lunedì 4 agosto 2025

SETE DI BELLEZZA

 


*Una generazione

 che ha sete

 di bellezza*

 

-         di Susanna Tamaro

 

Che sorpresa il milione di ragazzi presente l’altra sera a Tor Vergata! Un Papa ancora poco conosciuto e una società in cui la presenza della Chiesa sembra essere ormai svaporata, faceva immaginare un ben altro esito.

 E che dire dei loro sguardi? Sguardi straordinariamente vivi e commossi, uno diverso dall’altro, come se la clonazione estetica imposta dai media non avesse mai attecchito nelle loro vite. Lo spirito del tempo — che è quello dello scrolling ossessivo e annoiato — sembrava aver reso ormai impossibile quel lungo tempo di attenzione, immobilità e silenzio che ha accompagnato l’adorazione eucaristica. Eppure è accaduto. Era come se tutta l’enorme spianata trattenesse il fiato, fissando emozionata il Santissimo che riverberava di luce dalla sua teca d’oro sull’altare.

 Questa visione mi ha riportato agli anni della mia tormentata adolescenza, quella degli anni 70, anni impregnati di un fanatismo ideologico che difficilmente lasciava scampo. Nata in una famiglia super laica, in una città laicissima come Trieste, covavo delle domande nel mio cuore a cui nessuno sembrava capace di rispondere. Una tra tutte: cosa rendeva una vita davvero degna di essere vissuta? Così a 16 anni, in autostop, avevo raggiunto Assisi. Lì sapevo che c’era stato un ragazzo inquieto come me che si era ribellato ai fanatismi del suo tempo, consegnandosi a una dimensione di libertà che trovava affascinante. E che cosa cercano i cuori inquieti, se non questo? Una libertà che non sia il tutto poter fare, ma il tutto poter leggere in una dimensione più grande. Un saper leggere che ci impedisce di venire trascinati via dalla, a volte inestricabile, complessità dei nostri giorni.

 Ma mentre la mia generazione doveva destreggiarsi con furori ideologici partoriti nel Novecento — furori che hanno portato ovunque dolore e morte e la cui impronta è ancora visibile in sottotraccia nella nostra società — la generazione attuale si trova a vivere la più grande transizione antropologica dell’umanità. Non si tratta di un cambiamento di costumi ma di una vera e propria modifica nello sviluppo del cervello. L’uso eccessivo dello smartphone riduce infatti, specie nei bambini e negli adolescenti, il volume cerebrale, soprattutto nelle regioni subcorticali, quelle regioni che aiutano a regolare il comportamento e a controllare le emozioni. I tanti troppi episodi di insensata violenza giovanile ci parlano proprio di questa incapacità di controllo.

 Per riuscire a sfuggire a questa pericolosa e inquietante deriva, bisogna forse tornare a contemplare il meraviglioso albero dell’evoluzione. Il nome zoologico che ci definisce è l’ homo sapiens sapiens . Guardandosi in giro, in questi tempi di devastanti guerre e odi di ogni tipo, è abbastanza difficile trovare appropriata questa espressione. Eppure, in quel sapiens si nasconde proprio la chiave di volta. Sapiens deriva dalla parola latina sapere, di origine indoeuropea, che significa: avere sapore, essere saggio. La differenza tra un cibo sciapo e uno salato la conosciamo tutti. Il nostro tempo vive nel culto del sapere, ma il sapere che ci viene proposto è propriamente tecnico e scientifico, slegato da ogni realtà più sottile. Dante ci ricorda invece che la sapienza è uno dei sette doni dello Spirito Santo. Non si tratta quindi di qualcosa da acquisire con un programma, ma di una misteriosa emanazione che nasce dal cuore.

 Quegli occhi luminosi e attenti ci parlano di una generazione che, nonostante sia cresciuta nell’ignavia educativa e tra cascami del nichilismo novecentesco, ha ancora una sete inestinguibile di verità, di bellezza e di costruzione di rapporti capaci di resistere all’usura del tempo, anche imparando a rinunciare a qualcosa — come ha detto la ragazza che ha posto una delle tre domande a papa Leone — perché la vita dell’uomo acquisisce senso non nel consumo ma nella costruzione che richiede, a volte, scelte difficili. La natura umana è forte e coraggiosa e, quando attinge alle sue risorse, non ha bisogno di droghe, pillole o corsi di resilienza.

 Nel Giubileo della Speranza la visione di questo milione di ragazzi ci ha aperto una finestra su un mondo che credevamo perso per sempre. Il mondo di chi ha sete, ed è capace di mettersi in cammino alla ricerca dell’acqua che disseta. Forse quello che corrode la nostra società opulenta è proprio il non comprendere la grande arsura che la attraversa.

 Corriere della Sera


domenica 3 agosto 2025

ASPIRATE A COSE GRANDI

 

Leone XIV mentre dà il buongiorno ai giovaniLeone XIV ai giovani: aspirate a cose grandi.

 Contagiate tutti con la testimonianza di fede

Il Pontefice celebra a Tor Vergata, nella periferia di Roma, la Messa del Giubileo dei giovani ed incoraggia a non accontentarsi. La pienezza dell’esistenza non dipende da ciò che si accumula, dice nell'omelia, ma risiede in quello che “con gioia sappiamo accogliere e condividere”, l’amore di Dio che si manifesta in Cristo. È lui che disseta la sete del cuore e la risposta alle inquietudini

-       Tiziana Campisi – Città del Vaticano

“Aspirate a cose grandi, alla santità, ovunque siate. Non accontentatevi di meno. Allora vedrete crescere ogni giorno, in voi e attorno a voi, la luce del Vangelo”

Arriva presto Papa Leone a Tor Vergata, come a voler stare vicino ai giovani il più possibile. Non sono nemmeno le 8 del mattino quando con la sua jeep bianca attraversa la spianata, ma le migliaia di ragazzi e ragazze che hanno trascorso la notte in sacchi a pelo e giacigli improvvisati non sonnecchiano, lo accolgono con una gioia incontenibile, alzando le braccia, urlando il suo nome, sventolando bandiere, striscioni, cappellini e qualunque altra cosa a portata di mano possa far notare la propria presenza. Oltre un milione, secondo le autorità, le persone riunite nella periferia di Roma - fra cui 20 cardinali, circa 450 presuli, tra vescovi e arcivescovi, e quasi 7 mila sacerdoti - per la Messa del Giubileo dei giovani per il quale si sono accreditati 850 operatori dell’informazione, tra giornalisti, fotografi, cameramen e videomaker.

