sabato 27 dicembre 2025

CRESCERE I FIGLI

 


LE RELAZIONI

 DI AFFETTO

Galimberti: “Per crescere figli felici c’è un’unica soluzione: le relazioni d’affetto. Dove c’è amore si cresce bene, bisogna gratificare i figli quando fanno un passo avanti”

Riflettendo sul rapporto tra genitori e figli, Umberto Galimberti spiega perché le relazioni affettive, la comunicazione e il riconoscimento dei piccoli progressi sono decisivi nella crescita emotiva dei più giovani

Il rapporto tra genitori e figli si costruisce giorno dopo giorno attraverso gesti apparentemente piccoli, ma carichi di significato: uno sguardo che incoraggia, una parola che sostiene, una presenza che rassicura. È in questo spazio quotidiano, fatto di attenzione e riconoscimento reciproco, che si pongono le basi di una crescita emotiva equilibrata.

Eppure, nella società contemporanea, dominata dalla velocità, dalla tecnica e dalla prestazione, il tempo dedicato alle relazioni affettive sembra ridursi sempre di più. I genitori si trovano spesso disorientati, divisi tra il desiderio di proteggere i figli e la difficoltà di esercitare un ruolo educativo autentico, capace di coniugare amore, ascolto e autorevolezza. È proprio su questo punto che si inserisce la riflessione di Umberto Galimberti, che invita a interrogarsi sul profondo cambiamento che ha attraversato la genitorialità negli ultimi decenni: “Prima i genitori erano supportati dalla società e quindi era riconosciuta l’autorità paterna, che era sostanzialmente quella della tradizione.

Poi i padri sono diventati amici dei figli, sono caduti nel mito del giovanilismo, hanno ceduto alle loro dimensioni affettive calibrate sulla pura passione per cui quando finisce la passione ci si separa e si divorzia. In pratica la società ha insegnato il principio di piacere (perché la società è diventata opulenta) che si è riverberato anche nell’ambito della famiglia”.

Con queste parole il filosofo, saggista e psicoanalista Umberto Galimberti pone l’accento sulla metamorfosi che ha subito la genitorialità nel corso degli anni. “Le parole dei genitori sono efficaci da zero a 12 anni. Dopo i ragazzi devono andare incontro alla separazione dal mondo genitoriale e passare dall’amore incondizionato da cui sono stati gratificati quando erano bambini, all’amore condizionato che è quello orizzontale con i propri amici. I padri di solito non parlano con i figli: nella società della disciplina incaricavano le madri ma anche dopo hanno continuato a non farlo, perché si annoiano.

Le madri invece parlano sì, però sempre a livello fisico: non uscire con i capelli bagnati, mettiti la maglia, stai attento ai semafori. Mai una domanda psicologica, mai che si chieda al figlio: sei felice?”, in tal modo il filosofo continua la sua profonda e significativa riflessione. Dunque, Umberto Galimberti esorta i genitori a parlare con i propri figli, ad ascoltarli, perché uno sguardo attento, una carezza, un abbraccio inaspettato possono scaldare il cuore, ponendo fine alle più grandi avversità.

“Per crescere i figli in modo felice c'è un’unica soluzione: le relazioni d'affetto. Là dove vige l'amore si cresce bene, là dove vige la violenza o il gelo emotivo si cresce male": queste le parole pregne di significato pronunciate dal filosofo con grande forza e determinazione.

“Quando si entra nelle famiglie a volte si sente urlare, altre volte c’è quel silenzio, soprattutto nelle classi borghesi elevate, che è più freddo dell’ira. Quel gelo che si crea nella non comunicazione generale, e che i telefonini hanno amplificato: avete presente quelle famiglie al ristorante, ognuno con il suo cellulare in mano e ognuno nel suo mondo?”, in tal modo Umberto Galimberti sottolinea la pericolosità della “non comunicazione”.Alla luce di queste riflessioni, appare chiaro come il vero compito educativo non consista nel controllare o giudicare, ma nel riconoscere i passi avanti dei figli, nel sostenerli anche quando arretrano, nel creare un clima emotivo capace di farli sentire visti e accolti. Non esistono formule perfette né manuali infallibili per crescere figli felici. Esiste però una certezza: l’amore, quello fatto di presenza reale, comunicazione e attenzione quotidiana, è ciò che permette ai figli di crescere in modo sereno e responsabile. È questo il terreno su cui si costruiscono relazioni solide, capaci di resistere al tempo e alle difficoltà della vita.

Per te, lettore che ci segui: quanto spazio trovano oggi, nella tua vita quotidiana, l’ascolto e l’attenzione verso le persone che ami? Ti sei mai fermato a riflettere su come comunichi con i tuoi figli o con chi ti sta accanto?

A scuola oggi

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venerdì 26 dicembre 2025

CATERINA RENDA, UN GENEROSO IMPEGNO

 

IN MEMORIA DI 
CATERINA RENDA

Caterina Renda (già presidente provinciale AIMC Catania, componente il Consiglio Nazionale AIMC, Vice presidente regionale AIMC.....) la notte di Natale è stata chiamata a far festa in Paradiso. 

