder morire la maggioranza della sua popolazione, mentre la Russia resta in grado di attingere coscritti dai suoi 143 milioni e mezzo di abitanti, tanti quanti le sono necessari per continuare la guerra. 

È notorio e assodato che, a guerra finita, appurare il numero dei morti è impresa molto difficile, non solo per le difficoltà obiettive di registrare puntualmente tutti i dati degli eventi che occorrono, ma anche, e soprattutto, perché i governi li occultano. Ben si sa che la verità e le garanzie costituzionali di un regime democratico sono fra le prime vittime della guerra. Caso mai i governi pubblicano vistosamente, e maggiorandolo, il numero dei morti del fronte opposto. 

Eppure, anche Gesù, per suggerire agli aspiranti discepoli suoi di fare bene i conti sul prezzo che dovranno pagare per seguirlo, invitava a domandarsi se mai un re, «partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace» (Lc 14,31-32). Se oggi questa saggezza degli antichi viene dimenticata, è perché sotto le ragioni fasulle, accampate per giustificarla, ci sono le ragioni nascoste di chi ci guadagna. 

Impostando la riflessione a proposito della guerra e della pace sulla base concreta delle cose che accadono e non solo su argomentazioni di carattere teoretico, sembra di dover dire che quanti intendono promuovere le politiche di pace debbano, prima di tutto, studiare la guerra e metterne a nudo il grande inganno.

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LABORATORIO DI CULTURA E DIALOGO

 

Religione cattolica a scuola: oltre l’80% degli studenti sceglie l’Irc in un contesto di pluralismo religioso e migrazioni. 

Di Andrea Carlino

 

La Conferenza Episcopale Italiana ha pubblicato la nota pastorale “L’insegnamento della religione cattolica: laboratorio di cultura e dialogo”, approvata dall’81ª Assemblea Generale svolta ad Assisi dal 17 al 20 novembre scorso.

Il documento esce a quarant’anni dalla firma dell’Intesa che dava attuazione all’Accordo di revisione del Concordato lateranense in materia di insegnamento della religione cattolica e a trentaquattro anni dalla prima nota pastorale del 1991. Il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha firmato la presentazione del testo che colloca l’Irc “in un contesto attraversato da mutamenti rapidi: flussi migratori, pluralismo religioso, secolarizzazione crescente, intelligenza artificiale”. La nota si propone di “fare il punto della situazione e richiamare l’attenzione sull’Irc, volendo evidenziare e rilanciare il suo servizio alla scuola” secondo quanto dichiarato nella presentazione ufficiale. Il documento conferma “la validità di una presenza scolastica che rispetta la libertà di coscienza di tutti e assicura un fondamentale servizio educativo”.

L’apertura al dialogo interreligioso e la dimensione culturale dell’Irc

La nota pastorale si articola in quattro capitoli che descrivono il “cambiamento d’epoca”, la natura istituzionale dell’Irc, la figura dell’insegnante di religione e i rapporti con la comunità ecclesiale. L’Irc “ha saputo aprirsi al confronto e al dialogo proprio grazie all’identità che la contraddistingue, che ne valorizza la portata culturale e formativa” secondo il testo della Cei. Il documento evidenzia come l’insegnamento “ha saputo trasformarsi e rinnovarsi, rispondendo negli anni alle domande della scuola e della società italiana”. La Conferenza Episcopale cita come esempio di apertura le schede per conoscere l’Ebraismo e l’Islam, predisposte dagli uffici della Segreteria Generale “rispettivamente con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e il Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica, in vista della redazione dei libri scolastici e della formazione degli insegnanti di religione“. Papa Leone XIV ha affermato il 27 ottobre 2025, all’apertura del Giubileo del mondo educativo, che “chi studia si eleva, allarga i propri orizzonti e le proprie prospettive, per recuperare uno sguardo che non si fissa solo in basso, ma è capace di guardare in alto: verso Dio, verso gli altri, verso il mistero della vita”.

Le criticità organizzative e i segnali di vitalità del servizio scolastico

Il numero di avvalentisi dell’Irc supera l’80% a livello nazionale secondo i dati riportati nella nota pastorale. Il documento “non trascura le difficoltà presenti soprattutto nella gestione organizzativa e nell’applicazione della normativa specifica da parte delle scuole”. La Cei sottolinea che “continua a far pensare la possibilità offerta agli alunni più grandi di poter uscire da scuola privandosi di un’occasione formativa quale l’Irc o l’attività alternativa”. I segnali di vitalità risultano superiori alle criticità e mostrano come “l’Irc si confermi uno strumento di arricchimento culturale, di attenzione educativa, di dialogo sincero con tutte le istanze provenienti dal mondo contemporaneo”. La nota definisce l’insegnamento della religione cattolica “un segno importante di quelle alleanze educative tra famiglia, scuola e comunità ecclesiale”. Il cardinale Zuppi ha precisato che “ogni componente della comunità ecclesiale locale deve impegnarsi per la piena realizzazione di questo servizio che è parte integrante della piena promozione culturale dell’uomo e del bene del paese”. La consultazione che ha preceduto l’approvazione del documento ha coinvolto tutte le diocesi italiane.

Orizzonte scuola

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CEI – RELIGIONE A SCUOLA