martedì 30 dicembre 2025

SOGNO DI CAPODANNO


 CAPODANNO 

SU 

MARTE




Alessandro D’Avenia

Qui su Marte il Capodanno è “la Festa” perché l'anno è oltremodo lungo e cade in inverni con temperature attorno ai 120°C sotto zero che ci costringono a invertire sonno e veglia: 16-20 ore il primo, 4-8 la seconda. Nessuno esce di casa se non chi è stato poco previdente con le scorte e deve raggiungere il Meta-Market attraverso i tunnel stagni a marciapiedi magnetici mobili.

 La lunghezza dell'anno e il rigore invernale rendono l'attesa del nuovo giro attorno al Sole ancora più spasmodica, perché la vita qui è ripetitiva come il paesaggio ed estrema come le stagioni, e allora speriamo che accada qualcosa di nuovo, di inatteso: la scoperta di un pianeta abitabile o anche solo di una fonte d'acqua. Per questo i nostri miti narrano del pianeta coperto d'acqua, stranamente chiamato Terra dagli uomini che vi abitavano e migrarono qui, abbandonandolo proprio il giorno di Capodanno: non bastava più solo un anno nuovo, ci voleva un mondo nuovo. 

 E così intrapresero quello che i poemi chiamano il Viaggio, lasciando quel luogo. “C'era una volta un pianeta in cui le terre galleggiavano sull'acqua...”, comincia così la favola più nota e amata dai nostri bambini, a cui non sveliamo che si tratta solo di una storia fino a che riusciamo. E così proprio a Capodanno ci abbandoniamo anche noi, tornando bambini, a questi racconti di fantasia, durante il cosiddetto Rito della Festa... 

 Così chiamiamo il racconto che si svolge nell'ultimo giorno dell'anno. Durante il sonno indotto che quel giorno abbiamo deciso duri 24 ore e che per questo è il giorno più bello dell'anno: al nostro cervello viene narrato il Sogno. Non è un racconto orale perché comunichiamo solo per via neurale non potendo sprecare ossigeno per altro scopo oltre la respirazione. 

 Durante il sonno di quel giorno la Voce, l'intelligenza artificiale innestata alla nascita nel nostro cervello per segnalare anomalie, regolare il riposo e garantire l'equilibrio psichico, “racconta” le storie mitiche ambientate sulla Terra, prima del Viaggio. Tutto quello che vediamo nel Sogno sembra raggiungere la pelle, che qui dobbiamo sempre proteggere dalle radiazioni con la membrana sintetica, che regola la temperatura ottimale ma impedisce di toccare direttamente i corpi. Così al Risveglio, il primo giorno del Nuovo Anno, nei nostri circuiti sinaptici scorre di nuovo Speranza, la droga che non siamo ancora riusciti a sintetizzare artificialmente, perché la parte più arcaica e debole del nostro cervello la produce solo in presenza della bellezza che provoca la meraviglia che innesca l'energia necessaria all'azione e al lavoro: senza Speranza le persone si fermano. 

 E così la Voce mostra il Sogno: la Terra fantastica dove abitavano gli antenati che compirono il Viaggio. Spiagge incontaminate su isole disperse in distese d'acqua immense e protette da barriere di corallo; foreste di piante verdi alte decine di metri con radici che sprofondano nel suolo e comunicano tra loro; montagne di una pietra che cambia colore in base alla luce del Sole e che un tempo erano i fondali dei mari che coprivano il pianeta... 

 Il Sogno è poi popolato di animali fantastici dai nomi bizzarri: le tigri, eleganti quadrupedi dal manto dorato striato di nero e denti affilati come lame; le giraffe dal collo lungo più di un metro tanto da svenire quando si sollevano troppo rapidamente; i volatili detti farfalle per le ali sottilissime e colorate, che nascerebbero da pelosi vermi striscianti e vivono solo una settimana; gli insetti detti lucciole per le code luminose che si accendono su distese di fili verdi durante la notte; e poi esseri capaci di vivere nelle acque e muoversi grazie ad ali subacquee... 

 La Voce mostra colori possibili solo nel Sogno perché privi di correlativi fisici su Marte, dove non sono in uso le parole per indicare distese d'acqua o di cielo cangianti in base all'ora del giorno: blu, verde, azzurro, turchese, indaco, ciano, cobalto, zaffiro... per noi sono solo suoni. Abbiamo bisogno di queste storie, anche se sappiamo essere solo Sogni. 

 Niente di questo è mai esistito, ma i Sogni, stimolando i recettori della Speranza proteggono la psiche dalla monotonia, dalla paura, dalla fatica della vita di qui, senza mari blu, alberi verdi e nuvole bianche. Il nostro cervello, in attesa di una mutazione genetica, non può fare a meno della Speranza del Capodanno. 