LEGGI L'OMELIA DI PAPA LEONE XIV DELLA MESSA DEL GIUBILEO DEI GIOVANI

Il buongiorno ai ragazzi

Giunto sul palco, prima di prepararsi per la liturgia, il Pontefice, saluta: “Buongiorno a tutti! Buona domenica! Good morning! Buenos dias! E bonjour, guten morgen! Spero che tutti voi possiate riposare un po'”. Poi invoca su tutti la benedizione di Dio e auspica che “la grande celebrazione in cui Cristo ci ha lasciato la Sua presenza nell'Eucaristia” sia “un'occasione davvero memorabile per ognuno di noi”, concludendo: “Quando siamo insieme come Chiesa di Cristo, seguiamo, camminiamo insieme, viviamo Gesù Cristo”.

Guardare in alto

Dopo aver risposto ieri sera alle domande di tre ragazzi, che si sono fatti portavoce delle inquietudini, delle incertezze e dei dubbi delle nuove generazioni, nella sua omelia, pronunciata in italiano e in parte in spagnolo e inglese, il Papa inverte per un attimo i ruoli e pone lui tre interrogativi. “Cos'è veramente la felicità? Qual è il vero gusto della vita? Cosa ci libera dagli stagni del non senso, della noia, della mediocrità?”, chiede. E risponde riassumendo le “molte belle esperienze” fatte da tutti nelle scorse giornate giubilari: “Vi siete incontrati tra coetanei provenienti da varie parti del mondo, appartenenti a diverse culture. Vi siete scambiati conoscenze, avete condiviso aspettative, avete dialogato con la città attraverso l'arte, la musica, l'informatica, lo sport. Al Circo Massimo, poi, accostandovi al Sacramento della Penitenza, avete ricevuto il perdono di Dio e avete chiesto il suo aiuto per una vita buona”.

La risposta è da cogliere in tutte queste cose: “la pienezza della nostra esistenza non dipende da ciò che accumuliamo”, dice Leone XIV, e nemmeno “da ciò che possediamo”, è, invece in “ciò che con gioia sappiamo accogliere e condividere”, è nell'amore di Cristo.

 Leone XIV, al termine della Messa del Giubileo dei giovani, recita l’Angelus insieme al milione di ragazzi e ragazze presenti a Tor Vergata. Torna a ricordare Maria e Pascale, le ...

Comprare, ammassare, consumare, non basta. Abbiamo bisogno di alzare gli occhi, di guardare in alto, alle “cose di lassù”, per renderci conto che tutto ha senso, tra le realtà del mondo, solo nella misura in cui serve a unirci a Dio e ai fratelli nella carità, facendo crescere in noi “sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità”, di perdono, di pace, come quelli di Cristo. E in questo orizzonte comprenderemo sempre meglio cosa significhi che “la speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”. Carissimi giovani, la nostra speranza è Gesù.

Gesù cambia le nostre vite

È “l'incontro” con Cristo Risorto a cambiare “la nostra esistenza, che illumina i nostri affetti, desideri, pensieri”, spiega il Pontefice, che prende spunto dalla prima Lettura, tratta dal Libro del Qoelet, la quale avverte che “tutto è vanità” e che ogni uomo dovrà lasciare quanto ha accumulato, per ricordare la “finitezza delle cose che passano”. Come fa anche il Salmo 90, che “ci propone l'immagine dell’erba che germoglia; al mattino fiorisce” e poi “alla sera è falciata e secca”.  “Due richiami forti, forse un po' scioccanti, che però non devono spaventarci”, incoraggia Leone, perché “la fragilità di cui ci parlano” è in pratica “parte della meraviglia che siamo”.

L’esistenza dell’uomo si rigenera costantemente nell’amore

E ricorre ancora alla natura il Papa per chiarire che la nostra vita è una rigenerazione d’amore. Come un prato che, “fatto di steli esili, vulnerabili, soggetti a seccarsi, piegarsi, spezzarsi”, si rigenera con nuovi steli per i quali “generosamente i primi si fanno nutrimento e concime, con il loro consumarsi sul terreno”, e si rinnova “anche durante i mesi gelidi dell'inverno, quando tutto sembra tacere”, perché “si prepara ad esplodere, a primavera, in mille colori”.

Siamo fatti per questo. Non per una vita dove tutto è scontato e fermo, ma per un'esistenza che si rigenera costantemente nel dono, nell'amore. E così aspiriamo continuamente a un "di più" che nessuna realtà creata ci può dare; sentiamo una sete grande e bruciante a tal punto, che nessuna bevanda di questo mondo la può estinguere. Di fronte ad essa, non inganniamo il nostro cuore, cercando di spegnerla con surrogati inefficaci! Ascoltiamola, piuttosto!

 Dio che disseta la sete del cuore

La sete del cuore è dissetata da Dio, è la sintesi del Pontefice, e Sant’Agostino lo fa capire chiarisce che “l'oggetto della nostra speranza” non è la “terra”, né “qualcosa che deriva dalla terra, come l'oro, l'argento, l'albero, la messe, l'acqua”, cose che “piacciono, sono belle”, “buone”, ma non sono la speranza. “Ricerca chi le ha fatte, egli è la tua speranza”, diceva il vescovo di Ippona, che nelle Confessioni riconosce, rivolgendosi a Dio, “Tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo”. Riflessioni che riportano all’invito fatto da Papa Francesco durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona, esattamente due anni fa. Leone la ripete in spagnolo quell’esortazione “a confrontarsi con grandi domande” compiendo “un viaggio”, superando sé stessi, andando “oltre”. La risposta è in Cristo, che “come diceva San Giovanni Paolo II, alla veglia di preghiera della XV Giornata Mondiale della Gioventù, quella del 2000, suscita il desiderio di fare della propria vita qualcosa di grande, per migliorare sé stessi “e la società, rendendola più umana e più fraterna”.

Coltivare l’amicizia con Cristo

Da qui l’invito di Leone a tenersi “uniti” a Cristo, a rimanere “nella sua amicizia, sempre, coltivandola con la preghiera, l’adorazione, la Comunione eucaristica, la Confessione frequente, la carità generosa, come ci hanno insegnato i beati Piergiorgio Frassati e Carlo Acutis”, e l’ultima importante raccomandazione ai giovani ad aspirare "a cose grandi", "alla santità", e a non accontentarsi "di meno".  A ragazzi e ragazze che ora si preparano a fare ritorno nei loro Paesi, infine, l’incoraggiamento  a continuare “a camminare con gioia sulle orme del Salvatore” e

Contagiate chiunque incontrate col vostro entusiasmo e con la testimonianza della vostra fede! Buon cammino!