Per  esprimere la nostra gratitudine e fare  memoria, pubblichiamo alcuni messaggi pervenuti.


Dalla Presidente Nazionale AIMC, Esther Flocco

Con profondo dispiacere comunichiamo che è tornata alla casa del Padre Caterina Renda. È stata una socia storica e una presenza preziosa: il suo impegno, la sua dedizione e il suo contributo resteranno per noi un esempio e un ricordo indelebile.

A nome di tutta l’Associazione, esprimiamo le nostre più sentite condoglianze e ci stringiamo con preghiera e affetto attorno alla sua famiglia, in questo momento di grande dolore.

  Giovanni Perrone – Unione Mondiale Insegnanti Cattolici

Nella notte di Natale Caterina Renda è tornata alla Casa del Padre, al termine di un cammino vissuto con fede, coerenza e spirito di servizio. È stata fedele e attiva socia e dirigente (nazionale, regionale, provinciale e sezionale dell’AIMC) da oltre un quarantennio. É stata di esempio per molti, privilegiando l’essere piuttosto che l’apparire, il fare piuttosto che il parlare: una grande donna, competente dirigente scolastica, innamorata dell’AIMC e anche dell’Unione Mondiale Insegnanti Cattolici. Lucidità, concretezza, diligenza, fede, spirito di servizio, umiltà, lealtà, sincera amicizia l’hanno contraddistinta.  Il Signore la accolga tra le sue paterne braccia e dia conforto ai suoi cari. Che la sua memoria non si perda! Caterina dall’alto assista l’associazione a fare del proprio meglio.

 Rino La Placa -Palermo

La dipartita di Caterina mi procura tristezza e dolore. Se ne va una collega seria, colta e impegnata nella scuola e nella vita civile. L’ho conosciuta nell’Associazione Italiana Insegnanti Cattolici dove ha dato molto con generosità e competenza. Vivrà nel ricordo affettuoso d tanti operatori scolastici, di tante famiglie e soprattutto di tanti alunni. Mi unisco nel cordoglio e nella preghiera.

 Giovanni Bensi, Prato

Le mie più sentite condoglianze nel ricordo di tanto comune impegno nell'aimc nazionale e di sincera amicizia e condivisione. Una commossa preghiera.

Angela Gullì – Siracusa

Mi dispiace tanto, una delle primissime socie che ho conosciuto. Sempre affettuosa e disponibile

Il Signore l’accolga tra le sue braccia misericordiose. Condoglianze alla famiglia

 Cecilia Belfiore – Giarre

Con grande dolore apprendo la perdita di un'amica personale e mia guida nel "nostro" cammino all'interno dell'AIMC

 Maria Torrisi AIMC Giarre

La sezione AIMC di Giarre si stringe con sincera partecipazione al dolore della famiglia e dei suoi cari, esprimendo le nostre più sentite condoglianze. Il suo impegno, la sua professionalità e la sua umanità resteranno un esempio e un patrimonio prezioso per tutti noi. Abbiamo un ricordo riconoscente per una persona che ha dato tanto con generosità e passione.


 Antonietta D’Episcopo –Salerno

Ho visto solo ora la triste notizia e avverto il bisogno di ricordare la nobiltà d’animo di Caterina, il suo modo discreto di fare del bene. Ha testimoniato, con grande coerenza, un'autentica passione associativa motivante e coinvolgente.

 Un'antica saggezza, particolarmente apprezzata dalle nuove generazioni di insegnanti, dei quali si è sempre preso cura. A lei rivolgo il mio grazie sincero e riconoscente attraverso la preghiera.

 Anna Maria Bianchi - Basilicata

Ho un ricordo affettuoso e gioioso di Caterina e voglio conservarlo così.

Sono vicino alla famiglia con la preghiera.

 Rosa Messana - Ragusa

Ho conosciuto Caterina, una persona veramente speciale.  La ringrazio per quello che ha saputo insegnarmi e la ricordo con affetto. Condoglianze alla famiglia.

 Italo Bassotto - Mantova

Dolce e cara Caterina, testimone di un’AIMC che non c'è più e di una professione fatta di mitezza e condivisione...

 Ornella Valerio – Lombardia

Un ricordo, una preghiera R.I.P. Sentite condoglianze ai familiari

 Sandra Cavallini - Livorno

In fede e con commozione ci stringiamo alla famiglia di Caterina che ricordiamo con stima ed affetto. Sandra e tutti noi AIMC Livorno

 Katia Di Stefano- Mazara del Vallo

Ci mancheranno la sua amicizia, il suo amore e generoso impegno per l’Associazione, la sua saggezza e la sua lungimiranza.

 Adriana Dominici - Bracciano

La spontaneità di una bambina, coperta da una grande professionalità; gli occhi esprimevano acume, lealtà e positiva relazionalità. La sua presenza era una garanzia. Il tempo trascorso insieme è stato un dono. La sua parola è stata conforto. Il suo agire trascinava e donava sicurezza. Grazie!

