venerdì 12 dicembre 2025

UNA CARO

 


 Elogio 

della monogamia



Farrell: strumento prezioso per formare 

al rispetto reciproco 

tra uomo e donna 

e allontanare il rischio di gravi forme di violenza e di dominio

Pubblichiamo di seguito la dichiarazione del cardinale Kevin Farrell, Prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, sulla Nota dottrinale Una Caro. Elogio della monogamia. Nota dottrinale sul valore del matrimonio come unione esclusiva e appartenenza reciproca che è stata presentata in conferenza stampa dal Dicastero per la dottrina della fede, stamattina 25 novembre 2025. 

***

La Nota dottrinale Una Caro. Elogio della monogamia. Nota dottrinale sul valore del matrimonio come unione esclusiva e appartenenza reciproca è uno strumento prezioso per il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita: ci permetterà di offrire ai Vescovi, ai Movimenti ecclesiali, alle Associazioni di fedeli e agli animatori di pastorale giovanile e familiare, importanti linee di riflessione teologica e pastorale sulla pienezza dell’amore umano.

Investire in percorsi formativi per comprendere la ricchezza di un rapporto esclusivo, che avrà bisogno di una vita intera per crescere in pienezza

Tale pienezza trova compimento nell’unità e nell’esclusività del matrimonio tra uomo e donna e ad essa vanno accompagnati gli sposi nella comprensione di quella che è una “vocazione a due” nel mondo e nella Chiesa.

Al giorno d’oggi non è facile trasmettere questo messaggio, che si inserisce in un contesto in cui la “cultura del provvisorio” – come la chiamava papa Francesco - svilisce il “per sempre” del matrimonio: molti faticano a comprendere non solo il valore del sacramento, ma di ogni vincolo indissolubile.

Per questo, a livello pastorale è decisivo saper investire in percorsi formativi che aiutino a comprendere la ricchezza di un rapporto esclusivo, che avrà bisogno di una vita intera per crescere in pienezza.

Approfondire in ogni contesto culturale e geografico del mondo  l’aspetto dell’appartenenza reciproca

Un aspetto del documento che mi pare significativo e che sarà importante approfondire in ogni contesto culturale e geografico del mondo è l’aspetto dell’appartenenza reciproca tra i coniugi, che nel vissuto esistenziale non può e non deve mai sfociare nel possesso dell’altro: è un’appartenenza-non appartenenza, un’unità tra i due che va costruita sempre nel rispetto di due dignità e di due libertà, che non annullano la differenza e l’individualità di ciascuno.

Allontanare il rischio di gravi forme di violenza e di dominio

Questa tematica ha ricadute pastorali che ci interpellano a formare al rispetto reciproco tra uomo e donna, per allontanare il rischio di gravi forme di violenza e di dominio, che oggi richiedono una più decisa azione pedagogica anche da parte della Chiesa.

Aiutare i coniugi a rendere generativa la coppia nelle comunità in cui vivono

Urge, infatti, educare ad una sana unità coniugale, che possa davvero essere via di crescita e di pienezza esistenziale per entrambi i coniugi. Essi vanno aiutati a comprendere che non è bene chiudersi nel loro reciproco amore, ma che è necessario aprirsi per rendere generativa la coppia, non solo all’interno della famiglia, ma anche nella comunità in cui vivono e in cui possono farsi strumento di accoglienza e di cura dei più fragili, rendendo ancora più fecondo il loro amore.

Card. Kevin Farrell,

Prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita

 

  UNA CARO. ELOGIO DELLA MONOGAMIA [IT]



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LA RISORSA DEI MIGRANTI

 


La Santa Sede:

 migranti risorsa 

per la pace, 

superare stereotipi

 e polarizzazioni

 

Nel suo intervento al Consiglio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), l’arcivescovo Ettore Balestrero, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra, invita a un’“analisi oggettiva e completa” dei movimenti migratori, che ne consideri cause e conseguenze. 