Vatican News

 

sabato 2 agosto 2025

FATE ATTENZIONE


3 agosto 2025-

-XVIII domenica nell’anno-

Luca 12,13-21 (Qo 1,2; 2,21-23)


In quel tempo 13Uno della folla  disse a Gesù: «Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità». 14Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: «Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così - disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!». 20Ma Dio gli disse: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?».

 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».


Commento   di Luciano Manicardi

Il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro; i beni materiali sono per l’uomo e non l’uomo per i beni materiali, la dimensione del fare non deve compromettere o intaccare l’umanità della persona: forse potremmo sintetizzare così il messaggio delle letture di questa domenica. Che mettono in guardia l’uomo contemporaneo dal far consistere la propria vita unicamente nel fare e nell’avere, nel produrre e nel possedere. Vi è un aspetto di assurdità, rileva Qohelet (Qo 1,2; 2,21-23), nell’affannarsi e tribolare dell’uomo sotto il sole, essendo chiaro che ciò che l’uomo guadagna dal suo lavorare affannato e incessante passerà ad altri che non vi hanno per nulla faticato. Nel vangelo (Lc 12,13-21) Gesù mette in guardia dalla brama di possesso, dalla cupidigia. Il termine greco utilizzato, pleonexía (Lc 12,15) significa “avere più di un altro”, “ambire di più”, e comporta il confronto sociale, la concorrenzialità, la competitività, la logica orizzontale e soffocante del paragone, matrice della perniciosa invidia. E la messa in guardia di Gesù è fondata sulla memoria della precarietà della condizione umana. “Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita” (Lc 12,20). La morte appare, sia in Qohelet che nel vangelo, come la realtà che annichilisce i disegni di riuscita esistenziale nella via del possesso e del fare, della ricchezza e delle opere prodotte, svelando tale riuscita come fallace e illusoria. Se opportunamente ricordata, la morte può esercitare un importante magistero per la vita riconducendo l’essere umano al realismo, dunque all’umiltà e alla sapienza. Chi vuole conoscersi deve interrogarsi sulla morte perché essa svela all’uomo ciò che veramente è essenziale e ha senso nella vita. Nonostante le teorizzazioni e le sperimentazioni della cosiddetta società post-mortale, resta ancora e sempre vera l’affermazione lapidaria di sant’Agostino: Incerta omnia, sola mors certa (“Tutte le cose sono incerte, sola la morte è certa”). La morte è come una bussola per il vivente: grazie ad essa egli può orientarsi nell’esistenza. La prima lettura poi, fornisce l’occasione di una riflessione sul modo di vivere il tempo e il lavoro oggi.

La seconda parte della pericope di Qohelet (2,21-23) riguarda il lavoro, la fatica del lavorare, ma forse anche quella fatica che consiste nel vivere e nel mestiere stesso di stare al mondo. In ogni caso su tale realtà è proiettata la luce disillusa che proviene dalla prima parte della pericope (1,2), la provocatoria ouverture del libro che proclama che tutto è hebel. Il termine, che ha come senso base quello di soffio, è stato tradotto con vanità, vuotofugacitàfutilitàassurdospreco … E tale giudizio radicalmente disincantato e disilluso viene proiettato sul lavoro sia perché il frutto del lavoro sarà ereditato da chi non ha faticato per nulla, sia perché il lavoro (e la vita stessa: “tutti i suoi giorni”) è fatica fisica e psicologica che produce “dolori e fastidi penosi” e spesso nemmeno la notte riesce ad apportare riposo. C’è qualcosa per cui valga la pena agire, lavorare, tribolare e, in definitiva, vivere? Una risposta sapiente la fornisce il poeta Fernando Pessoa nella poesia Mare portoghese: “Ne valse la pena? Tutto vale la pena se l’anima non è piccina”. Per Qohelet occorre lavorare e svolgere il mestiere di abitare il mondo perché questa è la sorte che Dio ha destinato all’uomo (3,10) e perché l’uomo può dare un senso al suo fare condividendo e donando. Se “il lavoro prende la direzione del dono” (Jacques Ellul), l’uomo quantomeno è liberato dalla frustrante prospettiva di lasciare i frutti del proprio ingegno e della propria fatica a non si sa chi, magari una persona ottusa e stolta (2,18-21). Il testo suggerisce anche la possibile deriva disumanizzante del lavoro, rompendo con la retorica che lo vuole sempre votato alla nobilitazione dell’uomo. La frase “sono un uomo e tutto ciò che è umano mi riguarda” (homo sum: humani nihil a me alienum puto), divenuta emblema dell’atteggiamento umanistico, è tratta dalla commedia di Terenzio (II sec. a.C.) Il punitore di se stesso. Essa costituisce la risposta di Cremete a Menedemo che, infastidito dalle osservazioni fatte da quello al suo stile di vita, lo rimprovera di essere curioso: “Hai tanto tempo da perdere, Cremete, che non pensi agli affari tuoi e ti occupi di quelli degli altri, che non ti riguardano affatto?”. La frase è dunque un elogio della buona curiosità: della curiositas che è cura e passione per l’umano fino a diventare empatia. Cremete infatti si preoccupa dei ritmi di lavoro esagerati fino alla disumanità di Menedemo e lo interroga cercando di riportarlo al buon senso di ritmi più umani. Dopo l’iniziale resistenza, Menedemo gli confessa che quel superlavoro, quel lavoro folle, incessante, frenetico, era la punizione che egli stava infliggendo a se stesso per il suo comportamento eccessivamente rigido che aveva condotto suo figlio ad andarsene da casa. Nel testo di Terenzio l’abnormità del ritmo lavorativo è spiegata psicologicamente come punizione che un individuo si autoinfligge riducendosi a schiavo. Nella nostra contemporaneità i ritmi di lavoro stressanti e alienanti sono legati, in particolare, a due delle forme con cui viene vissuto il tempo, l’accelerazione e la produttività. Queste dimensioni dominano il mondo del lavoro e rappresentano ormai una forma di totalitarismo schiavizzante non percepito come tale, ma scambiato per fenomeno naturale, quando invece è una costruzione sociale e rientra nel dominio che controlla la società sotto le regole del capitalismo. È totalitario ciò che esercita una potente pressione sulla volontà e l’agire dei singoli; influenza e condiziona pesantemente la loro vita familiare, affettiva, sociale, invade l’anima e la psiche; è onnipervasivo e riguarda anche istituzioni e ogni aspetto della vita sociale; instilla un senso di impotenza e induce a ritenere che non ci sia niente da fare, che le cose non possano essere cambiate. Davvero, “tutto è vano”. Il totalitarismo del tempo accelerato e produttivo giunge a rendere colpevoli i suoi sudditi (cioè tutti noi): se siamo in ritardo, se non siamo abbastanza efficaci, se non rispondiamo agli standard richiesti dalla produzione ci sentiamo in colpa, ci affliggiamo perché non sappiamo gestire bene il tempo (falliamo l’“ottimizzazione” dei tempi) e non siamo abbastanza performativi. Interiorizziamo l’accelerazione come un dato necessario e ineluttabile e, se non ne siamo all’altezza, ce ne facciamo una colpa. Vittime colpevolizzate!