Santino Cerami - Palermo

Con profondo dolore mi unisco al cordoglio per la scomparsa di Caterina Renda. Ha vissuto il suo impegno con fede, coerenza e autentico spirito di servizio, offrendo all’AIMC una testimonianza silenziosa ma incisiva di competenza, umiltà e dedizione. Donna di grande spessore umano e professionale, dirigente scolastica competente e guida leale, ha saputo lasciare un segno profondo in quanti abbiamo avuto il dono di incontrarla. Il suo esempio resti vivo e continui a guidare il cammino dell’associazione.





giovedì 25 dicembre 2025

LA LUCE SPLENDE NELLE TENEBRE

 


Mi sento emozionato,

caro Gesù, 


nel farti gli auguri 

di buon compleanno.


In ogni Natale tu sei il festeggiato, ma quante volte noi ci appropriamo della festa... e ti lasciamo nell'angolo di un vago ricordo: senza impegno, senza cuore e senza ospitalità sincera!

Da più di duemila anni, a ogni Natale, noi ci scambiamo gli auguri perché avvertiamo che la tua nascita è anche la nostra nascita: la nascita della speranza, la nascita della vita, la nascita dell'amore, la nascita di Dio nella grotta della nostra povertà.

Però — quanto mi dispiace doverlo riconoscere! — il tuo Natale è minacciato da un falso natale, che prepotentemente ci invade e ci insidia e ci narcotizza fino al punto da non vedere più e non sentire più il richiamo del vero Natale: il tuo Natale!

Ma la gente sa che la Luce sei tu? E se interiormente gli uomini restano al buio, a che serve addobbare la notte con variopinte luminarie? Non è una beffa, o Gesù? Non è un tradimento del Natale?

Tante domande, caro Gesù, si affollano nel mio cuore e diventano un invito forte alla conversione.

E noi cristiani mandiamo luce con la nostra vita? E le famiglie e le parrocchie rassomigliano veramente a Betlemme?

Si vede la stella cometa nei nostri occhi pieni di bontà?

Dalle case e dai luoghi di divertimento in questi giorni escono musiche che vorrebbero essere invito alla gioia. Ma di quale gioia si tratta?

Gli uomini hanno scambiato il piacere con la gioia: quale mistificazione! 

Il piacere è il solletico della carne e, pertanto, sparisce subito e va continuamente e insaziabilmente ripetuto; la gioia, invece, è il fremito dell'anima che giunge a Betlemme e vede Dio e resta affascinata e coinvolta nella festa dell'amore puro.

Sarà questa la nostra gioia? Sarà questo il nostro Natale?

Gesù, come vorrei che fosse così!

Ma c'è un altro pensiero che mi turba e mi fa sentire tanto distante il nostro natale dal tuo Natale. A Natale, o Gesù, tu non hai fatto il cenone e non hai prenotato una stanza in un lussuoso albergo di una rinomata stazione sciistica: tu sei nato povero, tu hai scelto l'umiltà di una grotta e le braccia di Maria («la poverella», amava chiamarla Francesco d'Assisi, un grande esperto del Natale vero!). Come sarebbe bello se a Natale, invece di riempire le case di cose inutili, le svuotassimo per condividere con chi non ha, per fare l’esperienza meravigliosa del dono, per vivere il Natale insieme a te, o Gesù! Questo sarebbe il vero regalo natalizio!

A questo punto io ti auguro ancora con tutto il cuore: buon compleanno, Gesù! Ma ho paura che la tua festa non sia la nostra festa. 

 Card. Angelo Comastri -
da: "La nascita di Gesù", ed. San Paolo
Estratto dal Primo Capitolo, Perché il 25 Dicembre?

 

C'è luce per chiunque voglia vederla.

Natale, più che un giorno, è una luce che illumina tutti i giorni. 

Sappiamo che Gesù non è nato il 25 dicembre: la data esatta della sua nascita non ci è stata tramandata dagli evangelisti. Essi non ebbero la preoccupazione di fissare la notizia di tanti particolari storici, ma di annunciare il fatto e di viverlo e di farlo vivere.

Perché allora è stato scelto il 25 dicembre per ricordare la nascita di Gesù?

Anticamente, nel mese di dicembre, i popoli pagani celebravano la festa del Sole nascente. Infatti, verso la fine di questo mese, le giornate cominciano ad allungarsi e la luce lentamente vince le tenebre.

Gli antichi cristiani dissero: «Noi non celebreremo la festa del dio Sole. Per noi il sole è Cristo e la sua nascita è l'inizio del vero trionfo della luce sulle tenebre».

Così, con una decisione coraggiosa e significativa, il 25 dicembre divenne per i cristiani la festa della nascita di Gesù, la festa della luce che vince le tenebre.

Del resto Zaccaria, parlando della imminente venuta del Messia, aveva detto: «Verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,78-79).

Ognuno di noi possa oggi sentire la verità delle parole di Paul Claudel: «Io so che non la mia notte, ma il giorno è vero».

Sì, il giorno è cominciato e c'è luce per chiunque voglia vederla.