Chi è costretto a lasciare la propria casa, sottolinea, incarna il “volto umano della globalizzazione”, spesso sostenuto, nelle aree più remote e carenti di servizi, da organizzazioni religiose

 

-         -di Edoardo Giribaldi – Città del Vaticano

-          

La voce grossa dei dibattiti odierni finisce per ammutolire, attraverso "stereotipi e narrazioni", chi potrebbe farsi portavoce di "relazioni pacifiche tra le nazioni". I migranti, ovvero non “problemi da risolvere” né “opportunità da sfruttare”, ma il vero e autentico “volto della globalizzazione”. È questa la posizione della Santa Sede, espressa dall’arcivescovo Ettore Balestrero, osservatore permanente vaticano presso le Nazioni Unite e le altre Organizzazioni Internazionali a Ginevra, nel suo intervento del 10 dicembre alla 116.ma sessione del Consiglio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM).

Considerare oggettivamente i migranti

L’intervento dell’arcivescovo si apre da un dato: 304 milioni di migranti internazionali nel mondo. Chi lascia il proprio Paese è, prima di tutto, “un essere umano”, ricorda Balestrero, la cui dignità e i cui diritti devono costituire il fulcro della cooperazione internazionale e delle politiche in materia. Per questo, occorre superare discussioni permeate da pregiudizi e visioni divisive, che impediscono una “considerazione oggettiva e completa della migrazione”, delle sue cause e delle sue conseguenze.

Il volto umano della globalizzazione

Tali contrasti ignorano inoltre i contributi positivi che i migranti apportano alle società. Se da una parte, come ricordava Papa Benedetto XVI, essi “hanno il dovere di integrarsi nel Paese di accoglienza, rispettandone le leggi e l’identità nazionale”, dall’altra rappresentano il volto umano dei processi di globalizzazione e possono promuovere l’armonia internazionale.

I diritti degli Stati e di chi migra

Balestrero ribadisce il diritto di ogni Stato di proteggere i propri confini. Esso, tuttavia, deve andare di pari passo con il rispetto della dignità di coloro che li raggiungono. Come sottolineava Papa Leone XIV, quando chi cerca protezione subisce maltrattamenti “non assistiamo al legittimo esercizio della sovranità nazionale, ma piuttosto a gravi crimini commessi o tollerati dallo Stato”.

 Le piaghe delle rotte pericolose e dei trafficanti

La Santa Sede ribadisce profonda preoccupazione per la vulnerabilità dei migranti, spesso costretti a percorrere "rotte pericolose". Un presagio che trova conferma nel dato drammatico del 2024: almeno 8.939 persone hanno perso la vita durante gli spostamenti dai propri Paesi di origine. “L’anno più letale mai registrato”, osserva l’arcivescovo, ricordando che ogni decesso rappresenta un fallimento dell’umanità, degli Stati e della comunità internazionale. Un’altra piaga connessa alle migrazioni è lo sfruttamento operato da trafficanti e contrabbandieri che “approfittano della disperazione a scopo di lucro”. In questo senso, la Santa Sede accoglie con favore l’impegno dell’OIM nel proseguire le attività di prevenzione, soccorso e assistenza alle vittime.

L'apporto delle organizzazioni religiose

Balestrero riconosce inoltre il valore dell’adozione di “un linguaggio concordato e consensuale nel Programma e Bilancio dell’OIM per il 2026”, così da evitare definizioni ambigue o prive di un significato condiviso nel diritto internazionale e tra gli Stati membri. Nel contesto migratorio, spiega l’arcivescovo, un ruolo decisivo è svolto dalle organizzazioni religiose. La loro presenza capillare e di lunga data, “anche nelle aree più remote e carenti di servizi”, rappresenta un sostegno concreto alle persone in movimento. Un aiuto che ha preceduto il momento in cui la migrazione è divenuta una "questione internazionale". Un impegno che continua “anche dopo che l’attenzione dei media è svanita”, grazie alla promozione di una rete globale lungo le rotte migratorie. Con un unico obiettivo, già delineato da Papa Francesco: “accogliere, proteggere, promuovere e integrare”, senza distinzioni. L’arcivescovo conclude ribadendo ciò che i migranti non devono essere: questioni da dirimere o “opportunità” da cui trarre vantaggi personali. Per questo, gli sforzi congiunti della comunità internazionale devono puntare a “promuovere il rispetto della loro dignità e permettere loro di viverla pienamente”.

