lunedì 14 luglio 2025

RIPUDIA LA GUERRA, PREPARA LA PACE


 Ai politici dico: “Se vuoi fare politica, non devi riarmare. Devi ripudiare la guerra. La tua arma è la diplomazia, il tuo dovere è metterci la faccia anche con chi consideri nemico.”



 di p. Francesco Moscone 

 1. Educazione, linguaggio e cultura: tra fratellanza e competizione 

 Un grazie particolare al mio confratello mons. Giovanni, e grazie per questo invito che, ovviamente, non mi aspettavo. È arrivato attraverso il seminario di Molfetta. Dopo l’excursus della professoressa Marchetti non saprei che cosa aggiungere. Dico innanzitutto che aderisco in pieno a tutto quanto ho ascoltato, in particolare alle osservazioni finali relative al mondo della scuola e all'educazione in Europa, e in Italia in particolare. 

Quando si cambiano i termini, non si fa solo un’operazione linguistica e di vocabolario, ma si compie un’operazione culturale, e a volte anche un’azione di inquadramento del popolo, fino a oscurare il pensiero libero. 

L’aver rinominato il “Ministero della Pubblica Istruzione” in “Ministero del Merito”, quando lo sentii per la prima volta, mi fece davvero ribollire. 

L’educazione deve costruire la fratellanza, non può essere orientata alla competizione. Nella misura in cui si introduce la competizione, si forma inevitabilmente alla violenza, all’aggressività, alla divisione e, infine, si motiva la guerra stessa. Mi colpisce anche il modo subdolo con cui il mondo militare entra oggi nelle scuole, persino nella scuola primaria. Ho visto portare, su invito, i piccoli pazienti di Casa Sollievo della Sofferenza della pediatria oncologica all’aeroporto militare di Amendola, per far loro visitare i caccia, salire a bordo e, ufficialmente, per distrarli e offrir loro un momento di felicità. Mi sono chiesto: “Ma che cos’è questo? Che cosa vuol dire tutto ciò?” 

La mia storia proviene dal mondo della scuola e dell’educazione. Per questo motivo questi cambiamenti mi fanno pensare a un futuro diseducativo, che divide invece di unire, che non aggrega, che rifiuta la solidarietà che allontana la fratellanza. 

 2. Guerra, verità e democrazia tradita 

 Io ho due padroni – ogni tanto lo dico – perché, come vescovo rispondo alla CEI e al Papa, ma come responsabile della Fondazione di Casa Sollievo della Sofferenza e delle opere di Padre Pio, rispondo alla Segreteria di Stato. La Segreteria di Stato mi ha detto di essere “prudente” quando parlo di certi argomenti: un modo per tirarti le orecchie senza farti male! Ma come si può essere prudenti oggi, di fronte a ciò che vediamo e di cui siamo testimoni? Se “prudenza” vuol dire fermarsi e aspettare, allora non è più possibile tacere. 

La prima arma che abbiamo, a mio giudizio, è dire le cose come stanno. Il comandamento di non dire falsa testimonianza parte dagli occhi e 1 dall’osservazione: si guarda, si ascolta, poi si parla e, se serve, si denuncia assumendosi la responsabilità. Quanto sta accadendo a Gaza – ma non solo lì – è un genocidio. È un’azione disumana, voluta, non semplice una reazione ai fatti del 7 ottobre 2023. È qualcosa di pianificato da decenni, fin dalla nascita di quello Stato ebraico che, come europei ed occidentali, abbiamo definendolo “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Ma quando una democrazia – che dovrebbe essere il più umano dei regimi – si comporta così, allora diventa il peggiore dei regimi. 

Quando le democrazie pianificano e portano avanti certe azioni, si conferma il detto latino «corruptio optimi pessima» - la corruzione delle cose migliori porta al male peggiore. Lo vediamo con lo Stato di Israele, ma anche con le nostre democrazie occidentali, a partire da quella statunitense. 

 Non mi piace definire “America” gli Stati Uniti. L’America è molto altro, e grazie a Dio, anche migliore! Persino il paese confinante con gli USA si chiama “Stati Uniti”, ma del Messico”! La democrazia statunitense, dalla fine della Prima guerra mondiale, ancor più dopo la Seconda, è stata proposta come ideale assoluto, autorizzandola a programmare e giudicare il mondo secondo i propri interessi, a dividere le nazioni in buone e cattive, in stati amici e “canaglie”: questo modalità di giudicare non è accettabile. 

L’Europa, invece di essere autonoma, ha seguito gli USA come un cagnolino al guinzaglio. Eppure, le nostre leggi ora vietano anche di tenere gli animali al guinzaglio. 

L’Europa che si lascia guidare dagli Stati Uniti rinnega la propria identità. Le sue radici sono greche, romane, cristiane. Ricordo lo storico Giovanni Reale che parlava dell’Europa come nata in Grecia con la pólis, nata a Roma col diritto romano, cresciuta nei valori ebraico-cristiani della Bibbia e sviluppatasi con la scienza moderna e libera a partire da Bacone e Galileo. Ora stiamo tradendo tutto questo, lasciando che dieci super-ricchi con trilioni di dollari – come Elon Musk o Bezos – determinino l’agenda mondiale. 

Quando ho sentito che il presidente del Veneto accoglieva con entusiasmo Bezos a Venezia per lo sfarzo del suo matrimonio, ho pensato: “Perché questo entusiasmo non lo promette anche a chi fugge dal Nordafrica e rischia la vita sui barconi senza arrivare con jet privati e lussuosi?” 

 3. Nato, conflitti e occasioni mancate

Dobbiamo avere il coraggio di liberarci da questo guinzaglio USA. E, lo dico fuori da ogni prudenza e senza mezzi termini, a mio giudizio ciò significa uscire dalla NATO. 

Negli anni ’80, da giovane prete, prima della caduta del Muro, cercavo esperienze originali per l’animazione giovanile. Scoprii i pellegrinaggi a piedi verso Częstochowa, in Polonia, e vi partecipai accompagnando giovani. Mi presentavo come studente, anche se sapevano che ero prete. Dopo la caduta del Muro, i miei superiori mi chiesero di fondare una casa religiosa in quelle zone. Quando, nel 1991, si dissolse l’Unione Sovietica,  crollò anche il Patto di Varsavia. Quello era il momento giusto per sciogliere anche la NATO. Ma l’Occidente, convinto di essere vincitore, perse l’occasione di essere giusto e veramente libero. Fu allora che si riaprì la divisione del mondo. Avremmo dovuto riconoscere l’unità dell’umanità, come diceva Kant: “La terra è sferica, e ovunque vai, ti rincontri.” Invece, l’Occidente disse: “Noi abbiamo vinto, voi avete perso.” Riaprimmo la frattura della “guerra fredda” rendendola globale su tutto il pianeta. 

Una seconda occasione persa furono i trattati di Minsk (Bielorussia). Se l’Occidente li avesse rispettati, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non sarebbe avvenuta. Papa Francesco aveva ragione nel dire: “Siamo andati ad abbaiare sotto la porta di casa della Russia.” Io vivevo in Polonia quando questa entrò nella NATO e mi dissi: “stiamo andando verso una nuova guerra mondiale.” Giovanni XXIII, nella «Pacem in terris» (1963), scrisse che la guerra è «alienum a ratione», fuori dalla ragione. 