- Don Severino Gallo - 
dall' Omelia di Natale, 25 dicembre 2014 


 

mercoledì 24 dicembre 2025

UN NEONATO INFREDDOLITO

 


Dove nasce

 Gesù oggi


Chi crede nella divinità 

di Cristo è chiamato

 a ricordare che

 duemila anni fa il Creatore delle galassie

 ha assunto la nostra inerme umanità

 nella sua forma più estrema, quella di un neonato infreddolito,

 rischiando di morire assiderato come  i bambini di Gaza.

-di Giuseppe Savagnone 

Dal Natale al solstizio d’inverno

Del Natale, in questi giorni, come ogni anno, sono piene le nostre strade, con le vetrine illuminate, gli addobbi più o meno ricchi, la folla di persone che escono per comprare. Ma in questa festa – forse la più sentita dell’anno – chi è assente è proprio festeggiato. Sembra essere sparito Gesù.

Il problema, in realtà, non è nuovo. Da sempre il Natale è stato esposto al rischio di vedere subordinata la sua valenza propriamente religiosa a una costellazione di valori umani che da un lato ne erano l’espressione, dall’altro però lo banalizzavano, diventando così la festa del buonismo, della famiglia e dello scambio dei regali. E tuttavia le tracce del suo originario significato rimanevano in una fede diffusa, anche se spesso abitudinaria e tradizionalista, che faceva riempire  le chiese per la veglia natalizia .

Da quando  il consumismo si è impadronito delle festività cristiane per trasformarle in occasioni di marketing, anche il Natale ha progressivamente  perduto il suo riferimento alla nascita del Salvatore. In alcuni paesi europei anche la dizione è stata cambiata in quella di “festa del solstizio d’inverno”, rinunziando perfino alla menzione dell’evento celebrato nella tradizione cristiana.

Nella stessa direzione vanno – di sicuro senza averne l’intenzione – gli odierni tentativi di rinnovare lo stesso cristianesimo rinunziando all’unicità e irripetibilità  di quell’evento. Dio non sarebbe “Altro” dal mondo. È la tesi di chi sostiene che «il  Logos incarnato non va inteso nella sua esclusività dell’uomo Gesù ma comprende e si estende a tutto il creato» (P. Gamberini).

E, a questo punto, non avrebbe neppure senso parlare di un momento della storia in cui è nato il Salvatore. E, del resto, non ce ne sarebbe bisogno. Per gli essere umani «il mezzo salvifico è l’etica, è la vita buona, è la vita giusta. Questa etica professata e vissuta non fa altro che esprimere una logica eterna», (V. Mancuso), immanente alla realtà del mondo e d cui dobbiamo solo prendere coscienza, non l’irrompere di qualcosa di nuovo, di Qualcuno che “viene” tra noi. 

In questa visione ormai diffusa, di cui la perdita di significato del Natale è espressione, ad essere in gioco non è solo il nostro modo di guardare a Cristo, ma quello di vedere noi stessi e la nostra vita. Essa rispecchia, infatti, una idea –  propria dell’antichità e riproposta, alle origini dell’epoca post-moderna, da Nietzsche – , secondo cui la salvezza non può venire dalla storia, concepita, sul modello della natura, come un “eterno ritorno”, ma deve avere una portata cosmica. Non c’ è posto, in quest’ottica, per  l’unicità e la novità di un evento in cui Dio si manifesta, perché Egli ci parla nell’universalità dei fenomeni e della nostra coscienza.  

I cristiani, utilizzando per la celebrazione della nascita di Gesù,  la festa pagana del Natalis Solis invicti, che cadeva ciclicamente alla fine di dicembre,  hanno sancito precisamente la rivoluzione culturale e spirituale che oggi si sta cercando – con successo – di annullare.

 Chi lo fa non si rende conto che sostituire la festa del solstizio d’inverno al Natale significa sostituire una visione immutabile del destino umano alla fiducia che qualcosa di radicalmente nuovo possa accadere, anzi sia già accaduto in quella lontana notte di duemila anni fa, e operi ormai incessantemente, pur senza rumore, per trasformare la nostra vita a livello sia personale che comunitario.

Ma davvero Dio è venuto nella nostra storia?

Certo, bisogna ammettere che per credere nel Natale oggi bisogna avere molto coraggio. Del Messia i profeti avevano parlato come di colui che avrebbe, a nome di Dio, instaurato un regno di pace e di giustizia destinato a durare per sempre. Come si legge nel libro di Isaia:

«Egli sarà giudice fra le genti/e arbitro fra molti popoli./Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,/ delle loro lance faranno falci;/una nazione non alzerà più la spada/contro un’altra nazione,/non impareranno più l’arte della guerra» (Is 2,4).

Se si guarda a questa promessa alla luce della escalation della violenza  e dell’ingiustizia di cui siamo stati spettatori in questi mesi e dilaganti anche in questo periodo natalizio, –  si è portati a condividere un racconto della tradizione ebraica, in cui  si narra che un pio ebreo un giorno si recò dal proprio rabbi per confessargli di avere la terribile tentazione di farsi cristiano. «E se fosse davvero venuto?».

Il rabbi, dice il racconto, rimase in silenzio. Con una mano, scostò la tenda e guardò fuori. In strada un povero mendicante cencioso chiedeva l’elemosina, , un uomo picchiava un bambino, un ricco in abiti di lusso passava impettito, riverito da tutti. Lasciò ricadere la tenda e disse: «No, non è venuto».