Vatican News

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UNA SOCIETA' STERILE

           Non si genera futuro


NASCITE: Sempre più giù. 

In 15 il doppio dei centenari. 

 

 di LELIO CUSIMANO

 L’evoluzione demografica del nostro Paese continua a muoversi lungo due traiettorie divergenti: da un lato una natalità sempre più esile, dall’altro una longevità che avanza con forza.

È da quest’ultimo dato che conviene partire, seguendo le parole del presidente dell’Istat, Francesco Maria Chelli, che ha sottolineato come «in quindici anni i centenari siano raddoppiati, passando da 10 mila a quasi 24 mila unità». È un segnale positivo, testimonianza dei progressi nella qualità della vita e nella medicina; sul versante opposto, però, le culle continuano a svuotarsi.

I dati provvisori relativi ai primi sette mesi dell’anno confermano un quadro ormai strutturale: le nascite rimangono sotto la soglia delle 200 mila unità, in ulteriore flessione rispetto al passato.

Un calo che non sorprende, perché ha radici profonde e lontane. Già alla fine degli anni Settanta il numero medio di figli per donna era sceso stabilmente sotto la soglia dei due necessari al ricambio generazionale. Da allora le nuove generazioni sono sempre più piccole di quelle dei loro genitori, mentre l’aumento della speranza di vita ha progressivamente gonfiato la fascia più anziana della popolazione.

Gli effetti li vediamo ogni giorno, non solo nelle statistiche: nel 2024 il numero medio di figli per donna è sceso a 1,18, ritoccando al ribasso un record negativo che resisteva dal 1995. E l’età media alla nascita del primo figlio sfiora ormai i 32 anni.

 Le famiglie si fanno più piccole, gli orizzonti più incerti.

 Perché succede? Le ragioni sono molteplici e intrecciate: l’instabilità lavorativa e abitativa che pesa sulle nuove generazioni; la difficoltà di conciliare lavoro e vita familiare; la percezione di un futuro fragile, poco accogliente. Ma sarebbe miope ignorare anche la dimensione culturale: la scelta di avere un figlio si colloca oggi in un contesto in cui autonomia, carriera e aspettative individuali hanno assunto un peso diverso rispetto al passato.

Frenare la denatalità non è impossibile, ma richiede un cambio di passo. Significa creare le condizioni perché chi desidera diventare genitore possa farlo davvero. Significa investire in politiche familiari stabili, rafforzare l’occupazione giovanile, ampliare i servizi per l’infanzia, sostenere la parità di genere. 

La sfida è duplice, perché riguarda anche il modello di Welfare: non bastano più asili nido efficienti, serve una rete che sostenga anche la crescente domanda di cura degli anziani, i nonni di domani.

La demografia non è un destino, ma una scelta collettiva.

E riguarda la qualità del Paese che vogliamo costruire. L’Italia potrà tornare a generare futuro solo quando smetterà di considerare la natalità un indicatore statistico e inizierà a riconoscerla come un traguardo comune.

Denatalità

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FEMINA SAPIENS

 


Cosa ci insegna

la femina sapiens

 

-          C’è un paradosso scientifico che dovrebbe farci riflettere: parliamo di homo sapiens, eppure il primo grande ritrovamento che ha rivoluzionato la paleoantropologia – Lucy, scoperta in Etiopia – è di sesso femminile. 

È il sintomo di un problema profondo che attraversa millenni di pensiero, cultura e spiritualità.

 

di : Chiara Giaccardi


Antropologhe coraggiose come Sally SlocumAdrienne Zihlman e Nancy Tanner hanno dovuto attendere gli anni Settanta e Ottanta per poter finalmente denunciare il fatto che l’intera narrazione evolutiva era costruita su assunzioni androcentriche. Il contributo femminile alla storia dell’evoluzione non era semplicemente sottovalutato – era sistematicamente cancellato. 

 E lo stesso misconoscimento attraversa la scienza, la filosofia, quasi tutte le discipline del sapere umano. Ciò che per secoli è passato come “universalismo” era in realtà l’assolutizzazione di un unico punto di vista: quello maschile. 