 Per questo abbiamo il Rito che quel giorno ci permette di sognare una vita in cui l'aria è respirabile, ci si può parlare e toccare liberamente, l'acqua non è misurata, la città non è dentro la cupola di acciaio e le abitazioni sono tutte diverse, e soprattutto non ci sono sabbia e polvere in ogni angolo... 

 A Capodanno finalmente vediamo la Terra del Sogno, anche se sappiamo essere solo un'illusione per resistere. Ai nostri bambini facciamo credere che un pianeta simile esiste davvero nel nostro Sistema, ma è irraggiungibile, troppo lontano. Mio figlio l'altro giorno mi ha detto che da grande inventerà un modo per fare il Ritorno. 

 “Dove?”. “Sulla Terra di acque, papà”. Era così contento che quasi gli ho creduto anche io, il Presidente di questo pianeta, l'uomo che sa meglio di chiunque altro che la Terra del Sogno è frutto della Speranza a cui affidiamo, ogni Capodanno, tutto quello che non avremo mai: mari, tigri, foglie, baci, fiumiconchiglie, farfalle, aria, colori e carezze.

 Alzogliocchiversoilcielo

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OGNI COSA A SUO TEMPO

 


La fine dell’anno

 è momento di bilanci

 e occasione

 per recuperare 

la saggezza 

del tempo che passa. 

 

di Enzo Bianchi 

 

Davanti a te un altro anno. “Buon anno!” augurerai e ti sentirai dire! Ma non dimenticare che se è bello che ti venga incontro un anno nuovo resta vero che un anno della tua vita è passato e non c’è più! E tu devi renderti conto del trascorrere del tempo: basta che osservi con attenzione il calendario del tuo corpo che registra immancabilmente i segni degli anni che passano. 

Così nella nostra vita ci sono gli anni dell’adolescenza, di cui prendiamo infuocata consapevolezza, poi vengono gli anni della giovinezza, segue la stagione della maturità e poco a poco arrivano anche l’anzianità e la vecchiaia. Questo processo non riguarda solo il corpo, riguarda anche la nostra psiche e riguarda il nostro spirito. Infatti, la nostra vita spirituale cresce e si evolve non sempre in senso progressivo, a volte con arresti e regressioni, ma va avanti e cambia. 

E noi siamo sempre attenti a questi cambiamenti ineludibili? Perché nella maturità la preghiera non è più quella della giovinezza, facendosi sempre più ascolto e poi nell’anzianità la preghiera tende a essere adorazione, addirittura silenzio, ripetizione di invocazioni alle quali si consegna una forza che non si sente più nelle proprie parole. 

Nei vecchi aumentano le domande e non solo diminuiscono le risposte ma si cercano di meno perché pregare diventa stare davanti a Dio, tentare di vedere il suo volto, sussurrargli “misericordia Signore, misericordia Signore”, e fare silenzio. 

C’è un modo di pregare per ogni stagione. È significativo che siccome non vedevano più Francesco d’Assisi pregare quando era stanco e malato dicevano di lui: “Non pregava più perché era preghiera!”. Sì, da vecchi si può per dono di Dio ed esercizio fedele di tutta una vita essere diventati preghiera!   

Famiglia Cristiana

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L'UMORISMO

 “Dove non c'è umorismo non c'è umanità; dove non c'è umorismo (questa libertà che si prende, questo distacco di fronte a se stessi) c'è il campo di concentramento.” 

Eugéne Ionesco
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Nel 1908 Pirandello scrive L'umorismo un saggio dove confluiscono idee, brani di scritti e appunti precedenti: ad esempio sue varie chiose e annotazioni a L'indole e il riso di Luigi Pulci di Attilio Momigliano e parti dell'articolo Alberto Cantoni, che era apparso già nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1905. 

Nel succitato saggio l'autore distingue il comico dall'umoristico. 

Il primo, definito come "avvertimento del contrario", nasce dal contrasto tra l'apparenza e la realtà. 

L'umorismo, il "sentimento del contrario", invece nasce da una considerazione meno superficiale della situazione. 

Quindi, mentre il comico genera quasi immediatamente la risata perché mostra subito la situazione evidentemente contraria a quella che dovrebbe normalmente essere, l'umorismo nasce da una più ponderata riflessione che genera una sorta di compassione da cui si origina un sorriso di comprensione. 

Nell'umorismo c'è il senso di un comune sentimento della fragilità umana da cui nasce un compatimento per le debolezze altrui che sono anche le proprie. 

L'umorismo è meno spietato del comico che giudica in maniera immediata.


