mercoledì 24 dicembre 2025

UN NEONATO INFREDDOLITO

 


Dove nasce

 Gesù oggi


Chi crede nella divinità 

di Cristo è chiamato

 a ricordare che

 duemila anni fa il Creatore delle galassie

 ha assunto la nostra inerme umanità

 nella sua forma più estrema, quella di un neonato infreddolito,

 rischiando di morire assiderato come  i bambini di Gaza.

-di Giuseppe Savagnone 

Dal Natale al solstizio d’inverno

Del Natale, in questi giorni, come ogni anno, sono piene le nostre strade, con le vetrine illuminate, gli addobbi più o meno ricchi, la folla di persone che escono per comprare. Ma in questa festa – forse la più sentita dell’anno – chi è assente è proprio festeggiato. Sembra essere sparito Gesù.

Il problema, in realtà, non è nuovo. Da sempre il Natale è stato esposto al rischio di vedere subordinata la sua valenza propriamente religiosa a una costellazione di valori umani che da un lato ne erano l’espressione, dall’altro però lo banalizzavano, diventando così la festa del buonismo, della famiglia e dello scambio dei regali. E tuttavia le tracce del suo originario significato rimanevano in una fede diffusa, anche se spesso abitudinaria e tradizionalista, che faceva riempire  le chiese per la veglia natalizia .

Da quando  il consumismo si è impadronito delle festività cristiane per trasformarle in occasioni di marketing, anche il Natale ha progressivamente  perduto il suo riferimento alla nascita del Salvatore. In alcuni paesi europei anche la dizione è stata cambiata in quella di “festa del solstizio d’inverno”, rinunziando perfino alla menzione dell’evento celebrato nella tradizione cristiana.

Nella stessa direzione vanno – di sicuro senza averne l’intenzione – gli odierni tentativi di rinnovare lo stesso cristianesimo rinunziando all’unicità e irripetibilità  di quell’evento. Dio non sarebbe “Altro” dal mondo. È la tesi di chi sostiene che «il  Logos incarnato non va inteso nella sua esclusività dell’uomo Gesù ma comprende e si estende a tutto il creato» (P. Gamberini).

E, a questo punto, non avrebbe neppure senso parlare di un momento della storia in cui è nato il Salvatore. E, del resto, non ce ne sarebbe bisogno. Per gli essere umani «il mezzo salvifico è l’etica, è la vita buona, è la vita giusta. Questa etica professata e vissuta non fa altro che esprimere una logica eterna», (V. Mancuso), immanente alla realtà del mondo e d cui dobbiamo solo prendere coscienza, non l’irrompere di qualcosa di nuovo, di Qualcuno che “viene” tra noi. 

In questa visione ormai diffusa, di cui la perdita di significato del Natale è espressione, ad essere in gioco non è solo il nostro modo di guardare a Cristo, ma quello di vedere noi stessi e la nostra vita. Essa rispecchia, infatti, una idea –  propria dell’antichità e riproposta, alle origini dell’epoca post-moderna, da Nietzsche – , secondo cui la salvezza non può venire dalla storia, concepita, sul modello della natura, come un “eterno ritorno”, ma deve avere una portata cosmica. Non c’ è posto, in quest’ottica, per  l’unicità e la novità di un evento in cui Dio si manifesta, perché Egli ci parla nell’universalità dei fenomeni e della nostra coscienza.  

I cristiani, utilizzando per la celebrazione della nascita di Gesù,  la festa pagana del Natalis Solis invicti, che cadeva ciclicamente alla fine di dicembre,  hanno sancito precisamente la rivoluzione culturale e spirituale che oggi si sta cercando – con successo – di annullare.

 Chi lo fa non si rende conto che sostituire la festa del solstizio d’inverno al Natale significa sostituire una visione immutabile del destino umano alla fiducia che qualcosa di radicalmente nuovo possa accadere, anzi sia già accaduto in quella lontana notte di duemila anni fa, e operi ormai incessantemente, pur senza rumore, per trasformare la nostra vita a livello sia personale che comunitario.

Ma davvero Dio è venuto nella nostra storia?

Certo, bisogna ammettere che per credere nel Natale oggi bisogna avere molto coraggio. Del Messia i profeti avevano parlato come di colui che avrebbe, a nome di Dio, instaurato un regno di pace e di giustizia destinato a durare per sempre. Come si legge nel libro di Isaia:

«Egli sarà giudice fra le genti/e arbitro fra molti popoli./Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,/ delle loro lance faranno falci;/una nazione non alzerà più la spada/contro un’altra nazione,/non impareranno più l’arte della guerra» (Is 2,4).

Se si guarda a questa promessa alla luce della escalation della violenza  e dell’ingiustizia di cui siamo stati spettatori in questi mesi e dilaganti anche in questo periodo natalizio, –  si è portati a condividere un racconto della tradizione ebraica, in cui  si narra che un pio ebreo un giorno si recò dal proprio rabbi per confessargli di avere la terribile tentazione di farsi cristiano. «E se fosse davvero venuto?».

Il rabbi, dice il racconto, rimase in silenzio. Con una mano, scostò la tenda e guardò fuori. In strada un povero mendicante cencioso chiedeva l’elemosina, , un uomo picchiava un bambino, un ricco in abiti di lusso passava impettito, riverito da tutti. Lasciò ricadere la tenda e disse: «No, non è venuto».

Possiamo ancora credere nel Natale oggi, dopo quello che è successo a, che continua a succedere, in Ucraina, a Gaza? Non siamo costretti anche noi, come il saggio rabbi ebreo, a constatare con rassegnata tristezza: «No, non è venuto»?

A metterci in guardia dall’equivoco è la festa, subito seguente a quella del Natale, in cui si ricorda la strage degli innocenti. Il vangelo non ha mai avallato l’illusione che la nascita di Gesù dovesse eliminare il male dalla storia con un colpo di bacchetta magica. E le stesse condizioni di questa nascita, nella emarginazione e nella povertà, con la successiva fuga in Egitto, da povero rifugiato, la smentivano evidentemente.

Il Natale non segna l’avvento del Messia vittorioso atteso dalla maggior parte degli ebrei. In tutta la sua missione Gesù ha voluto prendere decisamente le distanze da questa figura. E la parabola del grano e della zizzania, destinati a crescere insieme fino alla fine dei tempi, è più eloquente di qualunque filosofia della storia.

Dio è venuto tra noi mettendosi dalla parte dei civili ucraini torturati e uccisi a Bucha, dei palestinesi bombardati, cacciati dalla loro terra, massacrati, degli sfollati del Sudan, dei migranti trattenuti nei campi di tensione libici o annegati nel Mediterraneo.