Questo approccio ha certamente prodotto grandi scoperte, progressi straordinari, un’accelerazione dello sviluppo. Ma ha anche generato quella che Paul Valéry chiamava “la crisi della civiltà”: relegando sullo sfondo tutte le dimensioni non strumentali, non estrattive, non acquisitive, abbiamo mutilato l’essere umano stesso, impedendogli uno sviluppo armonico. 

 L’individuo della modernità è concepito come maschio. La sua postura esistenziale è strumentale ed estrattiva: prende, usa, accumula, domina. 

Preservare la relazione con il femminile nella reciprocità è oggi più che mai la chiave per salvaguardare quella complessità e quella tensione che caratterizza l’essere umano e lo spinge ad aprirsi oltre se stesso: al mondo, agli altri, al passato, al futuro. 

 La logica tecnoscientifica guidata dal capitale spinge per separare tutto ciò che nella vita umana è collegato e interdipendente, compresa la relazione antropologicamente più originaria e, per certi versi, più sacra: quella del legame materno. La tecnica slega e ricompone: è l’atteggiamento tipico dell’astrazione, di quel falso universalismo che è in realtà un maschile mascherato. 

 La dimensione della concretezza da un lato, e dell’apertura al mistero, alla meraviglia, allo spirito dall’altro, costituiscono elementi di una tensione vitale. 

Perderla significa pervertire le caratteristiche stesse dell’umano. 

 Esiste una saggezza femminile, con buona pace di chi vuole decostruire radicalmente qualunque dimensione fisica e simbolica. Non si tratta di essenzialismo, ma di riconoscere un polo di tensione positiva che permette alle capacità, alle qualità, alle dimensioni simboliche di co-individuarsi reciprocamente, invece di contrapporsi, emularsi in dinamiche di rivalità mimetica, scontrarsi in logiche belligeranti e mortifere. 

 Maschile e femminile non sono principi contrapposti, né tanto meno sostanze ipostatizzate in soggetti che incarnano questa scissione. Sono piuttosto due poli in tensione che si costituiscono nella loro reciprocità, nel rimandare strutturalmente l’uno all’altro. 

 Possiamo definirli, con Ivan Illich, come due archetipi che incorporano il “genere vernacolare”: quel deposito di simboli, pratiche, senso comune, saggezza popolare che si trasmette nel legame tra le generazioni. Non sono incarnati in soggetti distinti secondo una prospettiva sostanzialista, ma non sono nemmeno supermercati di attributi da indossare e dismettere a piacimento, come vorrebbero le teorie costruzioniste radicali. 

 L’aver privilegiato la scissione e la contrapposizione ha costituito un grave impedimento allo sviluppo armonico della civiltà e ha favorito l’affermarsi di un individualismo radicale. 

 La femina sapiens ci ricorda una verità fondamentale: l’essere umano, prima di costituirsi come individuo, esiste in un rapporto fusionale di indifferenziazione. 

Solo grazie a questo può venire al mondo. In principio è la relazione, ed è grazie a essa che diventiamo individui. Questa non è un’affermazione astratta o ideologica: è incisa nella nostra stessa carne. Basta guardarsi l’ombelico per ricordarlo. È inscritta nel cammino della filogenesi. 

 La femina sapiens ci insegna che ogni essere è unico, singolare, irripetibile. 

Che l’individualismo che prescinde dal legame è astratto, ideologico, distruttivo. Che legame e libertà non sono opposti, ma in feconda tensione: solo una libertà che non dimentica il rapporto con ciò che viene prima, ciò che sta intorno, ciò che verrà dopo è una libertà non distruttiva bensì generativa. 

 La femmina è sapiens anche in senso teologico, come testimoniano le Scritture. Nell’Antico Testamento, una serie di donne si presentano come “madri di grazia”. Sono madri che danno alla luce un figlio quando ormai parevano sterili, superando la legge di natura e testimoniando la presenza di Dio in loro. La grazia è forza di trasformazione, di emancipazione, di rottura delle convenzioni e dei formalismi che fa irruzione nella storia soprattutto attraverso le donne e la loro corporeità intrisa di spirito. 