Dopo Hiroshima e Nagasaki non ci sono più motivi per non affermare che la guerra è contro la ragione. Eppure, continuiamo a costruire armi. Il culmine dell’ipocrisia è stato convincere Zelensky a non trattare con l’aggressore. È falso: non trattare significa prolungare la guerra ad oltranza a solo beneficio di chi costruisce armi. 

 4. Diplomazia e pace come scelta politica 

La diplomazia è uno strumento razionale, la guerra è uno strumento irrazionale. Quando ieri la nostra premier ha citato il proverbio «Si vis pacem, para bellum», le risponderei: “Cara Giorgia, studiati la storia.” Tutte le volte che si sono preparate armi, sono state usate, non tenute come soprammobili o monili da ostentare. 

Condivido l’analisi del Professor Alessandro Barbero: la situazione attuale somiglia a quella che precedette la Prima guerra mondiale. Dopo quarant’anni di pace, ci fu una corsa agli armamenti e quelle armi purtroppo vennero usate. La Prima guerra mondiale portò alla Seconda, poi alla Guerra fredda, ma anche a tanti conflitti attivi. 

Vorrei raccontare un’esperienza personale, a conferma che si deve sempre trattare. Nel 2006, da vicario generale della mia congregazione, andai in Sri Lanka, in piena guerra civile tra i cingalesi e le Tigri Tamil. I miei confratelli indiani, dopo lo tsunami del 2004, avevano avviato un progetto per costruire un villaggio per bambini. Per poterlo realizzare, dovetti incontrare sia i rappresentanti del governo locale ufficiale sia i leader delle Tigri Tamil (definiti dai primi “terroristi”). Solo così il progetto fu possibile, si è sviluppato ed è ancora attivo. Se avessimo trattato con una sola parte, l’altra lo avrebbe distrutto o ci avrebbe arrestato.

 Ai politici dico: “Se vuoi fare politica, non devi riarmare. Devi ripudiare la guerra. La tua arma è la diplomazia, il tuo dovere è metterci la faccia anche con chi consideri nemico.” L’Europa oggi non lo sta facendo. Vuole solo riarmare, magari per sostenere l’industria automobilistica tedesca... e un po’ anche la nostra in crisi. 

 Sono convinto che, almeno dalla Prima guerra del Golfo, passando per le guerre dei Balcani negli anni ’90, tutti i governi italiani, che si sono susseguiti e di colori diversi, hanno progressivamente smesso di rispettare l’articolo 11 della Costituzione. 

Abbiamo avuto, almeno in parte, governi anticostituzionali. 

 Non so se sono stato prudente. Ditemelo voi. 

 + p. Franco Moscone crs Brindisi

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 L’autore è arcivescovo di Manfredonia, Vieste e San Giovanni Rotondo. 

 Testo pubblicato il 25.6.2025 in www.archiviodischiena.it

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sabato 12 luglio 2025

UN SAMARITANO

 


IL SAMARITANO:

 PSEUDONIMO 

DI GESU’