Il silenzio del Natale

Ma il Natale significa che nella profondità della storia operano ormai forze che non fanno rumore – come sono quelle della verità e dell’amore – e che, a dispetto  della loro apparente irrilevanza, continuano l’evento salvifico della venuta di Dio nel nostro mondo.

Oggi siamo tentati di credere che la storia stia dando ragione ai terroristi, agli arroganti, ai narcisisti, e che la sola possibilità di opporsi a loro  è di farlo con lo stesso spirito di odio e di violenza. Il Natale ci sfida a rifiutare questa logica. In realtà, la sola cosa peggiore di un mondo dove i fanatici e i prepotenti dilagano sarebbe un mondo dove, per combatterli, noi stessi ci riduciamo a diventare come loro.

Chi crede nella divinità di Cristo è chiamato a ricordare che duemila anni fa il Creatore delle galassie ha assunto la nostra inerme umanità nella sua forma più estrema, quella di un neonato infreddolito, rischiando di morire assiderato come  i bambini di Gaza.

Gesù ancora oggi nasce là, tra i poveri ucraini senza riscaldamento nel rigido inverno del loro paese, nelle tendopoli allagate della Striscia, negli sforzi dei medici e degli operatori umanitari che a rischio della vita restano accanto a questi disperati cercando di mantenerli in vita. In questa miseria, in questa impotenza – non nei trionfi dei grandi della terra – , si manifesta tutta la gloria di Dio.

Perciò non dobbiamo meravigliarci se, anche a Natale, il chiasso del circo mediatico e dei proclami dei politici domina incontrastato. Le cose grandi maturano nel silenzio. Nel silenzio Dio si è fatto uomo. E là ci chiede di incontrarlo e di continuare, con i nostri poveri sforzi, la sua incarnazione.

 www.tuttavia.eu

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QUALE SOSTEGNO ?


Per il Consiglio d'Europa l'Italia viola i diritti degli insegnanti di sostegno

Il Comitato europeo dei diritti sociali: ci sono miglioramenti, ma ancora troppa precarietà e non sono garantiti i diritti degli alunni con disabilità

 

di Paolo Ferrario

 

L’Italia nega il diritto degli insegnanti di sostegno ad un contratto di lavoro stabile e ad una formazione adeguata alla delicata funzione ricoperta e, allo stesso tempo, viola anche il diritto degli alunni con disabilità ad un’effettiva e compiuta inclusione scolastica e sociale. Lo scrive il Comitato europeo dei diritti sociali, organo del Consiglio d’Europa, accogliendo il reclamo contro l’Italia presentato nel 2021 dal sindacato autonomo Anief. Pur riconoscendo gli sforzi del Governo per migliorare la situazione (come, per esempio, i 50mila insegnanti di sostegno precari confermati nel proprio posto quest’anno per la prima volta), il Comitato ricorda la pesante situazione in cui versa ancora il sostegno scolastico nel nostro Paese.

Sono soprattutto due i dati messi sotto osservazione dal Comitato: l’elevato numero di docenti di sostegno precari (circa il 50% del totale) e l’alta percentuale di insegnanti incaricati seppur privi di specializzazione sul sostegno (il 27% secondo l’Istat). Per queste ragioni, secondo il Comitato europeo dei diritti sociali, l’Italia viola il diritto degli insegnanti di sostegno «a guadagnarsi la vita con un lavoro liberamente intrapreso» perché, appunto, «un’elevata percentuale è assunta con contratti precari» e un terzo circa, come detto, non ha potuto seguire la formazione necessaria per fare questo lavoro.

Contemporaneamente il Comitato, che evidenzia di aver esaminato la situazione fino al 19 marzo 2025, è giunto unanimemente alla conclusione che, proprio per queste problematiche irrisolte, nel Paese è violato anche il diritto a un’istruzione inclusiva degli alunni con disabilità.

Nella decisione il Comitato evidenzia poi che «il Governo riconosce che un gran numero di insegnanti di sostegno hanno un impiego precario», ma che da Roma si «sottolinea che il ricorso a contratti a tempo determinato nel settore dell’istruzione in generale, e nel campo del sostegno in particolare, è in parte inevitabile, data la difficoltà di prevedere in anticipo le esigenze specifiche a causa di numerose variabili quali il numero di alunni con disabilità e bisogni speciali che arrivano e lasciano la scuola, le richieste di trasferimento degli insegnanti, i congedi per malattia, i pensionamenti».

Il Governo italiano, scrive il comitato, «respinge pertanto con forza l’argomentazione secondo cui vi sarebbe una discrepanza tra il numero di posti assegnati e le esigenze effettive».

Nelle sue conclusioni il Comitato europeo dei diritti sociali indica, quindi, che la situazione è migliorata sotto diversi profili, anche quello legislativo, da quando l’Anief ha presentato il ricorso nel 2021. Strasburgo evidenzia che i dati a sua disposizione «dimostrano un impegno significativo da parte del Governo nel soddisfare la richiesta di sostegno per un numero crescente di alunni con disabilità». Facendo riferimento ai dati dell’Istat e quelli forniti dal governo, il comitato scrive che dall’anno scolastico 2010/2011 a quello 2022/2023 gli alunni con disabilità sono aumentati del 243%, passando da 139mila a 338mila e il numero degli insegnanti di sostegno è cresciuto del 248%, aumentando da 94.430 a 234.460.

«Tuttavia – osserva sempre il Comitato – questo aumento degli insegnanti di sostegno è in gran parte dovuto a un forte incremento dei contratti a tempo determinato, passati dal 4,19% nel 2010/2011 al 46,18% nel 2023/2024».

Strasburgo evidenzia anche di aver messo in conto che «per l’anno scolastico 2024/2025 è stata istituita una procedura di assunzione straordinaria per contribuire a ridurre la precarietà dell’occupazione degli insegnanti di sostegno», ma aggiunge che siccome «la nuova procedura non è stata ancora pienamente attuata non ha modo di valutarne l’impatto». Sul fronte della formazione, infine, il Comitato afferma che «pur riconoscendo gli sforzi compiuti dal Governo per aumentare l’offerta formativa e semplificarne l’accesso, secondo i dati ufficiali dell’Istat del febbraio 2024, un insegnante di sostegno su tre non ha completato la specializzazione richiesta».

Alla luce del pronunciamento del Comitato europeo dei diritti sociali, Anief chiede interventi correttivi in tempi brevi.