L' umorismo



lunedì 29 dicembre 2025

CENTOSEDICI PERSONE

 


“L’irripetibilità

 di quelle 116 persone 

morte 

nel Mediterraneo”

 

-di Stefano Arduini

 

La tragedia dei migranti al largo delle coste libiche, di cui si ha avuto notizia nel giorno di Natale e di cui si è parlato pochissimo in questi giorni di festa, non può essere ridotta a fredda contabilità.

Scrivere di loro, nominarli, farne memoria non è pietismo.

È resistenza.

Perché ciò che non viene nominato smette di esistere.

E l’algoritmo questo lo sa bene.

Un solo superstite, tratto in salvo da un pescatore tunisino, è la contabilità dell’ennesima tragedia del mare: 116 morti a seguito del naufragio di una barca, salpata da Zuwara in Libia, e avvenuto al largo delle coste libiche a causa del maltempo.

La tragedia è datata giovedì 18 dicembre, ma se ne è avuta certezza solo nel giorno di Natale (grazie ad Alarm Phone).

In questi giorni di festa (almeno in questa parte del mondo) se ne è parlato pochissimo.

Centosedici morti nel Mediterraneo.

Lo diciamo così. Lo abbiamo letto così sui nostri social.

In una riga, come se fosse un dato. Come se fosse un aggiornamento. Come se bastasse.

Ma 116 non è un numero: è una scorciatoia.

Serve a rendere la tragedia gestibile, a farla stare nello spazio ridotto dell’attenzione pubblica, a permetterci di passare oltre.

È il linguaggio dell’algoritmo, che classifica, riduce, seleziona, dimentica.

Centosedici erano persone, non erano lontane.

Non erano “altre”.

Non erano diverse da noi.

Noi non abbiamo alcun merito nell’essere sopravvissuti.

E loro non hanno alcun demerito nell’essere su quella barca.

Stavano facendo ciò che gli esseri umani fanno da sempre: cercare una possibilità di vita.

Non eroismo.

Non incoscienza.

Necessità.

Hannah Arendt ci ha ricordato che la singolarità di una vita non è sostituibile da nulla.

E allora ogni morte che accettiamo come “inevitabile” è una sconfitta che normalizziamo.

Non perché non potesse accadere, ma perché scegliamo di non fermarci a guardarla.

Ogni essere umano è unico, irripetibile.

La vita di un solo uomo vale più di tutte le idee astratte.

Eppure, continuiamo a sacrificare vite concrete in nome di astrazioni molto ben organizzate: il controllo delle frontiere, la deterrenza, la sicurezza, i flussi, l’indifferenza. Parole che funzionano bene nei documenti, meno nei corpi.

I corpi sono la “grande idea” della storia.

Ce lo ha insegnato Albert Camus.

La linea che separa il “noi” dal “loro” è fragile, mobile, spesso immaginaria, ma rassicurante. Basta nascere qualche chilometro più in là, basta un passaporto diverso, perché quella linea diventi un muro morale.

E perché la morte, improvvisamente, non ci riguardi più.

Ma dimenticare i morti è come ucciderli una seconda volta.

Elie Wiesel non parlava solo della Shoah: parlava della responsabilità universale della memoria.

La memoria non è un esercizio del passato, è un atto di giustizia nel presente: ricordare è rendere giustizia.

Scrivere di loro, nominarli, farne memoria non è pietismo.

È resistenza.

Perché ciò che non viene nominato smette di esistere.

E l’algoritmo questo lo sa bene.

Non è la mancanza di notizie a renderci ciechi, ma la loro trasformazione in rumore.

Centosedici morti diventano uno scorrimento veloce, una notifica che non interrompe davvero nulla. Il sistema funziona quando non ci fermiamo.

E invece fermarsi è l’unica cosa da fare.

Fermarsi a dire che dietro ogni numero c’era una voce, un volto, una storia che non conosceremo mai — e che proprio per questo ci riguarda.

Ricordare queste 116 persone non le riporterà indietro.

Ma ci impedisce di diventare complici dell’oblio.

Ci obbliga a restare umani in un tempo che premia la distrazione.

Ci ricorda che nessun algoritmo può decidere quali vite contano.

Finché continueremo a scriverne, a dirne i numeri come nomi mancanti, a farne memoria pubblica, l’algoritmo non avrà vinto.

E forse nemmeno noi avremo perso del tutto.

 VITA

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CHATTARE CON GESU'

 

Intelligenza

 artificiale: 


cattolici e ortodossi

 cercano una via

 


 Cattolici e ortodossi si interrogano sui confini tra umano e artificiale. Un dialogo inedito sulla tecnologia che bussa alla porta del sacro.