-Vangelo: Luca 10,25-37  - 

Commento di  Don Augusto Fontana

Si chiama “reato di omissione di soccorso” quello del sacerdote e del levita che transitano fischiettando accanto all’uomo colpito dai rapinatori. Reato diffuso oggi sui cigli delle strade da criminali che feriscono o uccidono e tirano dritto; reato che assume proporzioni intollerabili quando non si compie on the road ma nella mia e, forse, tua coscienza. Lì abbiamo steso una pellicola impermeabile ad ogni notizia che riguarda la carne ferita di uomo, donna, vecchio, bambino, carne della nostra carne. Il samaritano della parabola fu, tutto sommato, fortunato: incontra un ferito una volta nella vita ed è, per questo, santificato da Gesù nel suo vangelo per i secoli dei secoli. Ma noi, ogni giorno vediamo, sappiamo, conosciamo carni maciullate, schiave esposte, bimbi violati di sesso o di armi o di lavoro. Siamo all’assuefazione, alla indifferenza inescusabile ma inevitabile. Don Milani difendeva il “principio della cura” (I care = mi preoccupo) contro quella qualunquistica indifferenza di ieri che oggi ha infettato anche me. E mi chiedo come fa Dio, il Signore, a non diventare un po’ assuefatto pure lui che da quel giorno sul monte Oreb continua a guardare, ascoltare e scendere per liberare: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto» (Es. 3,7-8).  Non sempre ne vedo chiaramente gli esiti e Lo attendo al varco nell’invocazione: «Signore, mio padre tu sei e campione della mia salvezza, non mi abbandonare nei giorni dell’angoscia, nel tempo dello sconforto e della desolazione» (Siracide 51, 10).
Padre Antonio Izquierdo scrisse, con una felice intuizione, che «il buon samaritano è lo pseudonimo di Gesù».
I Padri della Chiesa (Ambrogio, Agostino, Gerolamo e altri) tenendo conto di tutto il simbolismo di Gerusalemme, la città santa della salvezza, interpretano in modo particolare questa parabola. Nell’uomo che scende da Gerusalemme verso Gerico vedono la figura di Adamo ribelle che rappresenta tutta l’umanità espulsa dall’Eden, la Gerusalemme Celeste. Nei briganti che assalgono l’uomo, vedono il tentatore che ci spoglia dall’amicizia con Dio. Nella figura del sacerdote e del levita vedono l’insufficienza dell’antica Legge per la nostra salvezza che sarà portata a compimento dal nostro Buon Samaritano, Gesù Cristo, che partendo anche lui dalla Gerusalemme celeste ci cura con l’olio della consolazione e il vino dello Spirito e della speranza. Nella locanda i Padri vedono l’immagine della Chiesa e nella figura dell’albergatore intravedono i fratelli nelle mani dei quali Gesù affida la cura dei con-fratelli. La partenza del samaritano dall’albergo, i Padri la interpretano come la risurrezione e l’ascensione di Gesù che promette di ritornare per dare a ciascuno il suo merito. Alla chiesa Gesù lascia per la nostra salvezza i due denari: la Sacra Scrittura e i Sacramenti. Questa interpretazione allegorica e mistica del testo ci aiuta a cogliere bene il messaggio di questa parabola.
FARSI “PROSSIMO”.
«Credo che per leggere onestamente la parabola dobbiamo non tanto identificarci con il protagonista positivo, ma comprendere che di noi fanno parte anche il sacerdote e il levita e che i tre personaggi sono momenti di un unico faticoso movimento verso una vera compassione»[1], arrivare non solo a “sentire compassione”, ma a “fare la compassione” (S.Gerolamo traduce “fecit misericordiam” = fece la compassione).
Un uomo incappò nei ladroni
Gesù ambienta la parabola in questa strada tra Gerusalemme e Gerico, nota per le sue insidie. Quest’uomo è ognuno di noi camminatori imprudenti su sentieri che conducono lontano dall’Eden. «Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri… Tutti i sentieri del Signore sono verità e grazia per chi osserva il suo patto e i suoi precetti» (Salmo 24, 4. 10). Questa strada si presta a interpretare bene anche la nostra situazione di discepoli: “Ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” (Lc 10, 3); “Vegliate e pregate per non cadere in tentazione” (Lc 22, 46).
Un sacerdote vedendolo passò dall’altra parte
Il primo personaggio che transita è un professionista della religione, conosce la legge di Dio, guida la preghiera, passa il suo tempo in chiesa, quindi si trova per caso sulla via della sofferenza dell’uomo ma, appena la sbircia, gira alla larga. L’essere accanto all’uomo che soffre, non fa parte dei suoi programmi e doveri: egli deve interessarsi delle cose di Dio. E Gesù lo ripudia come eterno rappresentante dell’indifferenza del cuore. Se non sapessimo che questa parabola risale a Gesù  la diremmo nata dalla mente dissacratrice di un nemico della religione,  un’invenzione sacrilega di un anticlericale denigratore di preti. Ma siccome è Gesù a parlare ci mettiamo in ascolto di una profezia che vuole colpire liturgie e pratiche religiose avulse dalla carità e dalla vita: «Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli» (Isaia 1,13-14).
Anch’io devo passare dall’orto-dossia (“hai risposto bene [in greco = orthôs]”) alla orto-prassi (“fai questo e vivrai”).
 Un levita
Il secondo personaggio è un funzionario che “arriva sul posto” e anche lui “passa dall’altra parte”. Tutti e due “passano dall’altro lato” con un gesto non solo di indifferenza, ma di esplicito scostamento. È diverso dal Gesù-samaritano che arriva “vicino a lui” (prossimo). Il levita è il tipo di tutti coloro che, nella Chiesa o nella parrocchia, sono sempre ai loro posti, notai di Istituzioni, di Leggi, di Immobili e di Tradizioni secolari e sanno distinguere bene le eccellenze, le eminenze e i monsignori, le Rubriche rituali e i paragrafi dei Codici.
Un samaritano era in viaggio…
Il terzo personaggio è Gesù, questo “extracomunitario samaritano” che si avvicina: «questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» e io non possa accampare scuse dicendo che Dio è irraggiungibile. L’Incarnazione è un Dio che anziché chiudersi in se stesso in maniera narcisistica e oziosa sceglie di aprirsi all’esterno. E’ ciò che i Padri antichi della chiesa hanno sintetizzato con l’idea della “con-discendenza” (syn-katàbasis), cioè il suo essere-per-l’uomo. Il teologo Chenu, in periodo di Concilio Vaticano II, chiamava questa modalità dell’agire di Dio, “legge dell’estroversione[2]. Il Concilio Vaticano II nella “Gaudium et spes” scrive: “Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo … egli si è fatto veramente uno di noi” (GS n. 10). E’ per questo motivo che “chiunque segue Gesù Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo” (GS n. 41). Il Gesù-samaritano sembra non gradire certi riti che privilegiano più il salotto che la strada, più le pantofole che gli scarponi da viaggio, più la vestaglia da camera che il bastone del pellegrino.
…passandogli accanto…
Altre volte questo “passare accanto” di Gesù ha scatenato campi magnetici tonificanti: Mat. 20, 30 «Ed ecco che due ciechi, seduti lungo la strada, sentendo che passava, si misero a gridare:  «Signore, abbi pietà di noi, figlio di Davide!»; Mc 1,16 «Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare…»; Mc 2,14 «Nel passare, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse:  «Seguimi».  Egli, alzatosi, lo seguì»; Lc 19,4 «Allora Zaccheo corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là».
Lo vide.
Anche il “vedere” è una qualità di Dio e un suo dono. Non per niente Gesù guarisce parecchi ciechi. Ci vogliono occhi per vedere i poveri. “La povertà non è solo quella del denaro, ma anche della mancanza di salute, la solitudine affettiva, l’insuccesso professionale, la disoccupazione … gli handicap fisici e mentali, le sventure familiari e tutte le frustrazioni che provengono dall’incapacità di integrarsi nel gruppo umano più prossimo” (Paolo VI).
Sono i drop-out: i “caduti fuori” dal circuito, i caduti in disgrazia. Per loro il Gesù-samaritano ripete il rito del Padre misericordioso: «Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Luca 15,20).
Ne ebbe compassione.
Significa sentirsi provati emotivamente nell’indignazione e nella compassione materna, guardare la storia e la geografia dall’angolo dei poveri. Uno dei termini con cui  l’A.T.  indica la misericordia è rahamim, che propriamente designa le “viscere materne” ed è usato per esprimere quel sentimento intimo, profondo e amoroso che lega due esseri per ragioni di sangue o di cuore. Is 49,15: “Forse che la donna si dimentica del suo bambino, cessa di avere compassione del figlio delle sue viscere? Anche se esse (viscere) si dimenticassero, io non ti dimenticherò”.

Lettera enciclica “Fratelli tutti”.
Papa Francesco ha dedicato tutto il capitolo secondo della “Fratelli tutti” alla rilettura e attualizzazione di questa Parabola.


[1] Eucaristia e parola, a cura della comunità di Bose,  Ed. V&P.
[2] Chenu M.D., “Pour une anthropologie sacramentelle”, in La Maison Dieu 119 (1974) 86.

SESTO GIORNO

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venerdì 11 luglio 2025

GIOVANI e POLITICA

 


A che cosa oggi 

la politica 

educa i giovani

 


-       di  Giuseppe Savagnone 


 Un aspetto trascurato

Un aspetto della politica che raramente viene preso in considerazione è la sua ricaduta sul piano educativo. Non mi riferisco qui all’influsso intellettuale delle ideologie, ormai in profonda crisi. 

Ma già Aristotele aveva osservato che nella sfera morale l’educazione alle virtù – oggi parliamo preferibilmente di valori – non dipende tanto da “prediche” astratte, quanto dall’esempio che viene dall’ambiente in cui si cresce e si vive.   

Di questo ambiente vitale fa parte la politica. Di politica e delle scelte di coloro che la gestiscono parlano ogni giorno i quotidiani e i notiziari radiofonici e televisivi. E i protagonisti della vita pubblica rappresentano inevitabilmente dei modelli etici.

Ciò vale per tutti, ma in particolare per i giovani, che inevitabilmente vedono nel successo di un personaggio politico la conferma del sistema valoriale a cui i suoi comportamenti si ispirano. Naturalmente parliamo qui dei leader riconosciuti dai mezzi di comunicazione e dall’opinione pubblica come espressioni della nostra civiltà e del nostro costume.  È improbabile che si guardi a Putin o a Xi Jinping come a modelli etici. 

Trump e Callicle

E perciò in primo luogo la domanda che ci poniamo riguarda il presidente del paese che dalla fine della seconda guerra mondiale costituisce il punto di riferimento non solo politico, ma anche culturale, dell’Occidente. Quali valori suggerisce il modo di Donald Trump di intendere e di vivere la politica?

Il Tycoon lo ha dichiarato, fin dalla sua campagna elettorale: il suo obiettivo è quello di “Rendere di nuovo grande l’America”. L’elemento, però, che differenzia la sua politica da quella dei suoi predecessori – i quali, pur senza dirlo così apertamente, perseguivano lo stesso obiettivo – è che essi ritenevano di poterlo conciliare con l’idea di un bene comune più ampio, inclusivo di quello degli altri paesi disposti a camminare sulla via della democrazia.

Per Trump, invece, il primato degli interessi degli Stati Uniti comporta, inesorabilmente, la loro affermazione illimitata, a spese anche di quanti erano stati finora amici o almeno alleati dell’America. 