«Il Parlamento ora autorizzi tutte le immissioni in ruolo sui posti in deroga assegnati da diversi anni alle scuole – dichiara il presidente nazionale, Marcello Pacifico – e non si fermi, per ottenere la continuità didattica, alla conferma delle cattedre da parte delle famiglie. Nell’ultimo anno, infatti, sono stati autorizzati poco meno di 2mila posti in più in organico di diritto, la metà dei posti effettivamente utilizzati per garantire il diritto allo studio mentre, per la prima volta, 50mila supplenti sono stati confermati dalle famiglie. È un risultato che ci inorgoglisce – sottolinea Pacifico – perché rappresenta una risposta fondamentale per vincere, dopo anni di ricorsi e denunce anche all’Unione europea, la nostra battaglia contro l’abuso dei contratti a termine sui posti in deroga, per aumentare il numero di docenti specializzati rispetto all’errato numero programmato degli Atenei, per assegnare tutte le ore di sostegno riconosciute dal Pei».

Sulla decisione del Comitato europeo dei diritti sociali, prende posizione anche la segretaria generale Snals-Confsal, Elvira Serafini: «Non è più accettabile che il diritto allo studio degli alunni con disabilità sia subordinato a un sistema fondato sulla precarietà strutturale. Servono interventi immediati e non più rinviabili».

Per il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, «le conclusioni del comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa», confermano «che la situazione in Italia è migliorata sotto diversi profili, anche quello legislativo, rispetto a quando l’Anief ha presentato il ricorso nel 2021». «Il Consiglio d’Europa – ribadisce Valditara – ha riconosciuto, infatti, un impegno significativo da parte di questo Governo nel soddisfare la richiesta di sostegno per un numero crescente di alunni con disabilità. Il Comitato dà inoltre atto al Governo delle recenti misure sulla conferma del docente supplente di sostegno e sui nuovi percorsi di specializzazione dell’Indire: misure che ho fortemente voluto per dare risposte concrete ai giovani e alle loro famiglie. Tutto questo dimostra che, rispetto al 2021, anno di presentazione del ricorso, il quadro è in netto miglioramento nonostante la situazione di grave inadeguatezza strutturale che abbiamo ereditato».


Scopri anche

www.avvenire.it

 

 


TRASMETTERE IL DESIDERIO

 



“La scuola deve

 trasmettere 

il desiderio 

per contrastare

 il disagio giovanile”. 


Insegnanti chiamati a testimoniare passione e vocazione in aula

 

-di Andrea Carlino

 

Lo psicoanalista Massimo Recalcati ha presentato al Festival Internazionale dell’Economia 2025 di Torino una lettura del disagio giovanile basata su 35 anni di ricerca clinica.

 L’analisi collega la sofferenza psichica delle nuove generazioni alle trasformazioni sociali ed economiche contemporanee. Il quadro delineato evidenzia come il malessere giovanile non rappresenti una colpa individuale ma il sintomo di una società che ha smarrito il senso della Legge.

Neolibertinismo e neomelanconia: i due paradigmi del malessere

Recalcati identifica due modelli dominanti che definiscono la condizione attuale dei giovani. Il paradigma neolibertino si fonda sul “discorso del capitalista” e produce legami sociali frammentati. Il consumo compulsivo di oggetti-gadget sostituisce il desiderio autentico e genera una “clinica dell’antiamore” in cui i giovani cercano rifugio nelle dipendenze per evitare l’incontro reale con l’altro. Il paradigma securitario rappresenta la seconda polarità e si manifesta come ritiro dalla vita. Il fenomeno degli Hikikomori esemplifica questa tendenza: molti giovani scelgono di uscire dalla scena sociale, spaventati dalla competizione e dal principio di prestazione. Il ritiro produce una “glaciazione delle passioni” attraverso l’innalzamento di mura psichiche.

Il ruolo della scuola nella trasmissione del desiderio

La scuola deve trasformarsi in luogo di testimonianza per superare le forme di schiavitù descritte. Recalcati distingue il capriccio dal desiderio, che nella psicoanalisi “assomiglia alla vocazione: una potenza indistruttibile che orienta la vita e trasforma il dovere in una manifestazione del proprio talento”. La trasmissione del sapere avviene per contagio: gli studenti necessitano di adulti che testimonino con la propria vita la possibilità di vivere “accesi”. 

Gli insegnanti entrati in aula annoiati o senza desiderio non riescono a trasmettere il fuoco del sapere. 

Le organizzazioni scolastiche devono abbandonare il privilegio del rendimento quantitativo per valorizzare il soggetto nella sua unicità, passando dalla cura del numero alla cura del “nome proprio”. Gli adulti sono chiamati a sostenere la “follia” del desiderio dei figli anche quando questo implica lo scioglimento dei legami familiari.

 Orizzonte Scuola

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UNA SPERANZA RAGIONEVOLE

 


La speranza 

contro 

la facile abitudine

 

Testimone degli sforzi di molti per resistere alla disperazione, Svetlana Panič condivide la sua riflessione su cosa significhi sperare oggi, riscoprendo la novità insita in ogni cosa. Pubblichiamo un estratto dell’incontro tenutosi a Varese il 3 novembre 2025.

 

-di Svetlana Panič *

 

«Benché prossimo alla tomba
Io credo, verrà il tempo in cui
La forza dell’astio e della viltà
Sarà vinta dallo spirito del bene»

(B. Pasternak, Premio Nobel, 1959)

È molto difficile e impegnativo dire in cosa consista per noi la speranza, intesa non come ideale ingenuo, né come virtù astratta, ma come la speranza ragionevole, sobria, lucida, «senza vergogna» di cui parla san Paolo, la sola a cui ora possiamo aggrapparci.

La prima difficoltà che si presenta è che non è chiaro come parlarne. È del tutto evidente che noi, generazione che vive i primi decenni del XXI secolo, eravamo convinti di aver imparato la lezione delle catastrofi del secolo precedente, pensavamo di essere tecnologicamente e psicologicamente più illuminati e per certi versi anche più umani, consapevoli della fragilità dell’uomo e del mondo.

Ma non eravamo affatto preparati né alla pandemia, né alla “svolta a destra”, né al fatto che ci saremmo trovati nel mezzo di due guerre che hanno sconvolto tutte le nostre convinzioni, apparentemente consolidate nella seconda metà del XX secolo. Si è scoperto che non abbiamo un linguaggio per descrivere tutto questo. Il linguaggio politico e sociologico forse si sta sviluppando, ma non esiste ancora un linguaggio teologico, una narrativa cristiana che riesca a dire qualcosa se non di profetico, quanto meno di consolatorio e rassicurante.

Anche la tradizionale narrativa cristiana sulla consolazione e sulla speranza, come si è visto, non funziona più, quel linguaggio non era pronto a descrivere ciò che sta accadendo ora a noi e al mondo.