 La Sapienza evangelica non sarebbe tale senza il contributo delle donne. Maria non parla di Dio ma parla con Dio e lo accoglie in sé. Come scrive Massimo Cacciari, “concepisce nell’ascolto”. Fidandosi e affidandosi: un movimento che consente di spingersi audacemente oltre ogni garanzia e convenzione. 

 L’emorroissa, la Maddalena e altre mostrano che linguaggio del corpo è connaturato all’incarnazione, e che la legge dell’amore supera l’amore della legge. 

 Sbilanciarsi oltre sé, fare spazio all’altro, allestire quel vuoto accogliente senza il quale la vita non può avere inizio: queste sono le posture esistenziali delle donne nelle scritture. 

 Oggi, in tempi per tanti versi bui, come ha scritto recentemente Luca Bagetto, un’esperienza redentiva del nichilismo contemporaneo viene dal femminile. 

Non come alternativa al maschile, non come sua negazione, ma come tensione salvifica che può restituirci alla complessità del reale, alla relazionalità costitutiva, alla reciprocità generativa. 

 La femina sapiens non è una rivendicazione identitaria: è il riconoscimento di una verità antropologica, scientifica, filosofica e teologica che abbiamo troppo a lungo rimosso. È il recupero di quella metà della sapienza umana senza la quale ogni discorso sull’uomo resta monco, astratto, pericolosamente incompiuto.​​​​​​​​​​​​​​​​

 L'Osservatore Romano inserto Donne Chiesa Mondo dicembre 2025

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giovedì 11 dicembre 2025

NUOVE INDICAZIONI NAZIONALI

 


Nuove Indicazioni nazionali:

 latino alle medie, 

si rafforza studio grammatica,

 si innova matematica.

 

TESTO DEFINITIVO infanzia e primo ciclo

 

Di Andrea Carlino

 

Il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha firmato le nuove Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo di istruzione.

 Il documento entrerà in vigore dall’anno scolastico 2026/2027 e sostituirà le Indicazioni adottate nel novembre 2012.

Il ministro ha dichiarato che “con la firma delle nuove Indicazioni nazionali si volta pagina” e ha sottolineato il ritorno della centralità della storia occidentale, la valorizzazione dell’identità nazionale e la riscoperta dei classici.

Il percorso di elaborazione è durato quasi due anni e ha coinvolto il comitato tecnico presieduto da Loredana Perla, le sottocommissioni e il Ministero. Il Consiglio di Stato ha espresso il parere favorevole il 12 novembre, dopo aver valutato le integrazioni inviate dal Ministero il 23 ottobre.

 Le novità sui contenuti disciplinari e metodologici

Le nuove Indicazioni nazionali introducono lo studio del latino per l’educazione linguistica nella scuola secondaria di primo grado, con l’avvio previsto in seconda e terza media.

L’insegnamento sarà facoltativo e affidato al professore di italiano già abilitato per il latino, con un’ora aggiuntiva settimanale da inserire nelle attività di potenziamento pomeridiane. Il programma comprenderà l’alfabeto, i casi, la prima e la seconda declinazione, l’indicativo e l’imperativo e l’uso del vocabolario.

Il documento prevede il rafforzamento dello studio della grammatica e della calligrafia dalla scuola primaria, con l’obiettivo di evitare “eccessi di spontaneismo” nell’espressione e nella scrittura.

Gli studenti torneranno a imparare le poesie a memoria e a fare i riassunti nelle aule della scuola primaria. Il Ministro ha affermato che “ripristiniamo il valore della regola, a partire da quella grammaticale, e del latino” e ha precisato che “regole grammaticali e latino rappresentano fondamenti che consentiranno ai nostri ragazzi di crescere consapevoli della nostra lingua, con maggiore padronanza espressiva e più forte pensiero critico”.

 La riorganizzazione di storia, matematica e scienze

L’insegnamento della storia sarà dedicato alla storia dell’Occidente, con l’obiettivo di evitare un approccio enciclopedistico. Il documento afferma che la storia “è il principale strumento tanto per conoscere come si è formata la nostra civiltà, per comprenderne le caratteristiche di fondo e i valori, che per inquadrare al tempo stesso le vicende della scena mondiale e i rapporti di questa con l’Occidente”.