Nel vangelo Gesù, interpellato da un anonimo, rifiuta in modo secco di intervenire in una disputa tra fratelli per questioni di eredità (Lc 12,13-14), quindi, in modo accorato (“Badate e guardatevi da ogni cupidigia”) mette in guardia contro la cupidigia (12,15). Gesù, che ha appena esortato a non aver paura di chi può uccidere il corpo ma poi non può più fare nulla (12,4), ora si mostra molto preoccupato di un nemico la cui potenza è infinitamente più letale perché può impossessarsi dell’anima e sottrarre la vita ingannando l’uomo e conducendolo a vivere una parvenza di vita: “anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”. Dal piano delle penose dispute famigliari sulla divisione di un’eredità, Gesù risale al cuore: egli mette in guardia tutti dalla cupidigia, dalla brama di possedere. La cupidigia proviene dal cuore (Mc 7,22) ed “è idolatria” (Col 3,5). E dalla materiale eredità, Gesù passa a denunciare quella cupidigia che impedisce di “ereditare il Regno di Dio” (Ef 5,5). L’idolatria dà illusioni di vita, ma produce morte. La vita non consiste nei beni, dice Gesù. E nasce per noi la domanda: In che cosa faccio consistere la mia vita? Da cosa la faccio dipendere? Che cosa la manda avanti ogni giorno? “Ma che è mai la vostra vita?” chiede Giacomo ai ricchi che dicono “Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni”, mentre non sanno e non possono sapere “che cosa sarà domani” (Gc 4,13-14). Questo mettere le mani sul futuro tentando di controllare il tempo e di gestirlo a piacimento, è ciò che viene rimproverato anche al ricco insensato della parabola narrata in Lc 12,16-21. La cecità a cui la ricchezza dà origine è evidenziata nella figura del ricco “senza intelligenza” (áphron). Egli pensa di possedere anche ciò che per definizione è indisponibile: il tempo, il futuro, la vita. E il binomio ricchezza – stupidità è espresso in modo tale che il “pieno” della ricchezza cerca di camuffare il desolante “vuoto”, la penosa carenza di intelligenza e di sapienza del ricco. Se l’accumulo di ricchezze, così come l’ottenere posizioni sociali di prestigio, l’aver potere e considerazione, l’essere famosi, possono essere forme di esorcizzazione della morte, in realtà esse falliscono il proprio della vita che richiede l’assunzione della sua finitezza per poter cogliere l’oggi come grazia e vivere ogni attimo presente come il frammento che ci viene concesso e in cui possiamo vivere il tutto che dà senso al nostro vivere e che non lo satura di cose ma lo riempie di senso. Lo riempie accogliendolo nella sua limitatezza e mancanza come invito al desiderio, all’apertura, alla relazione, all’incontro, al dono. E così libera l’uomo dalla soffocante prigionia del detestabile ego che lo conduce ad arricchire per sé, in una triste solitudine.

 

Monastero di Bose

Immagine



 

LO STUPORE DELL'ESSERE

 


Attualità

 di un libro 

consapevolmente

 inattuale



-       di Alessio Conti 

Le considerazioni, consapevolmente inattuali, che Giuseppe Savagnone affida al suo Lo stupore dell’essere. Il pensiero alternativo di Tommaso d’Aquino (Marcianum Press, Venezia 2025), rappresentano un pharmakon: un rimedio contro le mode e soprattutto contro l’unica ideologia imperante, quella dell’individualismo compulsivo e consumistico.

Un individualismo che, lungi dal limitarsi a descrivere il mondo, lo plasma, riducendo la ragione a mero strumento di calcolo. In alternativa a ciò, questo libro parla di verità, di Dio, di bene, in una parola, dell’essere: perché – riprendendo Tommaso d’Aquino – lo stupore originario è quello legato non già al mero esserci, ma appunto all’essere di ogni cosa e ultimamente dell’uomo stesso.

Il testo di Savagnone si articola in conversazioni, non tanto per riprendere estrinsecamente la struttura delle quaestiones tomiste, quanto per intessere con l’Aquinate un fecondo dialogo.

Un colloquio in cui, pur senza dissimulare la distanza storica e culturale che ci separa da Tommaso, si individuano degli interstizi esistenziali, grazie ai quali questa esperienza risulta significativa anche per noi, smarriti uomini del XXI secolo. Dialetticamente è proprio la distanza che ci spinge a ripensare categorie ermeneutiche acriticamente ripetute, stimolando un dibattito filosofico talora asfittico.

Un’opera, quella di Savagnone, che ripercorre la biografia di una vocazione perché il filosofo è anzitutto una persona che cerca la verità.  Oltre l’iconografia ufficiale e il suo uso anti modernistico, Tommaso fu uomo di rottura: ruppe con la famiglia, i nobili conti d’Aquino che lo avrebbero voluto religioso, ma nella potente Abazia di Montecassino. Non era però questa la strada scelta dal Signore per il giovane aquinate che, nel suo primo soggiorno napoletano, conobbe la filosofia aristotelica, tramite il nuovo ordine domenicano. E si sentì’ subito a casa: niente sfarzose abbazie provviste di terre e prebende, ma solo quella carità intellettuale, quello zelo per le anime che sarà la cifra della sua vita, prima ancora che del suo pensiero.