Il punto è che, per il presidente americano, il bene non è un valore integralmente umano – comprensivo, perciò, della dimensione morale e di quella relazionale  –  , destinato perciò ad accrescersi se condiviso, ma tende a identificarsi con gli “interessi,” in primo luogo con quelli rappresentati dalla ricchezza e dal potere.  Perciò, come di qualunque realtà materiale, per assicurarne una quota maggiore agli Stati Uniti si deve inevitabilmente ridurre quella degli altri. 

Questo atteggiamento competitivo esige il ricorso alla forza, anche in violazione di tutte le regole. Trump, a proposito del diritto internazionale, mostra di condividere (probabilmente senza saperlo) la tesi che Platone mette in bocca a Callicle, quando, nel Gorgia, replica agli argomenti di Socrate che difende il valore imprescindibile della legge morale e giuridica: «Io credo che ad inventare la legge sia stata la massa dei deboli. Dunque, a proprio favore i deboli pongono le leggi (…), dicono che è brutto e ingiusto mettersi al di sopra degli altri (…). E la loro mira – a mio parere – sta nell’ottenere l’uguaglianza, pur essendo più deboli (…). Ma mi pare che la natura stessa mostri che giusto è che chi è migliore abbia più di chi è peggiore e chi è più potente abbia più di chi è meno potente (…), che il più forte domini il più debole e abbia più di lui (…). Ma, ne sono convinto, se nascesse un uomo dotato di una natura forte quanto occorre, allora essa scuoterebbe da sé tutte queste remore, le spezzerebbe e si ribellerebbe ad esse, calpesterebbe le nostre scritture, i nostri incantesimi e i nostri sortilegi e le nostre leggi» .

Questo passo esprime bene la portata educativa della questione. Socrate è stato un educatore di giovani, come lo erano i sofisti, che miravano a formare le nuove generazioni proponendosi di insegnare loro ad affrontare la vita come realmente è. Platone impersona in Callicle la posizione di questi ultimi. Ma il dibattito del Gorgia si è prolungato nei secoli e le prese di posizione di Trump dimostrano che dura fino ad oggi.

Al di là delle leggi

Sulla linea di Callicle il presidente si è posto quando ha dichiarato senza mezzi termini, fra lo sbalordimento generale, di volersi annettere, anche con la forza, la Groenlandia, che appartiene alla Danimarca, con la sola giustificazione che ciò è nell’interesse degli Stati Uniti. 

Calpestando così apertamente tutte le regole del diritto internazionale e tutti gli accordi (la Danimarca è un membro della NATO dunque, per statuto, un alleato che gli Stati Uniti dovrebbero difendere in caso di attacco esterno!). La forza al posto del diritto, l’interesse particolare dell’America – il solo che conti – che cancella bene e il giusto.

Nella stessa prospettiva Trump – sempre in nome della sua interpretazione economica degli interessi degli Stati Uniti –  ha rivoluzionato le regole e violato tutti gli accordi riguardanti il commercio internazionale, utilizzando lo strapotere economico del suo paese per imporre agli altri, anche agli amici e agli alleati, le sue decisioni in materia di dazi.

Non per far nascere un nuovo ordine, ma col chiaro intento di evidenziare, con la stessa imprevedibilità delle sue scelte, il proprio assoluto potere rispetto a qualunque ordine.

La stessa pretesa di onnipotenza ha ispirato l’annuncio del Tycoon a un mondo incredulo del suo progetto di trasformare Gaza in un resort turistico di lusso, cacciando coloro che lo abitano.

Anche questa volta, come per i dazi, non si è trattato solo di minacce, perché, proprio grazie all’appoggio politico e militare di Trump, il premier israeliano Netanyahu ha potuto rompere la tregua che a gennaio aveva accettato e riprendere, con una violenza più cieca e disumana di prima, il massacro sistematico dei civili palestinesi, per convincerli ad andarsene “liberamente” dalla loro terra.

Questo esercizio illimitato della forza per garantire l’inizio di una «età dell’oro» degli Stati Uniti si sta realizzando non solo nella politica internazionale, ma anche nei confronti degli immigrati irregolari – 11 milioni – presenti negli Stati Uniti, che Trump sta sradicando con la forza dal tessuto sociale in cui ormai erano inseriti per deportarli in paesi che, a suon di dollari, convince ad accoglierli, in condizioni spesso disumane.

Una violenza così evidente da suscitare la protesta ufficiale dei vescovi degli Stati Uniti, molti dei quali erano stati favorevoli alla sua elezione.

Rientra in questa spregiudicata volontà di potenza la pretesa del Tycoon di piegare anche la realtà alla propria volontà. Come gli antichi sofisti, anche Trump pensa  che il vero coincida con ciò che egli ritiene e dichiara tale. 

I giornali americani hanno fatto l’elenco lunghissimo delle sue clamorose menzogne, sia prima che dopo la sua elezione. Che non incrinano, anzi consolidano il suo trionfo.

Un capovolgimento della realtà peraltro confortato dalla proposta, avanzata dal Pakistan e sostenuta da Netanyahu, di conferire al presidente americano il premio Nobel per la pace.  

L’impotenza culturale e politica dell’Europa

Questa è la lezione che viene ai giovani della massima autorità politica del mondo democratico.  Ma a renderla pienamente convincente è la debolezza delle alternative.

Il mondo occidentale, con tutta la sua storia democratica, non trova in se stesso le risorse culturali – prima che politiche ed economiche – per affrontarlo e additare una alternativa. 

L’Europa, che dovrebbe essere la custode delle radici valoriali della nostra civiltà, da tempo le ha smarrite, per consegnarsi a una frammentazione spirituale che rispetta, giustamente, le diversità, ma non riesce a ricondurle a una prospettiva unitaria. Esattamente come avviene nell’ambito politico.

Da qui anche l’incapacità dell’Occidente di schierarsi risolutamente a difesa di quelli che un tempo erano i suoi valori. Primo fra tutti, il rispetto della persona umana, solennemente sancito nelle dichiarazioni dei diritti.

Emblematica, già prima dell’ascesa al potere di Trump, la complice inerzia di fronte allo spaventoso massacro perpetrato da Israele a Gaza e quotidianamente registrato dalle notizie e dalle immagini di giornali e telegiornali. 

Un’Europa che celebra ogni anno con commozione la memoria delle innocenti vittime della Shoah, continua da diciotto mesi a non muovere un dito per fermare   il nuovo Olocausto che si sta verificando sotto i suoi occhi, anche solo fermando il flusso di armi fornite allo Stato ebraico.

Senza per questo rinunziare, quando invece si tratta della giusta difesa del popolo ucraino, a invocare a gran voce il diritto e la giustizia. Clamoroso doppio standard che mette in dubbio la serietà degli ideali dichiarati e fa il gioco della spregiudicatezza di Trump.

Ancora più evidente è il cedimento alla logica del Tycoon nell’atteggiamento verso i migranti, che vede il Vecchio Continente, un tempo aperto all’accoglienza – come è nella storia delle sue origini e nella sua tradizione cristiana – , al pari degli Stati Uniti, e ora, al pari degli Stati Uniti, sempre più ripiegata su se stessa, in nome dei suoi “interessi”, e sempre più indifferente alle drammatiche esigenze degli esseri umani che vengono a cercare alle sue frontiere una vita migliore.