Si potrebbe così cadere nella disperazione di un “nuovo mutismo”, ma, fortunatamente, abbiamo maestri di speranza che hanno vissuto in tempi non meno catastrofici, e Boris Pasternak è uno di loro. Il 14 agosto 1946 fu emanata la risoluzione contro le riviste Zvezda e Leningrad, dichiarate portavoce di «un’ideologia estranea allo spirito del partito» e iniziarono le persecuzioni contro Anna Achmatova, altri poeti e scrittori «privi di idee». Pasternak era ben consapevole che questa volta le persecuzioni avrebbero colpito anche lui, ed era ormai evidente che le aspettative di un miglioramento sociale con la fine della guerra non si sarebbero realizzate. Inoltre, apprese della morte dei suoi amici più cari, in guerra o per mano dei carnefici di Stalin. Di questo periodo Pasternak racconterà dieci anni dopo, in una poesia rivolta al principale protagonista delle sue liriche, l’anima, con cui instaura un dialogo, come nella tradizione salmodica:

Anima mia che trepidi
per quelli che mi attorniano,
sei divenuta il loculo
dei martoriati vivi.

[…]

nel nostro tempo egoistico
per scrupolo e paura,
come urna funeraria
tu ne ospiti le ceneri. 

(B. Pasternak, Anima, 1956).

Eppure, negli stessi anni scrive anche:

«Si potrà vincere la morte
Con lo sforzo della resurrezione»

 (B. Pasternak Nella settimana santa, 1948).

O, come recita la poesia Premio Nobel [citata in esergo] scritta nel pieno della persecuzione sovietica per essere stato insignito del prestigioso premio internazionale:

«La forza dell’astio e della viltà
Sarà vinta dallo spirito del bene» 

(B. Pasternak, Premio Nobel, 1959).

Ora, rileggendo questi versi nel mezzo dell’attuale «viltà e astio», che minacciano una catastrofe antropologica,

viene spontaneo chiedersi: da dove veniva la certezza che «lo spirito del bene» sicuramente prevarrà, quando la realtà sembra smentirlo completamente?

Qui viene in aiuto un altro «maestro di speranza», Charles Péguy, il quale scriveva che la speranza non si contrappone allo scoraggiamento, ma all’abitudine, al rifiuto della novità, perché «la cosa facile e la tendenza è disperare» (Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, 1911).

Ricordiamo che per Péguy la speranza è una bambina «piccola» e «debole», per nulla vivace, positiva e ottimista nel senso inteso dalla cultura popolare e dalla psicologia di massa. È una creatura piuttosto vulnerabile, «vacillante al soffio del peccato, tremante a tutti i venti» e allo stesso tempo «stabile, fedele, dritta, pura, invincibile», ricorda la Sapienza biblica, ma allo stesso tempo, come ogni bambino incorrotto, è pronta ad aprirsi al nuovo e allo stupore.

«E la mia piccola speranza
ogni giorno si alza dal suo lettino e
ci dice: buongiorno!»
 

(Charles Péguy, Il mistero dei santi innocenti, 1919).

Questa apertura al «buongiorno», cioè alla novità, è lo «sforzo della resurrezione» di cui parla Pasternak. Nella tradizione ebraica esiste una benedizione speciale per le novità, che inizia con un ringraziamento ad Hashem [il Nome di Dio] per averci protetto e averci permesso di arrivare al giorno in cui possiamo indossare un vestito nuovo o mangiare il primo arancio dell’anno, incontrare una persona nuova.

C’è anche una preghiera speciale in cui si chiede: «aiutaci a vivere la novità di ogni giorno». Questa novità può essere rischiosa, difficile, a volte sembra che sarebbe meglio se non ci fosse e tutto rimanesse com’è. Ma ogni mattina dico a me stessa che, pensandoci bene, questo è il primo giorno, che non c’è mai stato prima né ci sarà più, e in esso si compie la storia, come una domanda rivolta a me, sul mio coinvolgimento e la mia collaborazione in questa storia.

E ricordiamo ancora una volta Péguy:

«E la mia piccola speranza
Ogni sera si corica nel lettino
E, dopo aver recitato le preghiere della sera, dorme tranquilla,
Per accogliere il mattino che sorge
Con una nuova parola e una nuova preghiera».

Cos’altro si può definire «sforzo della resurrezione»? Lo sforzo ascetico, cioè che richiede il rigore e la costanza di raccogliere «i frammenti della propria mente sbriciolata a poco a poco dai macigni delle «ultime notizie», e di cercare di comprendere la realtà rifiutando le stigmatizzazioni e le generalizzazioni ideologiche come «tutti loro» («russi, ucraini, abitanti di Gaza, israeliani»), molto vantaggiose per la propaganda dei regimi totalitari. In altre parole, è lo sforzo di rifiutare le abitudini, questa volta intellettuali, lo sforzo di rinunciare alle illusioni di onniscienza e di onnicomprensione per lasciare spazio agli interrogativi.

È, infine, lo sforzo della compassione, dell’empatia e della solidarietà. E qui ci viene in aiuto un’altra maestra di speranza, madre Marija Skobcova, la santa di Parigi:

«Non pensare a cosa e a come, non puoi creare niente di più grande delle parole “amatevi gli uni gli altri”, ma fino in fondo e senza eccezioni, e allora tutto sarà perdonato e tutta la vita sarà santificata. Altrimenti sarà solo abominio e pesantezza».

 

La Nuova Europa

 

*Svetlana Panič

Filologa, è stata ricercatrice presso l’Istituto Solženicyn di Mosca fino al 2017, ora è traduttrice e ricercatrice indipendente.

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martedì 23 dicembre 2025

GESU', CONSUSTANZIALE AL PADRE


 "Gesù Cristo 

Figlio di Dio.


 L'attualità

 del Concilio di Nicea"


 - di  IRENE CANE  

La fraternità della Madia ha accolto molte persone venute ad ascoltare Massimo Cacciari. Fr. Enzo Bianchi ha presentato Cacciari, non solo come filosofo, ma soprattutto come voce morale capace di interpretare in profondità il tempo presente. “Il suo intervento – ha ricordato Bianchi – si colloca nel cammino spirituale che ci conduce al Natale, ma affronta un tema che riguarda tutti, credenti e non, poiché tocca le radici stesse della cultura europea e della sua idea di umanità”. 

 Massimo Cacciari ha invitato a riflettere sul significato del Concilio di Nicea, considerandolo un evento decisivo non solo per la teologia cristiana ma per l’intera civiltà europea. A Nicea, infatti, sono state definite le sorti dell’essenza del cristianesimo, con la domanda fondamentale rivolta da Gesù ai suoi discepoli: «Chi credete che io sia?». Ed è proprio dal tentativo di rispondere a questa domanda, che si è aperta una frattura decisiva. 