A 19 anni Tommaso è frate: i Domenicani, anche per sottrarlo a possibili ritorsioni da parte dei famigliari, lo inviano nello studium di Parigi, uno dei più importanti del tempo. Orizzonte del suo pensiero non sarà più quindi la cella monastica, ma la città, brulicante di passioni e di vita, tra mercanti e banchieri, borghesi e fratti. In tale contesto, dal punto di vista politico, da un lato l’Impero raggiungeva l’apice della sua potenza e dall’altro già le monarchie nazionali si profilavano all’orizzonte.

Sono straordinariamente intense le pagine che Savagnone dedica al quadro storico-culturale del XIII secolo, non già mero sfondo, ma segreto alimento del sistema tommasiano, figlio di una società complessa in cui universalismo e particolarismo, discipline teologiche ed arti liberali, filosofia e poesia si arricchivano vicendevolmente.

Questo stesso spirito di libertà permea la ricerca intellettuale del giovane Tommaso: pingue e taciturno, tanto da essere soprannominato dai compagni “bue muto”, il Domenicano inizia ad insegnare a Colonia, prima di divenire Magister –  oggi diremmo professore ordinario – a Parigi. L’ambiente culturale parigino si connotava allora per una forte tendenza platonica che, anche in virtù degli apporti successivi di pensatori come Plotino, sembrava la meglio conciliabile con i dogmi della fede cristiana per la sua impostazione nettamente trascendente. Sostenuta da Agostino e dallo Pseudo Dionigi, che i medioevali identificavano erroneamente con un convertito da Paolo durante il suo discorso all’Areopago, questa interpretazione appariva la sola possibile.

Del resto la visione aristotelica del mondo che le si opponeva era sospetta per più di un motivo: tradizionalmente poco incline alla trascendenza, lo Stagirita era stato largamente commentato dagli infedeli, e per loro tramite, dopo un lungo oblio era tornato nella sua interezza a disposizione del mondo cristiano. Alberto, maestro di Tommaso, si era interessato proprio ad Aristotele anche se caldeggiava, in una prospettiva sincretistica, la sua conciliazione con Platone.

Sarà Tommaso ad elaborare quella sintesi creativa che liberò Aristotele dal soffocante abbraccio degli arabi e dei neo-platonici, senza dissimulare la distanza tra i due grandi maestri della grecità. E mentre i Francescani deploravano “quella nuova dottrina che distrugge tutto quello che Agostino insegna”, Tommaso assumeva Aristotele come punto di riferimento essenziale, anche se non esclusivo, della sua filosofia, tanto da designarlo sempre come “il filosofo”.

L’autore ripercorre con un’enfasi pregna di passione questi primi, fondamentali, momenti della vicenda umana e spirituale di Tommaso, presentandoci una figura inedita, ma, proprio per questo, attuale. Oggi molti intellettuali appaiono prigionieri di un totalitarismo del politicamente corretto che condiziona a priori il modo di pensare delle persone, e sono sovente ossessionati da un narcisistico desiderio di visibilità quantomai distante dalla prospettiva di Tommaso. Il frate domenicano, infatti, amava rendersi invisibile, affinché a brillare fosse l’oggetto della sua ricerca.

Un brillare icasticamente rappresentato da una feconda simbiosi che unisce, nell’orizzonte tommasiano, la riflessione  filosofica alla luce.  Il pensiero interpreta non se medesimo, ma la realtà, proprio come la luce che “non è l’oggetto del nostro sguardo, ma la condizione per vedere i colori”.

Ed alla luce di quella stessa (solo apparente) semplicità, che rappresenta in realtà la conquista di uno spirito temprato dai marosi della vita, Tommaso elabora il suo sistema. Un pensiero che, come sottolinea argutamente Savagnone, è frutto non solo di energie psichiche, derivando piuttosto da “quella abissale tranquillità dell’oceano divino dell’essere, in cui egli parla”. Una ricerca capace di divenire preghiera, oltre la scissione, oggi dominante, tra persone che vivono in modo irriflesso le verità di fede, e teologi, spesso capaci di una notevole profondità di pensiero, che però non si riverbera  nell’esistenza. 

Oltre questo iato l’Aquinate ci rammenta che l’uso dell’intelligenza implica sempre una responsabilità fondamentale: quella di impostare in modo corretto i rapporti tra ragione e fede. Prima di analizzare la tesi tommasiana, Savagnone illustra tre posizioni che, pur se tra loro antitetiche, rendono inutile il confronto tra questi due ambiti. Secondo alcuni esponenti del monachesimo benedettino la fede fagocita la ragione. In questa prospettiva il solo filosofo degno di tal nome è Cristo ed al pensiero umano non resta alcuno spazio. Posizione questa insostenibile prima che errata perché, volendo entrare nel tempo, Dio stesso si serve in certo modo di categorie razionali.

Non meno assurda si rivela l’alternativa del razionalismo moderno secondo cui, da Hegel in poi, la fede sarebbe un momento provvisorio, destinato ad essere superato dall’inesorabile incedere del sapere filosofico. Tale posizione, anche nella sua variante positivistica, ignora i limiti della ragione per la quale un mondo ridotto a misurabilità risulta oltremodo angusto.

Seducente, ma non meno fallace, appare anche la dottrina della doppia verità che fa leva su una presunta incommensurabilità tra fede e ragione che rischia di divenire una minaccia per la stessa unità della persona. Fede e ragione, ecco la posizione tommasiana, sono certo distinte, ma non incommensurabili: distinguere per unire, è appunto il motto che riassume meglio il punto di vista dell’Aquinate. Fede e ragione sono come due ali con cui il pensiero umano si innalza verso la contemplazione della verità. Metafora cogente quella delle ali, perché pur restando distinte, quindi autonome, cooperano al medesimo scopo.

Il supremo problema dell’esistenza di Dio è affrontato da Tommaso in base alla fondamentale distinzione tra l’ordine dell’essere e quello del conoscere: occorre partire dal mondo, dal contingente, per mostrare l’esistenza di quel primo motore che chiamiamo Dio, grazie agli effetti a noi noti Ma la conoscenza dell’esistenza di Dio è un preambolo, necessario certo a far comprendere, per quanto possibile, le verità di fede. Una premessa alla quale può accompagnarsi il salto nella fede vera e propria, ma questa è solo una possibilità, visto che le vie per mostrare l’esistenza di Dio interpellano in primo luogo l’intelligenza.