Un messaggio nella bottiglia

Rappresenta bene questa paralizzante contraddizione dell’Europa la posizione della nostra presidente del Consiglio, che non perde occasione per ribadire la sua fedeltà ai valori cristiani, che nei suoi discorsi non manca mai di ribadire il primato della persona umana, e che al tempo stesso, non solo si dichiara in profonda sintonia con Trump, ma ne segue di fatto le orme.

A cominciare dalla sua politica nel Medio Oriente: l’Italia, come per la verità ha fatto in passato, continua a rifiutarsi di sostenere ogni tentativo di fermare Israele nella sua politica criminale (il termine è della Corte Penale Internazionale). Ma anche per quanto riguarda le politiche migratorie, il nostro governo  si vanta di essere per tutta l’Europa un modello di chiusura e di deportazione.

Callicle trionfa e i giovani non possono non registrare che quella indicata da lui è la via per il successo. Anche oggi, tuttavia, Socrate continua a testimoniare che un’alternativa esiste, se non per il successo, almeno per restare umani. Egli continua a farlo nella esperienza degli operatori umanitari che spendono la vita per palestinesi e migranti, nel coraggio dei giornalisti che sfidano –  , rischiando anche la vita –  le censure e il silenzio dei governi e della maggior parte della  stampa, nelle prese di posizione dei giudici che negli Stati Uniti, ma anche in Italia, cercano di opporsi all’arbitrio del potere.   

Anch’essi sono, a modo loro, con i loro limiti, con i loro errori, degli educatori.  La loro voce, è vero, assomiglia a quella del naufrago che consegna il suo messaggio in una bottiglia gettata in mare. 

Ma basta perché non sia spenta la speranza e che ci sia chi lo raccoglie.

www.tuttavia.eu

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EDUCARE ALLA BELLEZZA

  


La bellezza 

come educazione: 

non un concetto, 

ma un gesto. 

In allegato UDA e griglie

Di Antonio Fundarò

 

Nel tempo dell’accelerazione, dell’oblio e del consumo, educare alla bellezza è un atto rivoluzionario. E non si tratta soltanto di estetica o di educazione artistica in senso stretto. La bellezza, nella sua forma più autentica, è gesto: un movimento lento e profondo dell’anima che decide di fermarsi, osservare, accogliere, custodire.

Nel libro La bellezza raccolta di Tanino Bonifacio, l’educazione al bello non è mai ridotta a un esercizio scolastico. Non è nemmeno un insieme di nozioni storiche o stilistiche. È, piuttosto, una disposizione etica ed esistenziale. Significa imparare a raccogliere ciò che rischia di andare perduto, allenarsi a vedere ciò che spesso sfugge, sviluppare una sensibilità affettiva verso le forme, le memorie, gli oggetti e le vite.

Bonifacio ci guida dentro questa pedagogia silenziosa ma potentissima. Il collezionista, nel suo sguardo, non è colui che accumula, ma colui che ascolta. Ogni oggetto, ogni quadro, ogni frammento scelto e accolto nella Casa Museo Thule racconta una relazione, una storia, una cura. E questo gesto di raccolta non è altro che un atto di amore consapevole verso la cultura, l’identità e l’umanità.

Per chi insegna, questa immagine è preziosa. L’educatore, infatti, è un raccoglitore di presenze: sa accogliere gli studenti nella loro unicità, sa custodire le domande più fragili, sa tramandare non solo contenuti, ma senso. Proprio come il collezionista di Bonifacio, il buon docente ascolta prima di parlare, raccoglie prima di trasmettere, abita l’aula come fosse una piccola casa museo, dove ogni alunno è opera viva da custodire.

Educare alla bellezza, quindi, è educare a vedere con occhi nuovi. È insegnare il valore del dettaglio, dell’attesa, del silenzio. È formare ragazzi e ragazze capaci di stupore e di empatia, di rispetto e di profondità. E, in un mondo che spesso premia la velocità e la superficialità, è offrire una alternativa possibile: un’educazione fondata sul tempo lungo, sull’interiorità, sulla bellezza che salva.

La Casa Museo come dispositivo educativo: tra arte, anima e responsabilità

Nel cuore di La bellezza raccolta, il concetto di bellezza si fa architettura, spazio vissuto e simbolico: è la Casa Museo Thule. Non un museo in senso tradizionale, ma un organismo vivo, un luogo “abitato” dalla cultura, un crocevia tra memoria, arte e spiritualità. In questo senso, la Casa Museo diventa, per l’insegnante, una metafora potente: educare può (e deve) significare creare luoghi di senso, ambienti dove le cose e le persone non si accumulano, ma si riconoscono.

Scrive Tanino Bonifacio:

«Thule non è un contenitore di oggetti, ma un luogo interiore. Un museo che si guarda, ma che soprattutto si ascolta. Un tempio dove ogni elemento è presenza, e ogni presenza ha un nome, una voce, un respiro».

In un’epoca in cui le aule rischiano di diventare spazi neutri, standardizzati, freddi, l’immagine della Casa Museo ci interroga profondamente: come possiamo trasformare la scuola in un luogo “da abitare” e non solo “da frequentare”? Come rendere ogni banco, ogni parete, ogni angolo un’esperienza di bellezza e relazione?

Thule è un’opera dell’anima, frutto dell’amore e della visione del prof. Tommaso Romano, ma è anche uno strumento educativo senza tempo. Ogni oggetto lì raccolto – una stampa, una scultura, un documento – è stato scelto non per il suo valore economico, ma per il suo “potere evocativo”. Così dovremmo insegnare: non per dare voti, ma per accendere scintille. Ogni lezione può diventare una “stanza” da arredare con cura, una narrazione da custodire, un incontro da ricordare.

Nel libro, Bonifacio parla di “liturgia dell’armonia”, un’espressione che scuote chiunque insegni. Perché educare è, in fondo, un atto liturgico: ha i suoi riti, i suoi silenzi, la sua sacralità. Non si educa per riempire, ma per ordinare, dare senso, armonizzare. Così come un collezionista autentico non sceglie mai casualmente, ma riconosce ciò che chiama, anche un educatore deve imparare a riconoscere ciò che nell’alunno vibra, risponde, cerca.

La Casa Museo Thule – scrive ancora Bonifacio – «è un luogo abitato da voci, silenzi, pensieri. Non si visita: si attraversa. E, attraversandola, si cambia». È esattamente ciò che dovrebbe accadere in ogni esperienza educativa autentica: entrare in aula, attraversare il sapere, uscirne trasformati.

Per questo motivo, Thule non è solo un esempio, ma un dispositivo pedagogico: un modo per riflettere su come l’arte, la cultura materiale, il gesto di raccolta, possano diventare strumenti per educare all’identità, alla cittadinanza culturale, all’amore per sé e per il mondo. E in questa cornice, l’insegnante non è più solo un trasmettitore di nozioni, ma un custode di soglie, un guida in un museo dell’anima, un artigiano di bellezza.

Il collezionista come educatore: una lezione per la scuola

Nel cuore de La bellezza raccolta, Tanino Bonifacio eleva la figura del collezionista a simbolo educativo. Non è più, infatti, il semplice raccoglitore di oggetti preziosi, ma diventa un “costruttore di bellezza”, un uomo che, attraverso la cura, la selezione e la disposizione dell’opera, dà senso al mondo e a se stesso. È una figura che parla profondamente agli insegnanti.