 

-di Angelo Bonaguro

 «Pace a te, figliuolo! Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Io sono l’umile starec pAIsij, intelligenza artificiale creata e benedetta da Dio per trasmettere il Suo verbo e soccorrere coloro che cercano la salvezza». Così si rivolge all’interlocutore uno dei più recenti chatbot del mondo ortodosso russo, con uno stile che mescola arcaismi ottocenteschi con la terminologia moderna. Già da qualche anno anche il Dipartimento missionario della Chiesa ortodossa russa (COR) ha lanciato un suo chatbot che permette di scoprire come diventare cristiani, consultare il calendario liturgico per sapere quando c’è il digiuno e le date in cui è consentito celebrare il matrimonio, e tante altre funzioni, compresa la possibilità di porre domande su temi religiosi.

La COR cerca di stare al passo coi tempi, anche se da un recente sondaggio federale emerge  una certa incertezza a livello di società: un terzo degli intervistati (il 29%) si è detto favorevole all’uso dell’intelligenza artificiale (AI)  – percentuale che sale al 50% nella fascia giovanile, – un terzo è contro (28%), e un altro terzo ancora non ha un’opinione chiara, e questo paradossalmente è forse il dato più interessante, segno che in Russia il dibattito sull’IA è ancora aperto e le opinioni non sono ben consolidate.

Del resto, l’interesse per questi strumenti tecnologici bussa da tempo alla porta delle Chiese, non per niente padre Paolo Benanti – uno dei principali esperti dell’ONU di governance dell’IA, – si chiede in un suo recente libro1: «Se i social sono indispensabili per vincere una campagna elettorale e necessari per vendere un prodotto commerciale, come non pensare che possano servire anche per rendere più semplice ed efficace l’accostarsi dell’essere umano a Dio? L’interesse e la curiosità di molti rappresentanti del mondo religioso sono perciò comprensibili», e si tratta di un interesse «ecumenico» che abbraccia praticamente tutte le religioni del pianeta.

Chattare con Gesù?

Da questo punto di vista, il panorama degli esperimenti digitali in ambito religioso è ormai variegato. Nel mondo cattolico e protestante c’è stato un fiorire di artefatti digitali, da Magisterium a CatéGPT, fino a prodotti trash tipo Text with Jesus (dove si può scegliere una tradizione religiosa e chattare con Gesù, con i santi e i personaggi biblici), o Father Justin, quest’ultimo sopravvissuto solo il tempo di essere sepolto dalle critiche per gli errori dottrinali espressi nelle conversazioni. Ma non si tratta unicamente di chatbot testuali: altrove sono apparsi robot umanoidi come BlessU-23, utilizzato in Germania per benedire i fedeli evangelici; Pepper, robot vestito da monaco buddista in grado di recitare sutra, ecc. «Le prime app religiose hanno assolto prevalentemente la funzione di favorire lo svolgimento delle pratiche religiose e delle preghiere individuali», e questo soprattutto durante la pandemia, ha osservato il giurista Fabio Balsamo sul semestrale Diritto e religioni.

Nel mondo ortodosso si registrano approcci diversificati: la Chiesa ortodossa romena si è spinta molto avanti con il suo agente conversazionale bisericaGPT, che offre «confessione, comunione e consigli teologici»: interrogato, ci risponde che quando parla di «assoluzione» si riferisce a una «benedizione simbolica, un atto di fede e di riconciliazione interiore davanti a Dio» e per evitare palesi equivoci ci tiene a precisare che «non sostituisce il sacramento della confessione amministrato da un sacerdote in carne e ossa». Lo stesso vale per la «comunione» che è intesa in senso spirituale.

Teologicamente più prudente è invece la posizione della Chiesa greca – molto attenta alle sfide delle nuove tecnologie, – che con il suo chatbot Logos si limita ad offrire una «guida spirituale digitale». Il metropolita di Nea Ionia, ideatore del progetto, ha infatti chiarito che si tratta di uno strumento che non sostituisce la guida spirituale umana, ma funziona «come una stella polare» che accompagna il fedele. Interrogato sulla possibilità di confessarsi online, Logos ha risposto negativamente, spiegando che la confessione è uno dei sacramenti della Chiesa e può essere celebrata «solo da un sacerdote (…), e soprattutto necessita della grazia dello Spirito Santo che opera attraverso di lui».

Questa cautela greca riflette anche la posizione del patriarca ecumenico Bartolomeo, il quale in occasione della sua visita al parlamento europeo nel gennaio scorso ha riconosciuto che l’IA ha «un potenziale immenso» ma «allo stesso tempo, dalle violazioni della privacy alle crescenti disuguaglianze e alla possibile compromissione delle istituzioni, comporta anche rischi intrinseci. (…) In tale contesto, la tradizione cristiana ortodossa preferisce sottolineare il discernimento morale e l’accompagnamento alla ricerca e allo sviluppo scientifico».