Il ministro ha annunciato che “innoviamo i programmi di matematica e scienze perché, partendo dal reale, possano appassionare i giovani”. Le modifiche riguardano i contenuti disciplinari, le metodologie didattiche e l’organizzazione del curricolo, con attenzione a temi come l’inclusione, le competenze digitali e la cittadinanza. Valditara ha sottolineato che le nuove Indicazioni mettono “al centro la cultura del rispetto e della lotta contro ogni discriminazione”. Il ministro ha ringraziato tutti coloro che hanno contribuito al lavoro, definito “poderoso” e caratterizzato da “ascolto e confronto con la comunità scolastica e scientifica”.

 Testo Indicazioni

 Leggi anche

Nuove Indicazioni Nazionali infanzia e primaria, ok definitivo del Consiglio di Stato con riserve e suggerimenti [leggi PARERE]. In vigore da settembre 2026

 Orizzonte scuola


LA CONTRORIVOLUZIONE TOLEMAICA

- di Italo Fiorin


Tra le tante cose che mi colpiscono, nella visione che guida le nuove Indicazioni, è la dissonanza con i tempi in cui viviamo. E’ come se pensassero in termini tolemaici: il Maestro al centro dell’universo educativo come la terra di Tolomeo, in un sistema armonico di costellazioni angeliche, gli alunni, le famiglie, la società a ruotare ordinatamente intorno alla scuola.

La società è vorticosamente in cambiamento, intorno al Magister, che se ne sta immobile nell’occhio del ciclone, impegnato a mettere ordine al caos che non conosce. E dall’alto della cattedra ammonisce: “Impara la grammatica che ti insegna a rispettare le regole, ripeti a memoria semplici filastrocche, scrivi in corsivo e in bella grafia, e ricorda che scrivere con chiarezza è un tuo dovere morale…”

Qualcuno ha scritto che gli studenti si fanno rappresentare in classe dai loro avatar, mentre se ne stanno altrove, con un dolore non ascoltato, una storia non raccontata, una vita che non interessa.

La scuola di Valditara vuole mettere ‘la persona al centro’, ma di che cosa?


 

martedì 9 dicembre 2025

DI CHE NATALE SEI ?

 

 Nascere è divino. Ma quando questa fiducia nella “natività” diventa debole, allora la morte diventa una passione, come nella storia è accaduto a tutte le culture in crisi.


Il 4 dicembre di 50 anni fa moriva la filosofa ebrea Hannah Arendt, autrice di queste righe:

«Il corso della vita umana diretto verso la morte ci condurrebbe alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che ci ricorda che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare» (Vita activa - La condizione umana). Era il 1958, bisognava fare i conti con il più grande cimitero a cielo aperto della storia umana costruito dai totalitarismi e partire da nuove basi: “Il miracolo che preserva il mondo dalla sua naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è radicata la facoltà di agire”. 

Arendt non usa nascita ma natalità per riferirsi alla capacità umana di introdurre l'inatteso nella storia, di cui il nascere è il primo atto. Dal momento che in italiano natalità fa pensare soltanto alla demografia, mi servirei di “natività”, da noi usato per la nascita di Cristo, perché dà il giusto peso al concetto di “inizio”: avresti potuto non esserci e invece ci sei, questo cambia la storia. Come sarebbe il mondo se tu non fossi nato? Quale novità sei e fai solo tu? Per capirlo consiglio di riguardare La vita è meravigliosa di Frank Capra, in cui a George Bailey, che vuole suicidarsi, viene concesso di vedere in anticipo come andrebbe il mondo senza di lui: che cosa cambierebbe se tu non ci fossi? Questo manca nella nostra cultura e quindi nell'educazione: non ci si percepisce come iniziatori ma come consumatori. Abbiamo bisogno di “natività”: come recuperarla?