Possiamo ancora credere nel Natale oggi, dopo quello che è successo a, che continua a succedere, in Ucraina, a Gaza? Non siamo costretti anche noi, come il saggio rabbi ebreo, a constatare con rassegnata tristezza: «No, non è venuto»?

A metterci in guardia dall’equivoco è la festa, subito seguente a quella del Natale, in cui si ricorda la strage degli innocenti. Il vangelo non ha mai avallato l’illusione che la nascita di Gesù dovesse eliminare il male dalla storia con un colpo di bacchetta magica. E le stesse condizioni di questa nascita, nella emarginazione e nella povertà, con la successiva fuga in Egitto, da povero rifugiato, la smentivano evidentemente.

Il Natale non segna l’avvento del Messia vittorioso atteso dalla maggior parte degli ebrei. In tutta la sua missione Gesù ha voluto prendere decisamente le distanze da questa figura. E la parabola del grano e della zizzania, destinati a crescere insieme fino alla fine dei tempi, è più eloquente di qualunque filosofia della storia.

Dio è venuto tra noi mettendosi dalla parte dei civili ucraini torturati e uccisi a Bucha, dei palestinesi bombardati, cacciati dalla loro terra, massacrati, degli sfollati del Sudan, dei migranti trattenuti nei campi di tensione libici o annegati nel Mediterraneo.

Il silenzio del Natale

Ma il Natale significa che nella profondità della storia operano ormai forze che non fanno rumore – come sono quelle della verità e dell’amore – e che, a dispetto  della loro apparente irrilevanza, continuano l’evento salvifico della venuta di Dio nel nostro mondo.

Oggi siamo tentati di credere che la storia stia dando ragione ai terroristi, agli arroganti, ai narcisisti, e che la sola possibilità di opporsi a loro  è di farlo con lo stesso spirito di odio e di violenza. Il Natale ci sfida a rifiutare questa logica. In realtà, la sola cosa peggiore di un mondo dove i fanatici e i prepotenti dilagano sarebbe un mondo dove, per combatterli, noi stessi ci riduciamo a diventare come loro.

Chi crede nella divinità di Cristo è chiamato a ricordare che duemila anni fa il Creatore delle galassie ha assunto la nostra inerme umanità nella sua forma più estrema, quella di un neonato infreddolito, rischiando di morire assiderato come  i bambini di Gaza.

Gesù ancora oggi nasce là, tra i poveri ucraini senza riscaldamento nel rigido inverno del loro paese, nelle tendopoli allagate della Striscia, negli sforzi dei medici e degli operatori umanitari che a rischio della vita restano accanto a questi disperati cercando di mantenerli in vita. In questa miseria, in questa impotenza – non nei trionfi dei grandi della terra – , si manifesta tutta la gloria di Dio.

Perciò non dobbiamo meravigliarci se, anche a Natale, il chiasso del circo mediatico e dei proclami dei politici domina incontrastato. Le cose grandi maturano nel silenzio. Nel silenzio Dio si è fatto uomo. E là ci chiede di incontrarlo e di continuare, con i nostri poveri sforzi, la sua incarnazione.

 www.tuttavia.eu

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QUALE SOSTEGNO ?


Per il Consiglio d'Europa l'Italia viola i diritti degli insegnanti di sostegno

Il Comitato europeo dei diritti sociali: ci sono miglioramenti, ma ancora troppa precarietà e non sono garantiti i diritti degli alunni con disabilità

 

di Paolo Ferrario

 

L’Italia nega il diritto degli insegnanti di sostegno ad un contratto di lavoro stabile e ad una formazione adeguata alla delicata funzione ricoperta e, allo stesso tempo, viola anche il diritto degli alunni con disabilità ad un’effettiva e compiuta inclusione scolastica e sociale. Lo scrive il Comitato europeo dei diritti sociali, organo del Consiglio d’Europa, accogliendo il reclamo contro l’Italia presentato nel 2021 dal sindacato autonomo Anief. Pur riconoscendo gli sforzi del Governo per migliorare la situazione (come, per esempio, i 50mila insegnanti di sostegno precari confermati nel proprio posto quest’anno per la prima volta), il Comitato ricorda la pesante situazione in cui versa ancora il sostegno scolastico nel nostro Paese.

Sono soprattutto due i dati messi sotto osservazione dal Comitato: l’elevato numero di docenti di sostegno precari (circa il 50% del totale) e l’alta percentuale di insegnanti incaricati seppur privi di specializzazione sul sostegno (il 27% secondo l’Istat). Per queste ragioni, secondo il Comitato europeo dei diritti sociali, l’Italia viola il diritto degli insegnanti di sostegno «a guadagnarsi la vita con un lavoro liberamente intrapreso» perché, appunto, «un’elevata percentuale è assunta con contratti precari» e un terzo circa, come detto, non ha potuto seguire la formazione necessaria per fare questo lavoro.