Un salto che però non implica l’annullamento della ragione, necessaria a comprendere, per quanto possibile ciò che si crede. In questo orizzonte “il dubbio non è il nemico, ma il compagno e lo stimolo di una fede matura, e non bisogna rifuggirlo, come molti fanno, ma salutarlo, come un dono e un invito a cercare ancora”. Tommaso non è un algido dispensatore di risposte prefabbricate, ma piuttosto un inesausto suscitatore di interrogativi “perciò le domande sono sempre più numerose delle risposte contenute nelle definizioni dogmatiche. Il cristianesimo non è uno schedario di certezze definitive, ma un pellegrinaggio nell’abisso insondabile del mistero divino”.

In Tommaso si profila una circolarità tra fede e ragione, tra filosofia e teologia, autrici entrambe di conoscenze distinte, ma intimamente unite. Sul piano antropologico una medesima circolarità coinvolge il vedere e l’ascoltare, entrambi limitati e, per questo, destinati a completarsi: chi vede a bisogno di credere e chi crede, ascoltando, comunque desidera anche vedere.

Ma il vedere, l’ascoltare, presuppongono che fuori di noi vi sia un mondo, un reale attingibile conoscitivamente: ed è proprio questo presupposto che crolla nell’età moderna, abbagliata dal soggetto, capace di accedere solo a sue rappresentazioni. E se con la postmodernità il soggetto rappresentante entra in crisi, ecco profilarsi da un lato il nichilismo, e dall’altro l’ermeneutica in cui la comune appartenenza dell’interpretato e del interpretante ad un contesto, parrebbe dissolvere i fatti in un orizzonte meramente linguistico e interpretativo.

Ancor più sconvolgente, in questa temperie risulta la tesi tommasiana del primato dell’essere: noi scopriamo, in primo luogo che qualcosa è, e pensare, da Parmenide in poi, significa pensare l’essere. Un’idea questa, nota acutamente Savagnone, che si palesa anche quando ci soffermiamo su enti come l’unicorno, inesistenti in natura, o su personaggi fittizi come quelli della mitologia omerica che sono comunque presenti, almeno nella nostra immaginazione.

 L’essere ed il suo primato rappresentano il vasto orizzonte della riflessione dell’Aquinate che è oltremodo necessario riguadagnare anche per depotenziare  “il dualismo problematico tra soggetto pensante e mondo” entrambi ricompresi nello spazio dell’essere. Ma affermare il primato dell’essere e, conseguentemente, l’esistenza di alcune leggi concernenti tanto il pensiero quanto la realtà, significa anche  ribadire il primato della ragione, perché chi negasse i suoi supremi principi a rigore dovrebbe tacere. Qualora infatti io affermassi che il principio di non contraddizione non esiste rigetterei implicitamente la tesi opposta e quindi, anche per negarlo, sarei contraddittoriamente costretto ad applicare proprio quel principio.

Ma la scoperta dell’essere non riguarda unicamente chi si occupa di filosofia: qualunque uomo, purché esca dal frenetico turbinio della vita quotidiana, proverà meraviglia, e conseguentemente gratitudine, per il fatto che qualcosa esiste. Occorre pensare in termini di dono, in una prospettiva in cui nulla è al nostro servizio, la natura non va soggiogata, gli stessi legami debbono essere riparametrati oltre il paradigma del possesso esclusivo. È questa gratitudine che ci costituisce radicalmente come responsabili di tutto ciò che, con la sua sola esistenza, emerge dall’anonimo orizzonte del nulla: un sì detto ad ogni sasso, a ciascun essere vivente, a partire da noi stessi.

Il primato dell’essere possiede anche intrinseche ricadute bioetiche: tramite il concetto di potenza, non riducibile a mera possibilità, consente di costruire un antropologia ontologica, assai più feconda di quella prestazionale che oggi appare dominante. Travalicando l’alternativa tra chi fa consistere la persona unicamente nelle sue relazioni, e chi insiste sul suo essere come soggetto sussistente, una rivisitazione dell’idea tommasiana di persona come creatura razionale può sostenerci nel rifuggire la sterile ed apparente contrapposizione tra individualismo e massificazione, impedendo al soggetto di dissolversi nella anonima pluralità di infinite relazioni.

Occorre tornare a concepire l’uomo non come il padrone dell’ente, ma alla stregua del “pastore dell’essere”, secondo la celebre espressione di Heidegger . L’essere sfugge alla presa dei concetti, allude al mistero del reale, di cui il pastore con la sua stessa indigenza è, in qualche modo, segno. L’essere esige rispetto e custodia, non può venire manipolato alla stregua di un qualunque utilizzabile, perché, come detto, l’orizzonte della potenza eccede radicalmente quello della mera possibilità. È proprio il concetto tommasiano di atto d’essere che dischiude all’uomo questa apertura originaria che Savagnone situa nel quadro di un’ecologia integrale. Se, abbassando l’uomo al livello delle cose, pare riduttivo ingaggiare la battaglia ambientale nell’orizzonte di un naturalismo sterile, si può affrontare la questione e da una prospettiva in cui tutto, certo non confusamente, è e, per questo solo fatto, merita rispetto.

Così la creazione diventa via verso l’assoluto. Come ha osservato Benedetto XVI Tommaso d’Aquino ha insegnato che la nozione di creazione deve trascendere l’origine orizzontale del dispiegamento degli eventi. Tommaso ha osservato che la creazione non è né un movimento né una mutazione. È piuttosto il rapporto fondazionale e costante che lega le creature al creatore. Più semplicemente la nozione di creazione si pone su un piano ontologicamente diverso da quello della scoperta scientifica e quindi nessuna innovazione può renderla residuale, perché essa riguarda non il rapporto cronologico, ma l’apparizione ontologica dei singoli esseri.

Il creato, con il suo divenire finalistico, allude al divino, come le cinque vie mostrano, ma non è Dio, perché solo in Lui essenza ed essere coincidono: Dio è l’essere, le cose hanno l’essere per partecipazione. Una mentalità questa che unicamente la Rivelazione cristiana rende possibile, rescindendo, in radice, ogni equivalenza tra Dio e la natura.

Sempre dalla Rivelazione rampolla l’idea, ignota tanto a Platone quanto ad Aristotele, di un Dio che non si conosce, ma ci conosce; non si pensa ma ci pensa fino allo scandaloso abbraccio della Croce. Un abbraccio che racchiude il mondo intero, noto al suo autore fin nei suoi più reconditi interstizi, come nota gli è la vita di ciascuno di noi.