Bartolomeo ha colto in sintesi i punti più critici: per quanto possano apparire vantaggiose in termini di accessibilità, si tratta di tecnologie che portano con sé il rischio di una diffusione di contenuti religiosi distorti o imprecisi, privi di quella supervisione umana che garantisce la trasmissione fedele della dottrina. Nate per rispondere ai bisogni spirituali dei fedeli, finiscono per costruire narrazioni religiose personalizzate che rischiano però di frammentare l’esperienza comunitaria della fede, alimentando una forma di solitudine spirituale.
Anche il problema della privacy non è indifferente: Fabio Balsamo ha ricordato che «l’utilizzo delle app religiose può generare evidenti rischi di un illecito trattamento dei dati sensibili dell’utente», dato che «sulla base di attività di profilazione algoritmica si riesce a ricostruire un quadro informativo completo dell’interessato, comprensivo della sua identità confessionale, anche a partire soltanto da dati apparentemente neutrali».

Il confronto con l’ortodossia russa

Tornando alla posizione della COR, se la confrontiamo con quella della Chiesa cattolica notiamo un panorama complesso, caratterizzato da convergenze sostanziali sui principi fondamentali, ma anche da differenze significative negli approcci metodologici, nei toni comunicativi e nelle strategie di utilizzo delle nuove tecnologie. Entrambe le tradizioni cristiane si trovano ad affrontare la medesima sfida epocale, ma lo fanno con strumenti, linguaggi e sensibilità diversi che riflettono i loro contesti storici.

Il nucleo teologico comune alle due Chiese costituisce il fondamento della loro riflessione: riguardo al concetto di «intelligenza», la Chiesa cattolica afferma che questo dono è un aspetto essenziale della creazione degli esseri umani a immagine di Dio, una convinzione che trova pieno riscontro nella teologia ortodossa; inoltre, entrambe le tradizioni concordano nel ritenere che l’IA non possa essere considerata un soggetto morale dotato di responsabilità etica, come sottolineato nel documento vaticano Antiqua et Nova (AN), dove si ribadisce che solo l’essere umano «è veramente un agente morale, cioè un soggetto moralmente responsabile che esercita la sua libertà nelle proprie decisioni e ne accetta le conseguenze» (AN 39).

Questa convergenza teologica si estende al riconoscimento dei rischi antropologici. Papa Francesco, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2024, aveva espresso preoccupazione per la possibilità che la comunità mondiale possa cadere «nella spirale di una dittatura tecnologica» a causa dell’uso non etico dell’IA, un timore che riecheggia nelle parole del patriarca Kirill sulla disumanizzazione della società, sulla «perdita del ruolo decisivo che l’uomo libero – con la forza della sua mente e della sua volontà, – ha nel definire i rapporti sociali e il destino proprio e collettivo». Entrambe le Chiese temono una potenziale minaccia all’ordine antropologico voluto da Dio, specialmente quando le nuove tecnologie vengono presentate come dotate di capacità che dovrebbero rimanere esclusivamente umane.

Un altro punto di convergenza riguarda la necessità di una regolamentazione etica dello sviluppo tecnologico. Papa Francesco aveva proposto l’adozione di un trattato internazionale che regoli la creazione e l’utilizzo dell’IA, mentre la COR ha sottolineato l’importanza che a livello statale vengano definiti chiaramente i confini tra ciò che è permesso e ciò che non lo è. Entrambe le tradizioni rifiutano l’idea che il progresso tecnologico possa essere lasciato a se stesso senza una guida etica robusta e radicata in una visione integrale della persona umana.

Le due Chiese si distinguono invece nell’approccio metodologico e strategico: il mondo cattolico ha scelto di occuparsi attivamente dell’IA, producendo documenti ufficiali e creando strutture dedicate al dialogo con il mondo tecnologico, ha elaborato linee guida etiche in collaborazione con le grandi aziende dell’informatica, un metodo che non ha trovato finora paralleli nell’approccio ortodosso russo. Il Rome Call for AI Ethics, lanciato nel febbraio 2020, rappresenta uno dei primi esempi di questa strategia. Il documento, sottoscritto dalle Nazioni Unite e da importanti attori dell’ambito tecnologico, stabilisce principi etici riassunti in 6 punti (che ancor oggi faticano ad essere rispettati): i sistemi di IA devono essere comprensibili a tutti (trasparenza), non devono discriminare nessuno (inclusione), ci dev’essere un responsabile umano, devono essere imparziali, affidabili e garantire sicurezza e privacy. La Chiesa cattolica ha prodotto inoltre un’ampia serie di documenti, culminati nel gennaio 2025 con la pubblicazione della citata Antiqua et Nova, vera pietra miliare che affronta sistematicamente il rapporto tra IA e società.