 La controversia che condusse al Concilio nacque dal tentativo di definire il rapporto tra il Figlio e il Padre e trovò la sua espressione più radicale nella posizione di Ario, presbitero alessandrino, secondo il quale Gesù, pur essendo divino, non sarebbe Dio in senso pieno, ma una creatura generata dal Padre, a sua immagine e somiglianza, senza essere consustanziale a lui. 

Secondo Cacciari, questa impostazione difende l’unità assoluta di Dio, ma indebolisce il cuore dell’annuncio cristiano. Se il Figlio non è pienamente Dio, il cristianesimo perde la sua specificità: non avrebbe più senso chiamarsi “cristiani”, poiché la figura di Cristo si ridurrebbe ad un semplice strumento o intermediario del Padre. 

La decisione di Nicea, sostenuta in particolare da Atanasio il Grande, affermava invece l’omousia: Padre e Figlio sono della stessa sostanza, pur restando distinti come persone. Questa affermazione introdusse una concezione radicalmente nuova dell’unità. Non si tratta di un’unità astratta o monarchica, ma di un’unità che è relazione: Dio non è solitudine, ma comunione. Proprio questa impostazione rende necessaria la riflessione sullo Spirito, inteso come espressione della relazione viva tra Padre e Figlio. 

Secondo Cacciari, solo se il Figlio è pienamente Dio si può parlare di una salvezza autentica e di una reale divinizzazione dell’umano. 

Al tempo stesso, egli richiama un altro elemento essenziale del dogma: l’unità di Dio non è mai completamente dicibile, ma resta sempre oltre ciò che il linguaggio umano può esprimere. Dimenticare questo limite significherebbe ridurre la teologia ad un esercizio puramente razionale e smarrire il mistero che attraversa l’annuncio cristiano. 

 La soluzione di Nicea, conclude Massimo Cacciari, non offre una risposta semplice né rassicurante, perché afferma un paradosso che impedisce di ridurre Dio a uno schema logico chiuso. Dio è una relazione viva e, per questo, egli non si impone come potere assoluto: lascia spazio alla libertà, e quindi anche alla possibilità del rifiuto. 

In tal senso, Nicea ha inaugurato un’epoca in cui l’essere umano è chiamato a una relazione libera con Dio. Questa libertà può spingersi fino all’allontanamento e al tradimento, come nella parabola del figlio prodigo, ma non elimina mai la possibilità di un ritorno. L’attualità del Concilio di Nicea risiede proprio in questa visione della fede, come relazione libera e responsabile, che interpella l’umano di fronte al mistero di Dio senza costringerlo. Attendere il Signore nel nostro tempo. 

  Fonte: IL TORINESE 

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NATALE CON BONHOEFFER


 IL MIRACOLO
DELL'AMORE
DI DIO

«Soprattutto una cosa: non dovete pensare che io mi lasci abbattere da questo Natale in solitudine». Così Dietrich Bonhoeffer scriveva ai genitori il 17 dicembre 1943 dal carcere berlinese di Tegel, dove era stato rinchiuso con l’accusa di cospirazione contro il regime nazista. Fu messo in isolamento in una cella sudicia senza che nessuno gli rivolgesse la parola. La lettera continuava: «Guardando la cosa da un punto di vista cristiano, non può essere un problema particolare trascorrere un Natale nella cella di una prigione. Molti in questa casa celebreranno probabilmente un Natale più ricco di significato e più autentico di quanto non avvenga dove di questa festa non si conserva che il nome. Un prigioniero capisce meglio di qualunque altro che miseria, sofferenza, povertà, solitudine, mancanza di aiuto e colpa hanno agli occhi di Dio un significato completamente diverso che nel giudizio degli uomini; che Dio volge lo sguardo proprio verso coloro da cui gli uomini sono soliti distoglierlo; che Cristo nacque in una stalla perché non aveva trovato posto nell’albergo; tutto questo per un prigioniero è veramente un lieto annunzio» (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo [MI], Ed. Paoline, 1988, 324).

Rimase nel carcere di Tegel 18 mesi. Nell’ottobre del 1944 fu trasferito nel carcere della Gestapo in Prinz-Albrecht-Strasse per essere poi internato, il 7 febbraio 1945, nel campo di concentramento di Buchenwald. Il 9 aprile, nel campo di sterminio di Flossenburg, fu impiccato perché giudicato reo di cospirazione contro il Führer. Aveva 39 anni. Intuendo prossima la morte aveva detto: «È la fine – per me l’inizio della vita».

* * *

Il Natale in prigione

Nella lettera citata aveva affermato di voler ricordare il Natale in prigione «con un certo orgoglio». Si riferiva soprattutto all’orgoglio di sapersi nella sequela di Cristo, nato «in una stalla perché non aveva trovato posto nell’albergo». Neanche per D. Bonhoeffer, pastore della Confessione luterana, nemico dichiarato del regime nazista, c’era posto nella società dominante. Rifiutato come Cristo, e come Cristo giudicato colpevole. Per chi, come lui, aveva scelto Cristo come signore, centro e ideale della sua vita, l’essere «trattato come un pericoloso criminale», carcerato e ridotto al silenzio, autenticava la sua fede cristiana. Questa condizione — l’assimilazione a Cristo —, approfondita e sviluppata nei suoi elementi essenziali, costituisce l’anima della sua concezione religiosa: «L’uomo che Dio accoglie, giudica e fa risorgere a nuova vita è Gesù Cristo, e in lui l’umanità intera: siamo noi. Soltanto la persona di Gesù Cristo affronta vittoriosamente il mondo. Da questa persona, nasce e prende forma un mondo riconciliato con Dio» (D. Bonhoeffer, Etica, Milano, Bompiani, 1969, 69).

Nella nascita di Gesù Cristo, Dio si abbassa e si rivela: «Cristo nella mangiatoia […]. Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo, vi entra dentro […]. Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono “perduto”, lì egli dice “salvato”; dove gli uomini dicono “no”, lì egli dice “sì”. Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di amore ardente incomparabile. Dove gli uomini dicono “spregevole”, lì Dio esclama “beato”. Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, proprio lì Dio ci è vicino come mai lo era stato prima, lì egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il suo approssimarsi, affinché comprendiamo il miracolo del suo amore, della sua vicinanza e della sua grazia» («Sermone della 3a domenica di Avvento», in D. Bonhoeffer, Riconoscere Dio al centro della vita, Brescia, Queriniana, 2004, 12 s; d’ora in poi RD).