 Arendt si ispira a un passo di Agostino: “Creatus est homo ut esset initium” (Confessioni XI, 31: “L'uomo è stato creato per essere un inizio”), in cui riflette sulla creazione del tempo da parte di un Dio fuori dal tempo, sostenendo che l'uomo è causa del tempo proprio perché nasce, inizia ad esserci. Persino Dio, nella narrazione cristiana, nasce, e così dà un nuovo corso alla storia da dentro la storia, come è dato fare a tutti e ciascuno di noi. 

 Nascere è divino. Ma quando questa fiducia nella “natività” diventa debole, allora la morte diventa una passione, come nella storia è accaduto a tutte le culture in crisi. Lo mostrano oggi guerre e riarmi, il tasso di suicidi dei giovani (seconda causa di morte in Occidente), la crisi della natalità e la distruzione del creato. Il recente suicidio delle gemelle Kessler racconta che la gioia di cui erano simbolo era provvisoria quanto uno spettacolo. Lo aveva intuito Leopardi nel suo Dialogo tra la Moda e la Morte in cui la prima scopre di essere sorella minore della seconda. Qual è invece la sorella minore della “natività”? Non ciò che passa, la moda, ma ciò resta, la vita. Qualche giorno fa ho contemplato al Museo diocesano di Milano l'opera in esposizione per Natale, una bellissima natività di Lorenzo Lotto, abitualmente alla Pinacoteca Nazionale di Siena, raccontata da una prospettiva curiosa: il bagno di Gesù Bambino

 Il quadro (1521) del geniale e inquieto pittore rinascimentale lascia da parte architetture complesse e regine in drappi eleganti, e rappresenta la quotidianità di una casa contadina (allora l'artista lavorava a Bergamo): una levatrice, un uomo sgomento, una donna che in un angolo riscalda un panno, una tazza con il cucchiaio, il paiolo della polenta usato come vaschetta, il bambino nudo che si ritrae dall'acqua fredda e ha ancora, dettaglio più unico che raro, un pezzetto del cordone ombelicale. Al centro della scena (il quadro nel tempo si è rovinato ed è stato tagliato celandone il vero fulcro geometrico) c'è il volto luminoso e gioioso della giovane madre.

 È il bagno di un neonato, niente di più, eppure è un capolavoro che ha 500 anni. Perché? Perché ci fa vedere lo straordinario dell'ordinario, la “natività” di ciascuno è un miracolo, cambia il corso della storia. Il cordone ombelicale lo ricorda con realismo scandaloso: se ci guardiamo la pancia scopriamo di non esserci fatti da soli come crede l'eroe del nostro tempo, il self-made man, l'uomo della potenza, che non crede di aver ricevuto nulla e quindi tutto consuma. 

 Nella narrazione evangelica infatti nessuno si accorge della nascita di Dio, perché non c'è niente di straordinario, e proprio questo è straordinario: è nato, ha l'ombelico, fa il compleanno, come tutti noi. Una cultura costruita sulla natività è piena di energia vitale perché ha fiducia nell'azione umana come capacità di dare inizio a una storia nuova, sempre Agostino diceva che non sono i tempi a essere buoni o cattivi, ma noi. E quel bambino ha infatti cambiato la storia se siamo ancora qui a festeggiare. Guardarsi l'ombelico, in senso letterale, aiuta a posizionarsi: non sono apparso dal nulla, sono stato dato a me e al mondo, ho ricevuto la vita per fare altra vita, sono un inizio. 

 Ma di che cosa? Festeggiare il Natale (la “natività”), credenti o no, significa ricordarsi che siamo fatti per cominciare e non per finire, per dare la vita e non per lottare contro la morte. Siamo esseri che sanno di dover morire, ma ancora di più che sanno di dover nascere: si nasce una prima volta il giorno del parto ma poi bisogna nascere continuamente dando inizio a cose che solo noi possiamo inaugurare e nessuno al posto nostro. 

 Se i Greci privilegiavano l'ombra intendendo con “i mortali” gli uomini, noi, privilegiando (il venire al-) la luce, dovremmo chiamarci “i natali”, cioè coloro che, per il fatto di esser nati, sono chiamati a nascere di più e a far nascere di più. Il Natale è l'unico compleanno in cui i regali non si fanno al festeggiato ma agli invitati, perché è il compleanno di tutti i compleanni: un Dio che dà la vita agli uomini, non vuole la loro. 