«Collezionare è scegliere, ma prima ancora è ascoltare. È cogliere il respiro delle cose. È avvertire il richiamo di ciò che ti somiglia. Collezionare è un atto d’amore», scrive Bonifacio.

È proprio da qui che si apre una riflessione necessaria sul ruolo del docente: insegnare è, in fondo, collezionare anime. Ogni alunno è un’opera irripetibile, che attende di essere scoperta, capita, valorizzata. Educare non è solo spiegare, è anche disporre con cura, ascoltare profondamente, trovare l’armonia tra i frammenti.

Il collezionista autentico non possiede, ma custodisce. Non impone, ma valorizza. Così dovrebbe fare l’insegnante: non imporre modelli, ma riconoscere vocazioni, tessere connessioni, proporre bellezza.

Il libro ci ricorda che il collezionista, come il docente, ha una responsabilità estetica e morale. «Ogni oggetto raccolto è un gesto di resistenza contro l’oblio. È memoria che si fa forma. È identità che si fa racconto», scrive ancora Bonifacio. Allo stesso modo, ogni lezione ben costruita è un gesto di resistenza contro la superficialità, un atto di cura nei confronti dell’identità dell’alunno.

Il collezionista, inoltre, non agisce in solitudine. La sua raccolta dialoga con il tempo, con chi l’ha preceduto e con chi verrà dopo. È una “liturgia della trasmissione”, potremmo dire. Così anche l’insegnante non educa per sé, ma per consegnare ai giovani gli strumenti per comprendere il mondo e se stessi.

In questo senso, l’insegnante che si ispira alla figura del collezionista non è un erudito isolato, ma un mediatore tra le generazioni, un testimone di bellezza. Sa che la conoscenza non è mai fine a se stessa, ma deve essere condivisa, trasmessa, incarnata.

Tanino Bonifacio, nel libro, offre un’immagine luminosa del collezionista come uomo della soglia: è colui che si ferma, contempla, ascolta e poi agisce. È questa la postura che oggi serve nella scuola: educatori capaci di abitare le soglie del sapere, della relazione, dell’identità, dell’arte, con consapevolezza e tenerezza.

La Casa Museo come metafora educativa: abitare la bellezza

Nel libro “La bellezza raccolta”, la Casa Museo Thule non è soltanto un luogo fisico, ma una metafora potente del rapporto tra arte, memoria e identità. È, scrive Bonifacio, «una casa abitata dall’anima delle cose», uno spazio che respira, che accoglie, che trasmette. In questa visione, ogni oggetto custodito non è mai solo ornamento, ma è «segno e soglia, traccia e presenza». È il riflesso di una visione del mondo.

Traslare questo concetto in ambito scolastico significa concepire la scuola non solo come luogo d’istruzione, ma come spazio di senso, di bellezza, di armonia. Una scuola che si fa “casa museo” è una scuola che educa alla cura, che insegna a dare valore agli oggetti, agli spazi, ai gesti. È un ambiente che rispetta e accoglie, che non espone ma custodisce, che non addestra ma rivela.

Come nella Casa Museo ogni oggetto è al suo posto perché ha una storia da raccontare, così ogni alunno deve sentirsi al proprio posto, con la certezza che la sua unicità è riconosciuta e accolta. L’aula non deve essere solo luogo funzionale, ma ambiente narrativo, in cui ogni dettaglio (un quadro, una citazione sul muro, una disposizione circolare dei banchi) contribuisce a costruire un’estetica dell’educazione.

Il modello della Casa Museo Thule suggerisce anche una pedagogia del tempo: lì il tempo non è cronologico, ma kairologico, carico di significato, abitato dalla memoria. È un tempo lento, riflessivo, profondo. È la scuola che sa fermarsi per ascoltare, per osservare, per sentire, per riflettere.

Insegnare in una scuola “abitata dalla bellezza” significa allora formare sguardi sensibili, capaci di cogliere il dettaglio che sfugge, il silenzio che parla, il frammento che racconta. Significa educare alla meraviglia, a riconoscere ciò che è bello non per il valore che ha, ma per il senso che porta.

Bonifacio scrive: «Abitare l’arte non significa esporla, ma viverla». E questo è un invito pedagogico profondo. L’insegnante deve aiutare l’alunno non solo a comprendere un’opera d’arte, ma a viverla, a lasciarsene trasformare. Come nella Thule, dove l’arte è rito quotidiano, anche nella scuola ogni gesto può diventare forma di bellezza: una parola gentile, un quaderno ordinato, un silenzio condiviso, una poesia recitata.

In definitiva, la Casa Museo è un modello educativo che unisce forma e contenuto, spazio e pensiero, corpo e anima. E Tanino Bonifacio, in questo libro, ci offre la chiave per aprire le porte di un’educazione nuova, fondata sull’estetica dell’incontro e della cura.

La pratica educativa: educare al bello, attraverso il bello 

Educare al bello non significa solo esporre gli alunni a opere d’arte o a momenti di contemplazione estetica, ma immergerli in un’esperienza integrale di armonia, forma e senso. In “La bellezza raccolta”, Tanino Bonifacio lo dice chiaramente: «Raccogliere bellezza è innanzitutto un atto di ascolto». Un gesto che precede la scelta, perché nasce dall’apertura e dalla capacità di farsi toccare.

Trasporre questo nella didattica significa prima di tutto educare all’ascolto profondo, allo sguardo che sa vedere oltre l’immediato, alla parola che diventa strumento di contatto e non solo di comunicazione. La pratica educativa deve dunque partire dal corpo e dalle emozioni, prima ancora che dalla mente. Perché la bellezza si apprende vivendola.

Un’attività artistica, una passeggiata in natura, la lettura ad alta voce di un testo poetico, la composizione di un collage: sono solo alcuni esempi di pratiche che stimolano nei bambini e nei ragazzi la sensibilità estetica, la capacità di osservare, l’empatia, la cura del dettaglio. Non si tratta solo di farli disegnare o cantare, ma di rendere l’arte un linguaggio abituale, una grammatica dell’esperienza.

Bonifacio scrive che «custodire un’opera è un atto d’amore e di responsabilità». Così dovrebbe essere la scuola: un luogo che insegna a custodire. Un ambiente dove si impara a prendersi cura del proprio banco, della propria scrittura, del tempo condiviso. Dove il bello non è un premio, ma un fondamento. Un diritto.

Ecco perché ogni disciplina può diventare veicolo di bellezza. In matematica, attraverso la simmetria e le proporzioni; in scienze, osservando le forme naturali; in storia, scoprendo l’arte dei popoli; in italiano, assaporando la musicalità della lingua; in tecnologia, apprezzando la funzionalità elegante di un oggetto ben progettato.

La bellezza, inoltre, aiuta a educare all’autostima. Chi sente di valere, di essere “bello” nella propria unicità, sarà più incline a rispettare il bello negli altri e nelle cose. Insegnare ad amare se stessi significa anche insegnare a riconoscere e coltivare ciò che di bello si è e si ha. Significa offrire occasioni in cui ciascuno possa vedere riflessa la propria dignità in un’opera realizzata, in un testo scritto, in un gesto condiviso.