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Il Natale permette di comprendere questo miracolo.

Bonhoeffer lo ha compreso in maniera così viva da considerarlo la realtà della sua vita. Nella cella del carcere di Tegel ha appeso a un chiodo la corona dell’Avvento e attaccato la Natività del Lippi. La meditazione su Maria e sul Bambino della mangiatoia lo inonda di serenità; ricorda i Lieder cantati in famiglia, soprattutto questi versi: La mangiatoia splende luminosa e chiara, / la notte porta una luce nuova, / la tenebra non deve entrare, / la fede resta sempre nella luce (Resistenza e resa, cit., 214). Allora quel «buco» di prigione diventa una finestra spalancata sull’universo della fede, e l’oscurità è assorbita dalla luce di un mistero non semplicemente da ricordare, ma da celebrare.

«Il fatto che Dio elegge Maria a suo strumento, il fatto che Dio vuole venire personalmente in questo mondo nella mangiatoia di Betlemme, non è un idillio familiare, bensì è l’inizio di una conversione totale, di un riordinamento di tutte le cose di questa terra. Se vogliamo partecipare a questo evento dell’Avvento e del Natale, non possiamo stare semplicemente a guardare come spettatori in un teatro e godere delle belle immagini che ci passano davanti, bensì dobbiamo lasciarci coinvolgere nell’azione che qui si svolge, in questo capovolgimento di tutte le cose, dobbiamo recitare anche noi su questo palcoscenico; qui lo spettatore è sempre anche un attore del dramma, e noi non possiamo sottrarci» (RD, 14).

A questo punto Bonhoeffer si chiede il significato della scena offertaci dal Natale. Che cosa accade a Natale? «Il giudizio del mondo e la redenzione del mondo: ecco ciò che qui accade. Ed è lo stesso Bambin Gesù nella mangiatoia a compiere il giudizio e la redenzione del mondo». La conseguenza è perentoria: «Non possiamo accostarci alla sua mangiatoia come ci accostiamo alla culla di un altro bambino: a colui che vuole accostarsi alla sua mangiatoia succede qualcosa, perché da essa può allontanarsi di nuovo solo giudicato o redento, deve qui crollare oppure conoscere che la misericordia di Dio è a lui rivolta» (RD, 15).

Un Natale pagano

Celebrare il Natale «in maniera paganamente distaccata», considerarlo una «bella e pia leggenda», pensare che il discorso natalizio sia semplicemente «un modo di dire»: tutto ciò significa sganciarsi dalla Rivelazione e dalla Redenzione. Dio si fa bambino «non per trastullarsi, per giocare», ma per rivelarci che «il trono di Dio nel mondo non è nei troni umani, ma negli abissi e nelle profondità umane, nella mangiatoia». Attorno al suo trono non ha voluto i grandi della terra, ma personaggi oscuri e sconosciuti «che non si stancano di guardare questo miracolo e vogliono vivere completamente della misericordia di Dio». La mangiatoia e la croce sono le due realtà che determinano il destino dell’umanità. Dinanzi ad esse il coraggio dei grandi di questo mondo si dissolve, e al suo posto subentra la paura. In verità «nessun violento osa avvicinarsi alla mangiatoia, e neppure il re Erode l’ha fatto. Appunto perché qui vacillano i troni, cadono i violenti, precipitano i superbi, perché Dio è con gli infimi […]. Davanti a Maria, alla serva, alla mangiatoia di Cristo, davanti al Dio della bassezza il forte cade, non ha alcun diritto, alcuna speranza, è giudicato».

Tali considerazioni inducono a un leale esame di coscienza. «Alla luce della mangiatoia», che cosa è alto e che cosa è basso nella vita umana? Abbiamo lo stesso criterio del Signore nel formulare un giudizio in merito? «Ognuno di noi vive con persone che diciamo altolocate e con persone che diciamo di basso rango. Ognuno di noi ha sempre qualcuno che sta più in basso di lui. Ci aiuterà questo Natale a imparare ancora una volta a cambiare radicalmente idea su questo punto, a cambiare mentalità e a sapere che la nostra via, nella misura in cui deve essere una via verso Dio, non ci conduce verso l’alto, bensì in maniera molto reale verso il basso, verso i piccoli, e a sapere che ogni cammino tendente solo verso l’alto finisce necessariamente in maniera spaventosa?». La conclusione di Bonhoeffer è perentoria: «Dio non permette che ci si prenda gioco di lui (Gal 6,7). Non permette che celebriamo anno dopo anno il Natale senza fare sul serio. Egli mantiene sicuramente la sua parola, e a Natale, quando entrerà, con la sua gloria e con la sua potenza nella mangiatoia, rovescerà i violenti dai troni se finalmente, finalmente non si convertiranno» (RD, 18).

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Un bambino è nato per noi

Nell’altro sermone-meditazione del Natale 1940 Bonhoeffer si sofferma sul testo di Isaia (9,5-6): «Un bambino è nato per noi» e sugli appellativi con il quale il profeta lo qualifica. I toni elevati sono percorsi da brividi di commozione per la consapevolezza che l’oggi del profeta è anche il nostro oggi. Anche nel nostro tempo, così appesantito da colpe e da miserie, nasce un bambino che realizza la nostra redenzione. «La mia vita dipende adesso unicamente dal fatto che questo bambino è nato, che questo figlio ci è dato, che questo discendente di uomini, che questo Figlio di Dio mi appartiene, dal fatto che lo conosco, ce l’ho, lo amo, dal fatto che sono suo e che egli è mio» (RD, 26).

Dinanzi all’affermazione che «sulle deboli spalle di questo neonato poggia la sovranità su tutto il mondo», l’uomo del nostro tempo, sicuro di sé, forse riderà beffardamente; ma i credenti sanno che il Bambino di Betlemme è «Dio in forma umana». Sanno anche che la sovranità che poggia sulle sue spalle «consiste nel portare pazientemente gli uomini e la loro colpa. E tale portare comincia nella mangiatoia, comincia lì dove il Verbo eterno di Dio ha assunto la carne umana e l’ha portata».