 Una cultura della natività non rende il bambino un idolo (cosa che serve in realtà all'egoismo e al compiacimento dell'adulto), ma il protagonista di un inizio, cioè lo vuole consapevole e quindi responsabile della vita ricevuta perché ne faccia altra, e non ne sia un mero consumatore come vedo fare a tanti bambini e adolescenti che vivono come se tutto fosse dovuto e non donato. Per questo una ragazza che fa il bagno al suo bambino può essere il soggetto di un capolavoro come quello di Lotto, perché contiene ciò che c'è da sapere sulla vita per farne un'opera d'arte: perché sei venuto al mondo? Di che cosa sei inizio? Quale tempo si inaugura con te? 

Se tu sparissi che cosa mancherebbe alla storia umana? Tu, che natale sei?

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QUANTO VALE LA NOSTRA VITA?


 Recalcati: “Il valore della vita dipende da quanto è viva e non da quanto è lunga”, una riflessione sul desiderio che allarga il nostro orizzonte e dà senso autentico alla nostra esistenza

La Redazione

La vita, imprevedibile ed imponderabile, riesce sempre a stupirci, regalandoci emozioni uniche ed irripetibili, mettendoci alla prova e giorno dopo giorno insegnandoci a danzare sotto la pioggia.

Ed invero sono proprio i momenti più difficili, quelli nei quali sarebbe più semplice mollare che andare avanti, che ci fortificano, temprando il nostro carattere, trasformandosi così in ottime occasioni di rivalsa per poter rialzarci, volgendo lo sguardo verso uno splendido arcobaleno.

Ed allora quando possiamo definire la nostra vita degna di essere vissuta?

A tal proposito lo psicoanalista e saggista italiano Massimo Recalcati esprime il suo pensiero in tal modo:

“Uno dei miti contemporanei è quello di attribuire un valore in sé al prolungamento illimitato della vita. Garantire la vita più lunga possibile sembra imporsi su qualunque altra valutazione di merito. Di qui l’ossessione per il cosiddetto benessere, ovvero per un salutismo spesso penitenziale che vorrebbe scongiurare non solo la malattia ma la morte stessa. Nessun tempo ha conosciuto in forme così esasperate l’ossessione per il benessere e per il prolungamento ad ogni costo della vita. Un corteo variegato di specialisti ci spinge ad identificare indebitamente il valore della vita con la sua durata dimenticando che ciò che dà valore alla vita non è affatto il suo essere lunga quanto la possibilità di poter

Dunque, il valore della nostra vita non si misura dalla sua durata, quindi dalla sua quantità, ma piuttosto dalla qualità degli attimi che abbiamo vissuto con intensità, così da rendere ogni giorno unico ed impareggiabile.

A rendere viva la nostra vita, pertanto, è proprio il desiderio, “nostra inclinazione singolare, nostro talento particolare. La nostra responsabilità consiste nel riconoscerlo e nell'assumerlo, ovvero nel vivere secondo la sua legge”, così come ci spiega molto significativamente lo psicoanalista.

Ecco allora l’importanza di coltivare il proprio talento perché il desiderio non è altro che “una potenza che allarga l'orizzonte della nostra vita”.

Tanto più saremo in grado di allargare la nostra vita, tanto più la nostra vita sarà viva e degna di essere vissuta.

“Certamente non esistono misure standard per definire questa ampiezza. Un amico monaco che vive in una condizione eremitica mi spiegava che l’ampiezza della sua vita coincideva con quella del geranio sulla sua finestra e dell’uccello che dimorava sul ramo di un albero nel giardino. 

Nessuno può decidere quando una vita sia davvero larga”, queste le parole con le quali Massimo Recalcati culmina la sua disamina.

Perciò, bisogna sempre avere il coraggio di osare, volgendo lo sguardo oltre l’orizzonte, coltivando il proprio talento, le proprie passioni, lottando per esaudire i propri sogni, abbandonando così l’illusione di una vita lunga e spesso priva di valore.

A scuola oggi

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