Contemporaneamente il Comitato, che evidenzia di aver esaminato la situazione fino al 19 marzo 2025, è giunto unanimemente alla conclusione che, proprio per queste problematiche irrisolte, nel Paese è violato anche il diritto a un’istruzione inclusiva degli alunni con disabilità.

Nella decisione il Comitato evidenzia poi che «il Governo riconosce che un gran numero di insegnanti di sostegno hanno un impiego precario», ma che da Roma si «sottolinea che il ricorso a contratti a tempo determinato nel settore dell’istruzione in generale, e nel campo del sostegno in particolare, è in parte inevitabile, data la difficoltà di prevedere in anticipo le esigenze specifiche a causa di numerose variabili quali il numero di alunni con disabilità e bisogni speciali che arrivano e lasciano la scuola, le richieste di trasferimento degli insegnanti, i congedi per malattia, i pensionamenti».

Il Governo italiano, scrive il comitato, «respinge pertanto con forza l’argomentazione secondo cui vi sarebbe una discrepanza tra il numero di posti assegnati e le esigenze effettive».

Nelle sue conclusioni il Comitato europeo dei diritti sociali indica, quindi, che la situazione è migliorata sotto diversi profili, anche quello legislativo, da quando l’Anief ha presentato il ricorso nel 2021. Strasburgo evidenzia che i dati a sua disposizione «dimostrano un impegno significativo da parte del Governo nel soddisfare la richiesta di sostegno per un numero crescente di alunni con disabilità». Facendo riferimento ai dati dell’Istat e quelli forniti dal governo, il comitato scrive che dall’anno scolastico 2010/2011 a quello 2022/2023 gli alunni con disabilità sono aumentati del 243%, passando da 139mila a 338mila e il numero degli insegnanti di sostegno è cresciuto del 248%, aumentando da 94.430 a 234.460.

«Tuttavia – osserva sempre il Comitato – questo aumento degli insegnanti di sostegno è in gran parte dovuto a un forte incremento dei contratti a tempo determinato, passati dal 4,19% nel 2010/2011 al 46,18% nel 2023/2024».

Strasburgo evidenzia anche di aver messo in conto che «per l’anno scolastico 2024/2025 è stata istituita una procedura di assunzione straordinaria per contribuire a ridurre la precarietà dell’occupazione degli insegnanti di sostegno», ma aggiunge che siccome «la nuova procedura non è stata ancora pienamente attuata non ha modo di valutarne l’impatto». Sul fronte della formazione, infine, il Comitato afferma che «pur riconoscendo gli sforzi compiuti dal Governo per aumentare l’offerta formativa e semplificarne l’accesso, secondo i dati ufficiali dell’Istat del febbraio 2024, un insegnante di sostegno su tre non ha completato la specializzazione richiesta».

Alla luce del pronunciamento del Comitato europeo dei diritti sociali, Anief chiede interventi correttivi in tempi brevi.

«Il Parlamento ora autorizzi tutte le immissioni in ruolo sui posti in deroga assegnati da diversi anni alle scuole – dichiara il presidente nazionale, Marcello Pacifico – e non si fermi, per ottenere la continuità didattica, alla conferma delle cattedre da parte delle famiglie. Nell’ultimo anno, infatti, sono stati autorizzati poco meno di 2mila posti in più in organico di diritto, la metà dei posti effettivamente utilizzati per garantire il diritto allo studio mentre, per la prima volta, 50mila supplenti sono stati confermati dalle famiglie. È un risultato che ci inorgoglisce – sottolinea Pacifico – perché rappresenta una risposta fondamentale per vincere, dopo anni di ricorsi e denunce anche all’Unione europea, la nostra battaglia contro l’abuso dei contratti a termine sui posti in deroga, per aumentare il numero di docenti specializzati rispetto all’errato numero programmato degli Atenei, per assegnare tutte le ore di sostegno riconosciute dal Pei».

Sulla decisione del Comitato europeo dei diritti sociali, prende posizione anche la segretaria generale Snals-Confsal, Elvira Serafini: «Non è più accettabile che il diritto allo studio degli alunni con disabilità sia subordinato a un sistema fondato sulla precarietà strutturale. Servono interventi immediati e non più rinviabili».

Per il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, «le conclusioni del comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa», confermano «che la situazione in Italia è migliorata sotto diversi profili, anche quello legislativo, rispetto a quando l’Anief ha presentato il ricorso nel 2021». «Il Consiglio d’Europa – ribadisce Valditara – ha riconosciuto, infatti, un impegno significativo da parte di questo Governo nel soddisfare la richiesta di sostegno per un numero crescente di alunni con disabilità. Il Comitato dà inoltre atto al Governo delle recenti misure sulla conferma del docente supplente di sostegno e sui nuovi percorsi di specializzazione dell’Indire: misure che ho fortemente voluto per dare risposte concrete ai giovani e alle loro famiglie. Tutto questo dimostra che, rispetto al 2021, anno di presentazione del ricorso, il quadro è in netto miglioramento nonostante la situazione di grave inadeguatezza strutturale che abbiamo ereditato».


Scopri anche

www.avvenire.it

 

 


TRASMETTERE IL DESIDERIO

 



“La scuola deve

 trasmettere 

il desiderio 

per contrastare

 il disagio giovanile”. 