Quali nomi dà il profeta a questo Bambino? Consigliere ammirabile: «Dal consiglio eterno di Dio è scaturita la nascita del bambino salvatore», che col suo amore ci conquista e ci salva. «Questo Figlio di Dio, dal momento che è il suo consigliere ammirabile, è anche una fonte di tutti i miracoli e di tutti i consigli». Dio potente: «Qui egli è povero come noi, misero e inerme come noi, un uomo di sangue e carne come noi, nostro fratello. E tuttavia è Dio, tuttavia è potente. Dov’è la divinità, dov’è la potenza di questo bambino? Nell’amore divino con cui divenne uguale a noi. La sua miseria nella mangiatoia è la sua potenza». Padre per sempre: in questo bambino si rivela l’amore eterno del Padre perché «il Figlio è una cosa sola con il Padre […]. Nato nel tempo, egli porta con sé l’eternità sulla terra». Principe della pace: «Dove Dio viene agli uomini e si unisce ad essi per amore, lì tra Dio e l’uomo, e tra uomo e uomo è conclusa la pace. Se temi l’ira di Dio, va’ dal bambino nella mangiatoia e lasciati ivi donare la pace di Dio. Se sei in lite con tuo fratello e lo odi, vieni e vedi come Dio è diventato per puro amore nostro fratello e ci vuole riconciliare fra di noi. Nel mondo regna la violenza, questo bambino è il principe della pace. Dov’egli è, lì regna la pace» (RD, 30).

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Coraggio e fede profonda

Occorreva coraggio e fede profonda per scrivere queste parole quando l’esercito hitleriano avanzava vittorioso su molte nazioni europee, convinto che Gott mit Uns, che Dio era con la razza ariana, che Dio era il Terzo Reich. Mentre molti intellettuali, scienziati e artisti erano emigrati perché consapevoli della fine di ogni libertà della cultura, lui — Bonhoeffer — era rientrato in Germania dagli Stati Uniti per aiutare la sua nazione a ritrovare la propria anima, la propria libertà, soprattutto a ricordarle dove si trovano le radici della pace. Karl Barth, suo maestro, aveva denunciato l’inconciliabilità del nazismo con il cristianesimo e abbandonato la Germania; Bonhoeffer, superando ogni timore, aveva deciso di restare accanto alla «Chiesa confessante» (die bekennende Kirche) di netta opposizione al nazismo. Al Terzo Reich opponeva il regno di Dio.

«Soltanto dove non si permette a Gesù di regnare, dove l’ostinazione, il dispetto, l’odio e l’avidità umana possono scatenarsi sfrenatamente non può esserci pace. Gesù non vuole il suo regno di pace con la violenza, bensì dona la sua pace mirabile a coloro che gli si sottomettono volontariamente e lo lasciano regnare sopra di sé […]. Un regno di pace e di giustizia, desiderio inappagato degli uomini, è cominciato con la nascita del bambino divino. Noi siamo chiamati a tal regno, e lo possiamo trovare se riceviamo nella Chiesa, nella comunità dei credenti, la parola e il sacramento del Signore Gesù Cristo, se ci sottoponiamo alla sua sovranità, se riconosciamo nel bambino posto nella mangiatoia il nostro salvatore e redentore e ci lasciamo da lui donare una nuova vita nell’amore» (RD, 32 s). Al Gott mit Uns dei nazisti il pastore luterano oppone il «Dio con noi, Gesù-Emanuele» del Natale.

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Dio si fa uomo per amore degli uomini.

 Celebriamo questo Natale in un periodo storico in qualche momento minacciato dalla strategia dell’orrore, sotto i cieli dell’insicurezza e dello sgomento anche se senza le tragedie immani della seconda guerra mondiale. Alcuni pensatori e scrittori, da tempo, hanno intonato il De profundis per l’umanità. Bonhoeffer è vissuto in tempi molto più oscuri del nostro. Invece del De profundis ha invitato gli uomini del suo tempo a contemplare la mangiatoia di Betlemme per poter intonare l’inno della speranza nonostante il grigiore dei tempi. Due suoi pensieri ne scandiscono le note: «La figura di colui che riconcilia, dell’Uomo-Dio Gesù Cristo, si interpone fra Dio e il mondo, e occupa il centro di tutti gli eventi. In lui è svelato il segreto del mondo e in lui si rivela il segreto di Dio. Nessun abisso del male può rimanere occulto a colui mediante il quale il mondo è riconciliato con Dio. Ma l’abisso dell’amore di Dio abbraccia anche la più abissale iniquità». «Dio si fa uomo per amore degli uomini. Non cerca il più perfetto degli uomini per unirsi a lui, ma assume la natura umana così com’è. Gesù Cristo non è un’umanità eccelsa trasfigurata, ma il “sì” di Dio all’uomo reale; non il “sì” spassionato del giudice ma il “sì” misericordioso del compagno di sofferenze. In questo “sì” è racchiusa la vita intera e l’intera speranza del mondo» (Etica, cit., 62 s).

   Civiltà Cattolica

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sabato 20 dicembre 2025

GLI STUDENTI PROTESTANO


INCONTRI 

DI 

FUTURO


Uno studente molto intelligente, diretto e quindi scomodo provoca l’insegnante con una protesta che fa riflettere

«Questo romanzo mi interessa di più» Se Mattia non segue la lezione del prof.

Ha quasi 18 anni, i voti migliori della classe e viene beccato a leggere Asimov durante le spiegazioni in aula 

«Credo di avere la capacità di scegliere come investire il mio tempo». E le regole?

-         di MARCO ERBA*

Le proteste degli studenti fanno sempre discutere, che siano gli universitari di medicina o i maturandi che si rifiutano di sostenere l’orale. Anche io, come prof, mi sono imbattuto nella mia carriera in diverse forme di protesta. Una delle più pittoresche, se così si può definire, fu quella di un mio allievo di quarta superiore, che fece infuriare un collega. Ricordo l’ingresso di quel docente in sala insegnanti: era furente e aveva ragione. Il ragazzo in questione era intelligentissimo, dotato di un elevato senso critico, ma a tratti anche duro, eccessivamente diretto; mai esplicitamente provocatorio, mai platealmente sgradevole, ma a volte scomodo o addirittura indisponente. Il collega raccontò l’accaduto. Stava spiegando e aveva notato che quell’allievo non seguiva. Lui, prof preparatissimo, molto deciso, appassionato, era subito intervenuto. L’allievo, che stava guardando sotto il banco, aveva alzato la testa. « Mattia, cosa stai facendo? Cos’hai lì sotto? ». Mattia, sereno, aveva risposto: «Questo!». E aveva alzato un romanzo di fantascienza di Isaac Asimov.

La sua naturalezza era riuscita a far restare il prof senza parole. Mattia aveva spiegato serafico: «Questo romanzo mi interessa più di quello che lei sta spiegando. Comunque studierò tutto sul libro, a casa, e nell’interrogazione prenderò un buon voto». Su quest’ultima affermazione non c’era alcun dubbio, dato che Mattia era uno degli studenti coi voti migliori della classe.