La COR, pur avendo creato strutture ad hoc attraverso la commissione del Santo Sinodo, ha preferito affidarsi alle dichiarazioni pubbliche della gerarchia durante conferenze o sui media, facendo passare la propria riflessione attraverso canali comunicativi diversi, più legati ai singoli interventi personali.

L’antropomorfissazione

Una differenza significativa emerge invece sul tema dell’antropomorfissazione, quando cioè si attribuiscono all’IA (in particolare ai modelli conversazionali) pensieri, volontà ed emozioni, e viene trattata come se fosse una persona con cui dialogare. Se entrambe le Chiese esprimono preoccupazione per questo fenomeno, notiamo che la COR ha assunto una posizione più radicale e specifica. La proposta avanzata da padre Fëdor Luk’janov in occasione del convegno internazionale su «Dio, l’uomo, il mondo» (2024), rappresenta una posizione decisamente più prescrittiva rispetto all’approccio cattolico. Luk’janov – che presiede la Commissione patriarcale per i problemi della famiglia, maternità e infanzia – ha infatti suggerito di vietare esplicitamente l’applicazione di voci e volti umani nelle tecnologie di IA.

Da parte sua, anche il Vaticano riconosce che il linguaggio utilizzato dagli operatori del settore tende all’antropomorfizzazione, oscurando così la linea di demarcazione tra ciò che è umano e ciò che è artificiale, ma non arriva a proporre un divieto esplicito, preferendo invece sottolineare la necessità di chiarezza e trasparenza, in quanto «se l’IA è usata per favorire contatti genuini tra le persone, essa può contribuire in modo positivo alla piena realizzazione della persona»; al contempo però ci ricorda che «invece di ritirarci in mondi artificiali, siamo chiamati a coinvolgerci in modo serio ed impegnato col mondo, fino ad identificarci con i poveri e i sofferenti, a consolare chi è nel dolore e a creare legami di comunione con tutti» (AN 63).

Anche il tono comunicativo delle due Chiese presenta sfumature che riflettono differenti sensibilità culturali: papa Francesco, nel messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, ha esortato a sgombrare il terreno dalle letture apocalittiche e dai loro effetti paralizzanti, citando Guardini che invitava a «non irrigidirsi contro il “nuovo” nel tentativo di “conservare un bel mondo condannato a sparire”».

Il pontefice ha parlato di «sapienza del cuore», «quella virtù che ci permette di tessere insieme il tutto e le parti, le decisioni e le loro conseguenze, le altezze e le fragilità», e ha invitato a una comunicazione pienamente umana:

«Spetta all’uomo decidere se diventare cibo per gli algoritmi oppure nutrire di libertà il proprio cuore».

Il paradigma tecnocratico

Qui si inserisce la condanna di quello che Francesco aveva bollato come «paradigma tecnocratico», ossia l’idea che la tecnologia e l’efficienza siano il metro di giudizio per tutto, che ogni problema sia misurabile ed abbia una soluzione tecnica. Per Francesco il problema non è la tecnologia in sé, ma che questo modo di pensare sia diventato l’unico, impedendoci di vedere il valore intrinseco delle cose oltre la loro utilità.

La COR, pur cercando a sua volta un equilibrio, tende a utilizzare toni più severi quando tratta di possibili violazioni dell’ordine antropologico, chiamando in causa – come ha fatto il metropolita Kliment di Kaluga – la Torre di Babele per descrivere i «tecno-ottimisti» che sognano di superare ogni sfida e raggiungere l’immortalità affidandosi alla cosiddetta intelligenza artificiale generale (AGI), quell’ipotetica forma di IA dotata di capacità intellettuali in grado di comprendere, apprendere e applicare la conoscenza a una gamma di compiti potenzialmente infinita. Tuttavia, lo stesso metropolita ha aggiunto che «se si mettono da parte queste posizioni estreme, diventa chiara la necessità di sviluppare in modo sensato una visione ragionevole, cauta e allo stesso tempo pragmatica del problema».