Ma forse l’insegnamento più profondo Tommaso lo offre in quel prolungato silenzio che precedette la sua morte, un silenzio di cui, oltre ogni semplicistica contrapposizione, possono fungere da chiosa queste parole di Agostino: “Che ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia, santa? Che dice mai chi parla di te? Eppure, sventurati coloro che tacciono di te, perché, pur pronunziando tante parole, in realtà sono muti”. Un silenzio, presago di quel futuro che diverrà presente, anzi eterno, solo oltre la fugace curva dei nostri giorni. 

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SEI IN CONDOTTA

 

 


IL SIMBOLO 
DELLA CONFUSIONE EDUCATIVA 
DEGLI ADULTI 




Il voto in condotta diventa indispensabile per l’ammissione alla classe successiva nella scuola secondaria. I pareri di Valentina Chinnici, presidente di Cidi, e del pedagogista Daniele Novara

di Rossana Certini

«Diamo così un segnale forte e chiaro: nella scuola italiana il rispetto per la persona e per le istituzioni è imprescindibile». Con queste parole il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha annunciato l’approvazione definitiva, lo scorso 30 luglio, dei regolamenti attuativi della legge 150 del 1° ottobre 2024, la norma che ha riformato in profondità il voto di condotta nella scuola italiana.

Da settembre, dunque, il voto in condotta diventa fondamentale per l’ammissione alla classe successiva della scuola secondaria. Sarà necessario aver ottenuto, in sede di scrutinio finale una valutazione pari almeno a 7 decimi. Qualora la condotta sia valutata con 6, non sarà concessa l’ammissione automatica: il giudizio verrà sospeso e sarà richiesto agli studenti di presentare un elaborato legato alla cittadinanza attiva, collegato ai motivi che hanno determinato il voto ottenuto.

Più efficaci i crediti di fiducia

«Ho insegnato per vent’anni nelle scuole delle periferie di Palermo e posso dire con assoluta certezza che tutto ciò che riguarda voti in condotta e sanzioni disciplinari, quando è applicato a ragazzi cosiddetti “difficili” o “a rischio” ovvero giovani che manifestano comportamenti trasgressivi, talvolta persino ai margini della devianza, non funziona». A dirlo è Valentina Chinnici, presidente del Centro di iniziativa democratica degli insegnanti-Cidi, un’associazione che, dal 1972, riunisce insegnanti di tutti gli ordini di scuola e di tutte le discipline, con l’obiettivo di contribuire alla creazione di una scuola democratica, culturalmente più attrezzata e più vicina agli interessi di ragazze e ragazzi.

«Queste misure non producono miglioramenti, anzi: inaspriscono il conflitto, irrigidiscono i comportamenti e cristallizzano la devianza», sottolinea Chinnici che aggiunge: «Se l’obiettivo della legge è rafforzare l’autorevolezza dei docenti o ridurre la violenza e l’aggressività a scuola, mi sento di dire, per esperienza diretta, che non è questa la strada giusta». Secondo la presidente Cidi i ragazzi più oppositivi «rispondono molto meglio ai “crediti di fiducia”. Questo vuol dire che quando sentono che l’insegnante crede in loro, cambiano atteggiamento. Ma se si sentono sfidati sul piano della punizione, dell’autorità imposta dall’alto, non reagiscono come si spera. Anzi, non riconoscono quella forma di autorevolezza. Questi ragazzi sono spesso convinti di non farcela. E così, per difesa, fanno saltare il banco o lanciano il quaderno».

Se l’obiettivo della legge è rafforzare l’autorevolezza dei docenti o ridurre la violenza e l’aggressività a scuola mi sento di dire, per esperienza diretta, che non è questa la strada giusta. I ragazzi rispondono molto meglio ai “crediti di fiducia”

Il rischio di un maggiore abbandono scolastico

Secondo il pedagogista Daniele Novara tra i rischi delle nuove misure c’è quello di un aumento dell’abbandono scolastico, in particolare tra gli studenti maschi, già oggi più esposti alla dispersione. Secondo i dati Istat 2023, infatti, la quota di 18-24enni con al più un titolo secondario inferiore e non più inseriti in un percorso di istruzione o formazione è pari al 10,5%. Il fenomeno dell’abbandono scolastico è più frequente tra i ragazzi (13,1%) rispetto alle ragazze (7,6%). Novara ricorda che «siamo tra i Paesi europei con meno laureati, insieme alla Romania. Il sistema scuola attuale non riesce a trattenere soprattutto i ragazzi. Le studentesse sono oggi due su tre fra i laureati, è un dato che nasconde una frattura di genere importante».

Inoltre, aggiunge, «la scienza, dalle neuroscienze alla psicologia sociale, ci dice chiaramente che i metodi basati sulla “mortificazione” non sono efficaci. Pensando all’ipotesi di bocciatura è importante comprendere che escludere un ragazzo dal suo gruppo classe come “pena” per un cattivo comportamento non genera apprendimento, ma solo rifiuto».

È un po’ come se trattassimo l’ambiente scuola come quello sportivo, trasformandolo in una gara dove o si vince o si perde. Invece secondo Novara è importante che «la scuola sia una comunità di apprendimento in cui anche i ragazzi più in difficoltà devono poter essere inclusi. I ragazzi, soprattutto in adolescenza, sviluppano una reazione di rigetto verso un’istituzione che li rifiuta. La scuola rischia così di perdere il suo ruolo educativo e trasformarsi in un luogo punitivo».

I ragazzi, soprattutto in adolescenza, sviluppano una reazione di rigetto verso un’istituzione che li rifiuta. La scuola rischia così di perdere il suo ruolo educativo e trasformarsi in un luogo punitivo

Ripensare l’autorità educativa

Anche se oggi sembra esserci un ampio consenso, almeno a livello emotivo, verso soluzioni di tipo repressivo, si tratta di risposte che parlano più alla pancia dell’opinione pubblica che alla sua parte razionale. Del resto, è molto più semplice sollecitare istinti punitivi che costruire una visione educativa realmente condivisa.

Però Novara precisa: «Attenzione, non bisogna rinunciare all’autorità: bisogna ripensarla. I ragazzi di oggi crescono in un contesto completamente diverso da quello in cui sono cresciuti i loro genitori e insegnanti, dominato da dispositivi digitali, social network, carenze di sonno e isolamento sociale. È evidente che poi fanno fatica a concentrarsi. In questo scenario, non possiamo imporre un modello educativo del Novecento a ragazzi del XXI secolo. Occorre una comunità educativa che accompagni, orienti, ma anche ponga paletti chiari e condivisi. Mettere dei limiti non significa punire, ma dare una cornice chiara in cui crescere».