Ne era seguita una sacrosanta sfuriata, ma Mattia non si era scomposto minimamente, difendendo la sua posizione: se riteneva un argomento irrilevante per la propria vita, riteneva di avere il diritto di ignorarlo. Mi sentii subito dalla parte del mio collega, provai fastidio io stesso. Mi innervosiva l’atteggiamento di Mattia: se ognuno dei suoi compagni si fosse comportato come lui, noi prof come avremmo potuto fare lezione? Eppure, comprendevo che quella sua forma di contestazione, o forse semplicemente quella sua scelta, in qualche modo conteneva una provocazione utile. Per questo gli parlai. Lui accettò il confronto, come sempre. «Prof, ho quasi diciotto anni. Credo di avere la capacità di scegliere come investire al meglio il mio tempo, no?». «Sì, Mattia, però ci sono delle regole, dal cui rispetto dipende una condizione di lavoro serena per tutti, non credi?». «Certo. Io però non impedivo ai miei compagni interessati di seguire. Ero in perfetto silenzio».

« Ma pensa agli altri che ti vedevano! Il tuo atteggiamento ti sembra costruttivo?». « Perché, prof? Vedere uno che legge un romanzo distoglie chi è interessato da una spiegazione? ». « E l’insegnante? Sta spiegando, ce la mette tutta e vede uno che legge un romanzo sotto il banco!». « Mi sta dicendo che un prof che insegna da tanti anni si offende se uno studente non segue una sua lezione? O mi sta consigliando di fingere di seguire?». Niente: non ne cavai un ragno dal buco. 

La scorsa estate, quando alcuni studenti si sono rifiutati di sostenere l’esame orale della maturità in segno di protesta, mi è tornato in mente Mattia. Le sue affermazioni avevano qualcosa in comune con quella contestazione. Credo che la questione fondamentale sia questa: quanto la scuola tocca davvero la vita degli studenti? Quanto davvero li aiuta a crescere come persone? E quanto invece è, o viene percepita, come una noiosa imposizione, come un dovere arido, come una pressione volta alla prestazione pura? L’atteggiamento di Mattia con quel collega è assolutamente non condivisibile, proprio come è estremamente forte e provocatoria la scelta di non sottoporsi alla prova orale della maturità. Sono però convinto che un atteggiamento di pura censura, di critica, da soloni che hanno già la verità in tasca e si limitano a urlare O tempora, o mores! facendo il verso a Cicerone e spiegando a quei ragazzi come avrebbero dovuto comportarsi invece di fare ciò che hanno deciso di fare, non porti da nessuna parte. Ma non portano da nessuna parte nemmeno i tentativi di strumentalizzare quella protesta attraverso una acritica esaltazione. Trovo molto più promettente, di fronte a queste azioni, pormi e porre delle domande: le domande schiudono il cammino, aprono orizzonti, al contrario dei giudizi troppo netti, che costruiscono steccati. Potremmo ad esempio chiederci che senso hanno i voti nella scuola. Che senso ha il buon voto di Mattia in una interrogazione su un argomento che trova tanto irrilevante per la sua esistenza da leggere un romanzo di fantascienza durante la spiegazione in classe? Che senso hanno i voti di maturità e i voti in generale? Sono stimoli per un percorso o un giudizio sulla qualità di una persona?

Essere valutati è importante.

 Ottenere un voto positivo dopo essersi impegnati può essere un’esperienza molto formativa. I voti però misurano una prestazione scolastica, nulla di più: non sono un giudizio di Dio, non dicono nulla della qualità umana dei nostri studenti: occorre ricordarlo. Le persone non sono i voti che prendono, eppure quante volte io, da prof, ho faticato a vedere il valore di chi a scuola va male o molto male e invece ho colto con molta più facilità le qualità personali dei miei allievi più attivi, partecipi, impegnati, capaci di ottenere ottimi risultati con facilità? I voti sono un cartello che indica una direzione, non un proiettile da sparare su chi riteniamo inadatto o colpevole. Dobbiamo sempre ricordare che l’intelligenza non ha una definizione univoca: ognuno ha le proprie doti. Se uno studente si impegna, ma va male nella mia materia, non significa che non sia intelligente, significa semplicemente che ha un’intelligenza diversa dalla mia, in quanto essere umano unico, irripetibile e quindi diverso da me. Di fronte alle provocazioni degli studenti potremmo inoltre chiederci cosa sia per noi la scuola: un luogo accogliente o un campo di battaglia? Una spedizione verso una cima difficile, nella quale ci aiutiamo a vicenda, o uno Squid Game giocato tutto sull’eliminazione dei più fragili, sulla selezione dei migliori? La scuola forse può ambire ad essere una privilegiata palestra di felicità, se accetta la sfida delle interrogazioni e delle verifiche senza però scadere nell’ossessione per la prestazione e la selezione a tutti i costi. Una scuola esigente con tutti, ma che non riduce le persone a numeri. M i piacerebbe però porre una domanda anche a Mattia e a quegli studenti che hanno rifiutato di sottoporsi all’orale: voi agite seguendo i principi in modo assoluto o cercando di essere responsabili? I principi, se seguiti in modo inflessibile, possono portare a rifiutare la realtà, a tirarsene fuori, a contestarla. Tutto legittimo, ma poi? Non esiste realtà umana che sia come dovrebbe essere: le istituzioni, il mondo, le persone stesse non sono come dovrebbero, sono ciò che sono. È una banalità, ma bisogna farci i conti. La realtà, anche quella della scuola, si può rifiutare perché ingiusta o inadeguata, oppure si può vivere con amore, standoci dentro, cambiando le cose nella fatica di ogni giorno. Questo è lo stile della responsabilità, di chi si fa carico degli altri, di chi si chiede quale effetto la sua azione concreta avrà sul contesto intorno. Ricordo una classe estremamente competitiva, dove ogni interrogazione o verifica era l’occasione per una malsana gara a chi prendeva i voti migliori. Due compagne, che ottenevano voti molto buoni, ma si trovavano a disagio in quel clima, decisero una forma di protesta strepitosa: iniziarono a trovarsi al pomeriggio con i loro compagni più in difficoltà aiutandoli a studiare. Scelsero di avere più a cuore il miglioramento di chi faticava che il primeggiare. Non rinunciarono ai loro principi, ma li trasformarono in responsabilità, in cura, in dedizione. Mi commossero: se la protesta scuote, è la responsabilità che costruisce futuro.

Le contestazioni dei ragazzi richiamano una domanda: la scuola tocca davvero la loro vita? La si può rifiutare perché inadeguata. Ma la si può anche vivere, e cambiare, standoci dentro.

La scuola richiede lo stile della responsabilità di chi si fa carico anche degli altri.

*Insegnante e scrittore

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