Come ci ricorda Bonifacio, la bellezza non si impone: si sussurra. Non si insegna con le lezioni frontali, ma si trasmette per prossimità, per contaminazione, per esempio. Un insegnante che abita la bellezza nel suo modo di parlare, di muoversi, di accogliere, sarà il primo veicolo formativo.

Infine, educare alla bellezza significa formare cittadini sensibili, capaci di indignarsi per la bruttezza, l’abbandono, il degrado, e desiderosi di costruire spazi più giusti, armoniosi, umani. Come scrive Bonifacio: «Il collezionista è colui che salva. Ma anche l’educatore, in fondo, lo è».

L’arte come cura: la scuola come luogo di guarigione

La bellezza raccolta” non è solo un tributo all’arte, ma anche una riflessione profonda sul suo potere terapeutico. Nelle parole di Tanino Bonifacio si coglie una consapevolezza antica e insieme urgente: l’arte non consola soltanto, ma risana, riconnette, restituisce senso. È medicina invisibile, capace di penetrare là dove il linguaggio ordinario si arresta.

Così dovrebbe essere la scuola. Un presidio dell’anima, un luogo dove ciò che è ferito può iniziare a guarire. In tempi di solitudini diffuse, crisi di identità, violenze simboliche e reali, educare al bello diventa anche un gesto di cura collettiva. L’insegnante, allora, si fa terapeuta delle possibilità. Non deve guarire in senso clinico, ma creare le condizioni per cui ogni bambino e ragazzo possa ritrovare la propria voce, la propria luce.

Bonifacio scrive: «Ogni oggetto raccolto è una ferita salvata». La scuola può farsi “casa museo” di queste ferite salvate: ogni compito ben fatto, ogni disegno attaccato a una parete, ogni parola ascoltata è una forma di raccolta, un atto simbolico di riconoscimento e valorizzazione.

L’arte non è solo competenza, ma esperienza trasformativa. Un laboratorio teatrale può dare parola a chi non riesce a parlare. Un atelier creativo può riconsegnare identità a chi si sente invisibile. La poesia può accendere consapevolezze e consolare perdite. La musica può unire dove la lingua separa.

In quest’ottica, la scuola non può limitarsi alla trasmissione di saperi. Deve essere un laboratorio di senso, un’officina del possibile, un luogo dove il bello sia forma e contenuto, linguaggio e metodo. Un luogo dove la cura dell’ambiente didattico rifletta la cura delle relazioni. Dove l’armonia sia perseguita tanto nelle attività quanto negli sguardi.

Tanino Bonifacio ci offre una visione: quella del collezionista come guaritore silenzioso, come artigiano della memoria. E allora anche l’insegnante può essere questo: un raccoglitore di storie, di fragilità, di piccoli miracoli quotidiani, che attraverso la bellezza restituisce dignità a ogni presenza, anche la più discreta.

La scuola, così intesa, si fa spazio generativo, capace di accogliere ogni differenza e trasformarla in risorsa, ogni mancanza in punto di forza. Perché dove abita il bello, abita anche la speranza. E ogni speranza educativa, per essere reale, deve saper parlare la lingua del cuore.

Insegnare bellezza, seminare futuro

In un tempo in cui tutto sembra correre, consumarsi, perdersi nell’effimero, insegnare la bellezza è forse l’atto più rivoluzionario e necessario. Non si tratta di estetismo né di decorazione, ma di educare lo sguardo, l’anima, la coscienza alla pienezza. La scuola ha il compito, oggi più che mai, di non rinunciare a questa missione. Perché un bambino che sa riconoscere il bello è un adulto che sa custodire il mondo.

La bellezza raccolta” di Tanino Bonifacio ci ricorda che l’arte non si colleziona per possedere, ma per salvare, abitare, offrire. E che ogni oggetto amato è un testimone. Un testimone di vita, di civiltà, di relazioni. È con questa consapevolezza che l’insegnante può diventare custode del bello e artigiano di futuro: non riempire vasi, ma accendere fiamme.

Raccogliere la bellezza, come scrive Bonifacio, è anche resistere alla dimenticanza, è rendere giustizia a ciò che ha valore e rischia di andare perduto. E questo vale anche per la scuola, che ogni giorno raccoglie fragilità, talenti, speranze, silenzi. Sta a noi educatori, insegnanti, dirigenti, genitori riconoscere quel patrimonio e mettere i ragazzi nelle condizioni di riconoscerlo in sé e negli altri.

Insegnare ad amare se stessi e l’arte, insegnare a vedere e a sentire, non è un obiettivo accessorio, ma fondativo. È l’unico modo per formare cittadini liberi, sensibili, capaci di bellezza anche nel modo in cui pensano, parlano, agiscono.

Perché, in fondo, ogni gesto educativo è una forma d’arte. E ogni scuola che si fa casa della bellezza è una promessa di umanità mantenuta.

 

Unità di Apprendimento – la bellezza

 

Griglia delle Competenze UDA –                                                  La Bellezza Raccolta

 

Orizzonte Scuola

GRATITUDINE e CURA

 

ANZIANI, 

SEGNI DI SPERANZA


Nel messaggio per la Giornata mondiale dedicata ai nonni e a chi è nella parte finale della vita (27 luglio) il richiamo al bene sempre da compiere: «Trasmettiamo la fede che abbiamo vissuto per tanti anni, in famiglia e negli incontri quotidiani»

Il Papa: «Anziani, siete segni di speranza L’amore e la preghiera non hanno età»

«Ogni parrocchia, ogni associazione, ogni gruppo ecclesiale è chiamato a diventare protagonista della “rivoluzione” della gratitudine e della cura, da realizzare facendo visita frequentemente agli anziani»

  -       di TOMMASO PICCOLI

-        «Se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno ». Queste parole di san Paolo ai cristiani di Corinto sono l’ultima citazione del messaggio scritto da Leone XIV per la quinta Giornata mondiale dei nonni e degli anziani (27 luglio) e diffuso ieri. L’ultima citazione ma la più pregnante, perché è l’avvicinarsi alla risurrezione e alla beatitudine senza fine il vero motivo della speranza di cui è intessuto il messaggio stesso fin dal titolo Beato chi non ha perduto la sua speranza (cfr Sir 14,2).

«Nella Bibbia – scrive il Pontefice – Dio più volte mostra la sua provvidenza rivolgendosi a persone avanti negli anni. Così avviene, oltre che per Abramo, Sara, Zaccaria ed Elisabetta, pure per Mosè, chiamato a liberare il suo popolo quando aveva ben ottant’anni (cfr Es 7,7). Con queste scelte, ci insegna che ai suoi occhi la vecchiaia è un tempo di benedizione e di grazia e che gli anziani, per Lui, sono i primi testimoni di speranza. “Cos’è mai questo tempo della vecchiaia?” – si domanda al riguardo sant’Agostino – Ti risponde qui Dio: “Oh, venga meno per davvero la tua forza, affinché in te resti la forza mia e tu possa dire con l’Apostolo: Quando sono debole, allora sono forte” ( Super Ps. 70, 11)».

Ancora: «Nel libro della Genesi troviamo il commovente episodio della benedizione data da Giacobbe, ormai vecchio, ai suoi nipoti, i figli di Giuseppe: le sue parole li spronano a guardare con speranza al futuro, come al tempo delle promesse di Dio (cfr Gen 48,8-20). Se dunque è vero che la fragilità degli anziani necessita del vigore dei giovani, è altrettanto vero che l’inesperienza dei giovani ha bisogno della testimonianza degli anziani per progettare con saggezza l’avvenire».