Insegnanti chiamati a testimoniare passione e vocazione in aula

 

-di Andrea Carlino

 

Lo psicoanalista Massimo Recalcati ha presentato al Festival Internazionale dell’Economia 2025 di Torino una lettura del disagio giovanile basata su 35 anni di ricerca clinica.

 L’analisi collega la sofferenza psichica delle nuove generazioni alle trasformazioni sociali ed economiche contemporanee. Il quadro delineato evidenzia come il malessere giovanile non rappresenti una colpa individuale ma il sintomo di una società che ha smarrito il senso della Legge.

Neolibertinismo e neomelanconia: i due paradigmi del malessere

Recalcati identifica due modelli dominanti che definiscono la condizione attuale dei giovani. Il paradigma neolibertino si fonda sul “discorso del capitalista” e produce legami sociali frammentati. Il consumo compulsivo di oggetti-gadget sostituisce il desiderio autentico e genera una “clinica dell’antiamore” in cui i giovani cercano rifugio nelle dipendenze per evitare l’incontro reale con l’altro. Il paradigma securitario rappresenta la seconda polarità e si manifesta come ritiro dalla vita. Il fenomeno degli Hikikomori esemplifica questa tendenza: molti giovani scelgono di uscire dalla scena sociale, spaventati dalla competizione e dal principio di prestazione. Il ritiro produce una “glaciazione delle passioni” attraverso l’innalzamento di mura psichiche.

Il ruolo della scuola nella trasmissione del desiderio

La scuola deve trasformarsi in luogo di testimonianza per superare le forme di schiavitù descritte. Recalcati distingue il capriccio dal desiderio, che nella psicoanalisi “assomiglia alla vocazione: una potenza indistruttibile che orienta la vita e trasforma il dovere in una manifestazione del proprio talento”. La trasmissione del sapere avviene per contagio: gli studenti necessitano di adulti che testimonino con la propria vita la possibilità di vivere “accesi”. 

Gli insegnanti entrati in aula annoiati o senza desiderio non riescono a trasmettere il fuoco del sapere. 

Le organizzazioni scolastiche devono abbandonare il privilegio del rendimento quantitativo per valorizzare il soggetto nella sua unicità, passando dalla cura del numero alla cura del “nome proprio”. Gli adulti sono chiamati a sostenere la “follia” del desiderio dei figli anche quando questo implica lo scioglimento dei legami familiari.

 Orizzonte Scuola

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UNA SPERANZA RAGIONEVOLE

 


La speranza 

contro 

la facile abitudine

 

Testimone degli sforzi di molti per resistere alla disperazione, Svetlana Panič condivide la sua riflessione su cosa significhi sperare oggi, riscoprendo la novità insita in ogni cosa. Pubblichiamo un estratto dell’incontro tenutosi a Varese il 3 novembre 2025.

 

-di Svetlana Panič *

 

«Benché prossimo alla tomba
Io credo, verrà il tempo in cui
La forza dell’astio e della viltà
Sarà vinta dallo spirito del bene»

(B. Pasternak, Premio Nobel, 1959)

È molto difficile e impegnativo dire in cosa consista per noi la speranza, intesa non come ideale ingenuo, né come virtù astratta, ma come la speranza ragionevole, sobria, lucida, «senza vergogna» di cui parla san Paolo, la sola a cui ora possiamo aggrapparci.

La prima difficoltà che si presenta è che non è chiaro come parlarne. È del tutto evidente che noi, generazione che vive i primi decenni del XXI secolo, eravamo convinti di aver imparato la lezione delle catastrofi del secolo precedente, pensavamo di essere tecnologicamente e psicologicamente più illuminati e per certi versi anche più umani, consapevoli della fragilità dell’uomo e del mondo.

Ma non eravamo affatto preparati né alla pandemia, né alla “svolta a destra”, né al fatto che ci saremmo trovati nel mezzo di due guerre che hanno sconvolto tutte le nostre convinzioni, apparentemente consolidate nella seconda metà del XX secolo. Si è scoperto che non abbiamo un linguaggio per descrivere tutto questo. Il linguaggio politico e sociologico forse si sta sviluppando, ma non esiste ancora un linguaggio teologico, una narrativa cristiana che riesca a dire qualcosa se non di profetico, quanto meno di consolatorio e rassicurante.

Anche la tradizionale narrativa cristiana sulla consolazione e sulla speranza, come si è visto, non funziona più, quel linguaggio non era pronto a descrivere ciò che sta accadendo ora a noi e al mondo.