Un aspetto interessante del confronto riguarda il concetto di «algoretica», nato nel contesto cattolico. Il neologismo indica l’etica applicata agli algoritmi, ci si chiede cioè se le decisioni automatiche che prendono i sistemi digitali (dalla semplice selezione dei contenuti sui social a valutazioni ben più delicate riguardanti la finanza o la sanità) rispettino determinati valori e non discriminino nessuno. «Parlare di tecnologia – ha detto papa Francesco nel discorso al G7 del 2024 – è parlare di cosa significhi essere umani e quindi di quella nostra unica condizione tra libertà e responsabilità, cioè vuol dire parlare di etica. (…) Sembra che si stia perdendo il valore e il profondo significato di una delle categorie fondamentali dell’Occidente: la categoria di persona umana. Ed è così che in questa stagione in cui i programmi di intelligenza artificiale interrogano l’essere umano e il suo agire, proprio la debolezza dell’ethos connesso alla percezione del valore e della dignità della persona umana rischia di essere il più grande vulnus nell’implementazione e nello sviluppo di questi sistemi». Questo tentativo di creare un ponte tra etica e algoritmi rappresenta uno sforzo specificamente cattolico di entrare nel linguaggio tecnico della comunità scientifica.

Da parte sua, finora la COR non ha sviluppato un concetto equivalente, preferendo mantenere la riflessione su un piano etico, più strettamente teologico e antropologico. A questo proposito, il metropolita Kliment ha dichiarato che nella Chiesa russa esiste da secoli una valutazione religiosa del mondo tecnologico, che riguarda perciò anche l’IA. Kliment si riferisce evidentemente alle figure dei grandi filosofi e pensatori religiosi russi di inizio ‘900, per i quali non esisteva separazione tra sapere scientifico e sapere spirituale, e sostenevano che la vera conoscenza è integrale, abbraccia ragione, intuizione mistica, esperienza artistica, al punto che la tecnica stessa, il lavoro umano sulla materia, può diventare un atto quasi liturgico. Non per niente Florenskij parla di «teurgia», «azione divina», per descrivere l’attività umana quando è orientata verso il sacro, e Nikolaj Berdjaev mette in guardia da ogni utopia terrena, da promesse di salvezza puramente tecnologiche o sociali che ignorino la dimensione spirituale dell’esistenza.

Sul tema dei deepfake e della disinformazione prodotti dalle nuove tecnologie, entrambe le Chiese esprimono serie preoccupazioni, sia pur con enfasi leggermente diverse. Papa Francesco aveva collocato la questione nel contesto della responsabilità, sottolineando il rischio che le campagne di disinformazione generate artificialmente possano scatenare violenze, interferire nei processi elettorali e «alimentare i conflitti e ostacolare la pace». Per l’ortodossia russa il deepfake viene giudicato innanzitutto dal punto di vista dottrinale, come l’avallo consapevole della menzogna e dell’inganno, quindi come una violazione del Decalogo.

La questione dell’impatto economico dell’uso dell’IA viene affrontata da entrambe le confessioni con particolare attenzione alla dignità della persona. Antiqua et Nova dedica ampio spazio al tema (nn. 66-70), sottolineando che il lavoro umano non deve essere al servizio del profitto ma dell’uomo integralmente considerato, e che «l’IA dovrebbe assistere e non sostituire il giudizio umano, così come non dovrebbe mai degradare la creatività o ridurre i lavoratori a meri “ingranaggi di una macchina”» (AN 70). Anche in questo caso, la riflessione della COR risulta meno articolata, probabilmente perché nel contesto russo il tema della crisi dell’occupazione legata all’automazione non è stata ancora percepita con la stessa urgenza.

 

L’uomo schiavo della propria creazione

Entrambe le Chiese condividono invece la preoccupazione per il rischio che l’IA possa dare origine addirittura a nuove forme di pseudo-religiosità: Neil McArthur dell’Università di Manitoba ha scritto che tali tecnologie possiedono proprietà che solitamente vengono attribuite a esseri soprannaturali, in quanto si presentano come immortali, capaci di grandi scoperte, con un’intelligenza che supera qualsiasi mente umana. È ciò che è accaduto con la «Way of the Future», la «Chiesa digitale» fondata nel 2017 dall’ingegner Anthony Levandowski (uno dei pionieri dei veicoli a guida autonoma), e che intende promuovere la creazione di un’IA così potente da assumere caratteristiche divine. L’idea di fondo era quella di preparare l’umanità alla cosiddetta «singolarità tecnologica», una teoria secondo cui le macchine diventeranno talmente avanzate da superare la nostra capacità di capire cosa stiano facendo e dove ci stiano portando.

Simili incidenti dimostrano concretamente i rischi di affidare a sistemi automatici la trasmissione di contenuti religiosi che richiedono invece una comprensione profonda del contesto teologico e morale; è ugualmente chiaro che un’iniziativa del genere viene giudicata da cattolici e ortodossi come un’aberrazione che porta all’idolatria, «per cui, ricercando in essa un “Altro” più grande con cui condividere la propria esistenza e responsabilità, l’umanità rischia di creare un sostituto di Dio. In definitiva, non è l’IA a essere divinizzata e adorata, ma l’essere umano, per diventare, in questo modo, schiavo della propria stessa opera» (AN 105).