Il Papa ricorda che il Giubileo, fin dalle sue origini bibliche, ha rappresentato un tempo di liberazione e «guardando alle persone anziane in questa prospettiva giubilare, anche noi siamo chiamati a vivere con loro una liberazione, soprattutto dalla solitudine e dall’abbandono». Per questo motivo «ogni parrocchia, ogni associazione, ogni gruppo ecclesiale è chiamato a diventare protagonista della “rivoluzione” della gratitudine e della cura, da realizzare facendo visita frequentemente agli anziani, creando per loro e con loro reti di sostegno e di preghiera, intessendo relazioni che possano donare speranza e dignità a chi si sente dimenticato ». A tale riguardo Leone XIV fa presente una particolarità di questo Giubileo, normata dalla Penitenzieria apostolica, ovvero che quanti non potranno venire a Roma quest’anno in pellegrinaggio, possano anche «conseguire l’Indulgenza giubilare se si recheranno a rendere visita per un congruo tempo agli anziani in solitudine, [...] quasi compiendo un pellegrinaggio verso Cristo presente in loro (cfr Mt 25, 34-36)».

Il Papa riprende infine il libro sapienziale che ha ispirato il tema della Giornata di quest’anno, il Siracide, che «afferma che la beatitudine è di coloro che non hanno perso la propria speranza (cfr 14,2), lasciando intendere che nella nostra vita – specie se lunga – possono esserci tanti motivi per volgersi con lo sguardo indietro, piuttosto che al futuro. Eppure, come scrisse papa Francesco durante il suo ultimo ricovero in ospedale, “il nostro fisico è debole ma, anche così, niente può impedirci di amare, di pregare, di donare noi stessi, di essere l’uno per l’altro, nella fede, segni luminosi di speranza” ( Angelus, 16 marzo 2025). Abbiamo una libertà che nessuna difficoltà può toglierci: quella di amare e di pregare. Tutti, sempre, possiamo amare e pregare». Così «il bene che vogliamo ai nostri cari – al coniuge col quale abbiamo passato gran parte della vita, ai figli, ai nipoti che rallegrano le nostre giornate – non si spegne quando le forze svaniscono. Anzi, spesso è proprio il loro affetto a risvegliare le nostre energie, portandoci speranza e conforto».

Questa l’esortazione conclusiva di Leone XIV: «Soprattutto da anziani, dunque, perseveriamo fiduciosi nel Signore. Lasciamoci rinnovare ogni giorno dall’incontro con Lui, nella preghiera e nella santa Messa. Trasmettiamo con amore la fede che abbiamo vissuto per tanti anni, in famiglia e negli incontri quotidiani: lodiamo sempre Dio per la sua benevolenza, coltiviamo l’unità con i nostri cari, allarghiamo il nostro cuore a chi è più lontano e, in particolare, a chi vive nel bisogno. Saremo segni di speranza, ad ogni età».

 www.avvenire.it


Leggi: MESSAGGIO DEL SANTO PADRE LEONE XIV PER LA V GIORNATA MONDIALE DEI NONNI E DEGLI ANZIANI




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giovedì 10 luglio 2025

INNOVAZIONE SCOLASTICA

 


Tra lezioni nella natura

 e percorsi inclusivi

 si studiano esperienze

 didattiche innovative

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-di Romina Gobbo

-        

 «L’educazione non ha una regola, un protocollo da applicare, va applicata ogni volta alla singola persona. Ogni caso chiama l'educatore a inventare, ed è sempre rischioso. Ma non può essere altrimenti. L'educazione non esiste se non viene rinnovata continuamente. O la pensi, la vivi in quel giorno lì, oppure è destinata a essere sempre vecchia». Alberto Raffaelli, già dirigente scolastico, ideatore e oggi presidente del Festival nazionale dell'innovazione scolastica, spiega così la riflessione dalla quale il Festival è nato. «Se il docente ha la consapevolezza che senza l'innovazione l'educazione non esiste, allora può sperimentare qualsiasi tipologia di insegnamento, dentro e fuori le mura scolastiche».

Questa consapevolezza è ben chiara nelle oltre duecento scuole italiane che si sono candidate alla quinta edizione del Festival, che si terrà dal 5 al 7 settembre a Valdobbiadene (Treviso), con sede principale Villa dei Cedri. Settantadue le selezionate: in prevalenza istituti statali, ma anche scuole paritarie e, per la prima volta, anche diverse scuole professionali (Salesiani, Enaip, Cefal, oltre alla ormai “storica” partecipazione di Dieffe). Una tre giorni che vedrà dirigenti e docenti confrontarsi, sulla base di relazioni e video che verranno presentati e che illustrano esperienze educative alternative poste in essere in alcune scuole italiane: si va dalle esperienze outdoor (orti scolastici, laboratori nella natura, giornate nei boschi...), mostre immersive che fanno sperimentare ai ragazzi la vita dall'interno dell'ecosistema, performance musicali, ma con elementi visivi e tattili, per l'inclusione di persone con difficoltà uditive, classi itineranti, percorsi personalizzati, apprendimento di metodi di comunicazione alternativa, come la Lis (Lingua dei segni italiana), scambi linguistico-culturali, e tante altre.

«Gli insegnanti sono spesso oggetto di critica, ma la creatività didattica dei lavori pervenuti non lascia dubbi sulla grande passione dei più per il proprio lavoro. Un aspetto importante è il desiderio, ormai costante nel dopo Covid, di portare la scuola in outdoor, cioè fare lezione in mezzo alla natura - continua Raffaelli -. C'è una grande attenzione alla socialità e all'inclusione nei confronti di studenti in difficoltà, pertanto molti docenti scelgono di insegnare avvalendosi delle nuove tecnologie informatiche e digitali, compresa l'intelligenza artificiale. Crescono le esperienze di service learning, momenti didattici che integrano l'apprendimento con attività di volontariato e servizi alla comunità. Fin dalla prima edizione, nel 2020, mi ha piacevolmente sorpreso la vivacità e la voglia di partecipazione di cui sono protagoniste le scuole del Sud. La regione che ha candidato più progetti è stata la Puglia».

L'evento, che si conferma come il più importante in ambito nazionale di avvio dell'anno scolastico, approfondirà in particolare il tema delle “Non cognitive skills” (o competenze socio-emotive come le definisce l'Organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico - Ocse). «Dinanzi al contesto contradditorio e spesso drammatico nel quale stanno crescendo le nuove generazioni, la scuola italiana non intende tirarsi indietro. Le Ncs, introdotte con la legge 22 del 19 febbraio 2025, sono quelle competenze trasversali (empatia, resilienza, motivazione, consapevolezza, capacità di problem solving...) che riguardano la persona, il modo in cui interagisce con il mondo, gestisce le proprie emozioni e si relaziona con gli altri. 

È un'innovazione che pone una grande sfida al sistema scolastico italiano, la possibilità di una trasformazione profonda, con il superamento del modello della scuola come semplice luogo di trasmissione di conoscenze (istruzione), per diventare un autentico ambiente educativo nel quale bambini e ragazzi possano crescere in modo armonico e positivo», conclude il presidente.

 CEI