Si potrebbe così cadere nella disperazione di un “nuovo mutismo”, ma, fortunatamente, abbiamo maestri di speranza che hanno vissuto in tempi non meno catastrofici, e Boris Pasternak è uno di loro. Il 14 agosto 1946 fu emanata la risoluzione contro le riviste Zvezda e Leningrad, dichiarate portavoce di «un’ideologia estranea allo spirito del partito» e iniziarono le persecuzioni contro Anna Achmatova, altri poeti e scrittori «privi di idee». Pasternak era ben consapevole che questa volta le persecuzioni avrebbero colpito anche lui, ed era ormai evidente che le aspettative di un miglioramento sociale con la fine della guerra non si sarebbero realizzate. Inoltre, apprese della morte dei suoi amici più cari, in guerra o per mano dei carnefici di Stalin. Di questo periodo Pasternak racconterà dieci anni dopo, in una poesia rivolta al principale protagonista delle sue liriche, l’anima, con cui instaura un dialogo, come nella tradizione salmodica:

Anima mia che trepidi
per quelli che mi attorniano,
sei divenuta il loculo
dei martoriati vivi.

[…]

nel nostro tempo egoistico
per scrupolo e paura,
come urna funeraria
tu ne ospiti le ceneri. 

(B. Pasternak, Anima, 1956).

Eppure, negli stessi anni scrive anche:

«Si potrà vincere la morte
Con lo sforzo della resurrezione»

 (B. Pasternak Nella settimana santa, 1948).

O, come recita la poesia Premio Nobel [citata in esergo] scritta nel pieno della persecuzione sovietica per essere stato insignito del prestigioso premio internazionale:

«La forza dell’astio e della viltà
Sarà vinta dallo spirito del bene» 

(B. Pasternak, Premio Nobel, 1959).

Ora, rileggendo questi versi nel mezzo dell’attuale «viltà e astio», che minacciano una catastrofe antropologica,

viene spontaneo chiedersi: da dove veniva la certezza che «lo spirito del bene» sicuramente prevarrà, quando la realtà sembra smentirlo completamente?

Qui viene in aiuto un altro «maestro di speranza», Charles Péguy, il quale scriveva che la speranza non si contrappone allo scoraggiamento, ma all’abitudine, al rifiuto della novità, perché «la cosa facile e la tendenza è disperare» (Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, 1911).

Ricordiamo che per Péguy la speranza è una bambina «piccola» e «debole», per nulla vivace, positiva e ottimista nel senso inteso dalla cultura popolare e dalla psicologia di massa. È una creatura piuttosto vulnerabile, «vacillante al soffio del peccato, tremante a tutti i venti» e allo stesso tempo «stabile, fedele, dritta, pura, invincibile», ricorda la Sapienza biblica, ma allo stesso tempo, come ogni bambino incorrotto, è pronta ad aprirsi al nuovo e allo stupore.

«E la mia piccola speranza
ogni giorno si alza dal suo lettino e
ci dice: buongiorno!»
 

(Charles Péguy, Il mistero dei santi innocenti, 1919).

Questa apertura al «buongiorno», cioè alla novità, è lo «sforzo della resurrezione» di cui parla Pasternak. Nella tradizione ebraica esiste una benedizione speciale per le novità, che inizia con un ringraziamento ad Hashem [il Nome di Dio] per averci protetto e averci permesso di arrivare al giorno in cui possiamo indossare un vestito nuovo o mangiare il primo arancio dell’anno, incontrare una persona nuova.

C’è anche una preghiera speciale in cui si chiede: «aiutaci a vivere la novità di ogni giorno». Questa novità può essere rischiosa, difficile, a volte sembra che sarebbe meglio se non ci fosse e tutto rimanesse com’è. Ma ogni mattina dico a me stessa che, pensandoci bene, questo è il primo giorno, che non c’è mai stato prima né ci sarà più, e in esso si compie la storia, come una domanda rivolta a me, sul mio coinvolgimento e la mia collaborazione in questa storia.

E ricordiamo ancora una volta Péguy:

«E la mia piccola speranza
Ogni sera si corica nel lettino
E, dopo aver recitato le preghiere della sera, dorme tranquilla,
Per accogliere il mattino che sorge
Con una nuova parola e una nuova preghiera».

Cos’altro si può definire «sforzo della resurrezione»? Lo sforzo ascetico, cioè che richiede il rigore e la costanza di raccogliere «i frammenti della propria mente sbriciolata a poco a poco dai macigni delle «ultime notizie», e di cercare di comprendere la realtà rifiutando le stigmatizzazioni e le generalizzazioni ideologiche come «tutti loro» («russi, ucraini, abitanti di Gaza, israeliani»), molto vantaggiose per la propaganda dei regimi totalitari. In altre parole, è lo sforzo di rifiutare le abitudini, questa volta intellettuali, lo sforzo di rinunciare alle illusioni di onniscienza e di onnicomprensione per lasciare spazio agli interrogativi.

È, infine, lo sforzo della compassione, dell’empatia e della solidarietà. E qui ci viene in aiuto un’altra maestra di speranza, madre Marija Skobcova, la santa di Parigi:

«Non pensare a cosa e a come, non puoi creare niente di più grande delle parole “amatevi gli uni gli altri”, ma fino in fondo e senza eccezioni, e allora tutto sarà perdonato e tutta la vita sarà santificata. Altrimenti sarà solo abominio e pesantezza».

 

La Nuova Europa

 

*Svetlana Panič

Filologa, è stata ricercatrice presso l’Istituto Solženicyn di Mosca fino al 2017, ora è traduttrice e ricercatrice indipendente.

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