Attenzione: non bisogna rinunciare all’autorità: bisogna ripensarla. Mettere dei limiti non significa punire, ma dare una cornice chiara in cui crescere

Scuola-famiglia

Serve una connessione forte tra scuola e famiglia perché, spiega Novara, «se un ragazzo dorme solo cinque o sei ore a notte, magari per via dei videogiochi, è logico che a scuola sarà distratto. I genitori devono essere supportati per capire come gestire il sonno, l’uso dei dispositivi, la socialità dei figli. Non si può pensare che la scuola compensi da sola tutte le carenze educative, né che si trasformi in un “presidio militare” del rigore».

Quindi la scuola deve essere un luogo di collaborazione, attività di gruppo, apprendimento condiviso, «non solo lezioni frontali, studio e interrogazioni» perché questo tipo di approccio è «arcaico e inefficace, dice Novara. Che spiega: «Quando aumentiamo il lavoro cooperativo, la socialità e il confronto tra pari anche i ragazzi più in difficoltà trovano motivazione e appartenenza. È così che si previene non attraverso il ricatto della bocciatura. I genitori, da parte loro, devono assumersi la responsabilità educativa, devono presidiare la crescita dei figli finché sono minorenni, con regole, tempo condiviso e coinvolgimento».

Aggressioni al personale scolastico: serve un percorso educativo condiviso

Infine, vale la pena ricordare un dato emerso lo scorso 12 dicembre, in occasione della presentazione della Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti del personale scolastico quando il ministro Valditara ha incontrato una rappresentanza di dirigenti scolastici, docenti e personale Ata. Lì è emerso che nell’anno scolastico 2023-2024 si sono registrati 68 casi di aggressione al personale scolastico. Di questi: 33 sono stati compiuti da familiari di studenti, 31 dagli stessi studenti, 4 da persone estranee e in un caso l’autore è rimasto ignoto.

I dati mostrano quanto sia necessario avviare una riflessione profonda e coerente sul modo in cui noi adulti possiamo migliorare il nostro ruolo di guida e supporto: la disciplina non può limitarsi a una semplice sanzione, ma deve far parte di un percorso educativo condiviso, che tenga conto delle difficoltà e dei cambiamenti del contesto in cui i giovani crescono e soprattutto in cui noi adulti siamo esempio da seguire prima che adulti che sanzionano.

 Vita

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venerdì 1 agosto 2025

MIGLIORARSI ASSIEME

  


Il calo dei volontari e il loro ruolo

 



-       di VANESSA PALLUCCHI

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C’è una forza centrifuga all’individualismo, al consumismo dei sentimenti e all’indifferenza, che sta scuotendo il nostro Paese. E c’è una spinta alla solidarietà che viaggia in senso opposto, non si arrende e trova anche nuove forme di espressione per continuare a esistere.

L’Italia solidale che resiste dopo la pandemia, in una fase di crisi partecipativa e di aumento di povertà e solitudini mi sembra il primo dato da estrarre dall’indagine di Istat sul volontariato, di cui Avvenire ha scritto ieri, che conferma i 4,7 milioni di volontari italiani pilastro della coesione sociale. Ma i nuovi dati sono in grado di raccontarci anche molto altro, che riassumerei in tre punti: i numeri, le tendenze, i perché.

Partiamo dai numeri. Già la fotografia scattata da Istat nel 2023 (riferita al 2021, per il Censimento degli enti non profit) aveva evidenziato un rilevante calo, in dieci anni, di circa 900mila volontari. Se da una parte, però, la conferma di questi numeri non ci stupisce oggi, dall’altra la diminuzione non ci ha lasciati indifferenti nel tempo trascorso. Si è infatti avviato un processo, stimolato anche da un dibattito pubblico, che ha iniziato a interrogare le organizzazioni sulla loro capacità di attrarre i volontari e, più in generale, sulle trasformazioni del contesto in cui operano e sul modello evolutivo da perseguire. Tornando ai numeri, possiamo anche constatare come oggi ci troviamo in un momento di stabilizzazione, se non addirittura di timida ripresa dell’impegno volontario, se consideriamo che le stime Istat del 2023 parlavano di 4,6 milioni di volontari.

Passando alle tendenze, tra le novità più rilevanti dell’indagine c’è sicuramente l’aumento di volontari che svolgono attività in forma “ibrida”, cioè sia all’interno di organizzazioni che attraverso aiuti diretti (nonostante il calo riguardi entrambe le forme prese singolarmente). 

Interessante è anche la crescita dell’impegno nelle attività ricreative e culturali. Entrambe queste tendenze riflettono l’emergere di nuovi bisogni, tanto dei volontari quanto delle comunità in cui operano, e dunque la ricerca di nuove risposte sociali. È compito, assolutamente cruciale, delle organizzazioni quello di leggere queste trasformazioni ed evolvere, rafforzando quegli elementi che più le contraddistinguono, a partire dalla capacità di costruire reti sociali laddove la società attuale tende a disgregare; di offrire una cornice di valori condivisi e una visione di futuro migliore possibile laddove prende spazio disillusione e paura; di favorire l’acquisizione di competenze, importanti anche per la crescita personale dei volontari; di porsi come facilitatrici tra il desiderio e l’effettiva possibilità di realizzare azioni concrete di cittadinanza attiva. 

Infine, veniamo ai “perché”. Credo sia un segnale molto positivo la maggiore predisposizione, evidenziata da Istat anche in chi svolge aiuti diretti, a indirizzare il proprio contributo verso la collettività, l’ambiente, il territorio piuttosto che verso relazioni interpersonali dirette. In una fase complicata e spesso cupa come quella che viviamo, assume più peso il sentirsi immersi in un simile destino con il prossimo anche sconosciuto, e quindi la necessità di resistere e migliorare assieme. 

La realizzazione che “nessuno si salva da solo”, come diceva anche papa Francesco, pare accomunare sempre più persone.

Al Terzo settore l’incarico di offrire tutti i migliori strumenti per difendere e incoraggiare il desiderio di solidarietà.

 Portavoce Forum Nazionale del Terzo Settore

www.avvenire.it 

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