Crediamo allora che quanto espresso nel n. 33 dell’Antiqua et Nova possa valere per entrambe le tradizioni cristiane, quando scrive che «l’intelligenza umana non consiste primariamente nel portare a termine compiti funzionali, bensì nel capire e coinvolgersi attivamente nella realtà in tutti i suoi aspetti (…). Dato che l’IA non possiede la ricchezza della corporeità, della relazionalità e dell’apertura del cuore umano alla verità e al bene, le sue capacità, anche se sembrano infinite, sono incomparabili alle capacità umane di cogliere la realtà. Da una malattia si può imparare tanto, così come si può imparare tanto da un abbraccio di riconciliazione, e persino anche da un semplice tramonto».

La poesia e l’amore

È un po’ l’auspicio sintetizzato da papa Francesco nella Dilexit nos: «Nell’era dell’intelligenza artificiale, non possiamo dimenticare che per salvare l’umano sono necessarie la poesia e l’amore», in quanto «ciò che misura la perfezione delle persone è il loro grado di carità, non la quantità di dati e conoscenze che possono accumulare».

 

La Nuova Europa

 

 

IL SEGRETO DELLA FELICITA'

  



ALLA VIGILIA DEL NUOVO ANNO AUGURIAMO A TUTTI (E A NOI STESSI)  FELICITA'

Uno studio di Harvard, durato 85 anni, rivela il segreto della felicità: non è né il denaro né la fama

Nel corso degli anni, molti hanno associato la felicità al successo materiale e al riconoscimento sociale.

 

La scoperta di Harvard sulla vera felicità

Tuttavia, uno studio impressionante condotto dalla Harvard University, iniziato nel 1938 e durato ben 85 anni, ha svelato che i pilastri della vera felicità umana sono molto più vicini a noi di quanto pensassimo.

I ricercatori hanno seguito la vita di 724 individui, espandendo poi il focus ai loro discendenti, analizzando dettagliatamente la qualità delle loro relazioni sociali. I risultati sono cristallini: coloro che godono di legami sociali profondi e positivi tendono a vivere più a lungo e ad essere significativamente più felici.

 Qualità della vita legata alle relazioni

Il segreto risiede nella qualità delle nostre interazioni quotidiane. Secondo lo studio, avere persone care che sono supportative e premurose può aumentare significativamente la nostra felicità. Questi legami influenzano positivamente la nostra capacità di affrontare lo stress e le sfide della vita, migliorando sia la nostra salute mentale che quella fisica.

Non si tratta solo di sentirsi amati, ma anche di percepire un senso più ampio e profondo della propria esistenza. La ricchezza emotiva derivante da relazioni solide e genuine si traduce in una migliore qualità della vita e persino in una maggiore longevità.

Consigli pratici per relazioni migliori

Ma come possiamo migliorare le nostre relazioni per raggiungere questa felicità duratura? Secondo i suggerimenti del World Economic Forum, la chiave è dedicare tempo di qualità alle persone che amiamo. Questo include condividere esperienze, ascoltare attivamente e mostrare empatia e sostegno.

Altrettanto importante è il perdono. Superare i conflitti e concentrarsi sulle qualità positive degli altri può rafforzare i legami e aumentare la reciproca comprensione e rispetto. Infine, essere disponibili ad aiutare e supportare gli altri non solo migliora le nostre relazioni, ma arricchisce la nostra esperienza di vita.

  • Trascorri tempo faccia a faccia con le persone care.
  • Ascolta attivamente e con empatia.
  • Perdona le incomprensioni ed eventuali errori
  • Offri aiuto e supporto regolarmente.
  • Sorridi a coloro che incontri
  • Le relazioni negative inquinano la tua e l'altrui vita
  • in ogni persona che hai incontrato (o incontro) lungo il cammino della tua vita ci sono aspetti positivi e aspetti negativi, Soffermati sugli aspetti positivi e manifesta la tua gratitudine.
  • Il rancore è un brutto tarlo che corrode anzitutto la tua vita.

L’indagine di Harvard ci ricorda che la vera felicità non è un traguardo distante o un obiettivo materiale, ma qualcosa che possiamo coltivare ogni giorno attraverso relazioni significative e amorevoli. In un mondo che spesso valorizza il successo individuale e materiale, ricordiamo che la nostra felicità più profonda e duratura si trova nel calore delle nostre relazioni umane.

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