giovedì 31 agosto 2023

GIORNATA MONDIALE DEL CREATO

 18ª Giornata per la Custodia del Creato

1° settembre 2023

La Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato ricorre il 1 settembre e segna l’inizio del Tempo del Creato, che si conclude il 4 ottobre, festa liturgica di San Francesco d’Assisi. Nel suo Messaggio Papa Francesco invita ad ascoltare “l’appello a stare a fianco delle vittime dell’ingiustizia ambientale e climatica, e a porre fine a questa insensata guerra al creato”.

🌿Per il #TempoDelCreato (1° sett.-4 ott. 2023) si segnaliamo che sono disponibili tutti gli strumenti per le celebrazioni diocesane:
  • Messaggio del Papa 🙏
  • Sussidio per l'animazione liturgica-teologica-culturale
  • Locandina personalizzabile

https://unedi.chiesacattolica.it/giornata-del-creato-2023

La Celebrazione Nazionale della 18ª Giornata per la Custodia del Creato, quest'anno sarà ospitata dalla diocesi di Verona nei giorni 16 e 17 settembre 2023
Vi preghiamo di segnalare eventuali Giornate diocesane alla mail: unpsl@chiesacattolica.it 

Messaggio di Papa Francesco “Che scorrano la giustizia e la pace”.

La Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato ricorre il 1 settembre e segna l’inizio del Tempo del Creato, che si conclude il 4 ottobre, festa liturgica di San Francesco d’Assisi.

  • Celebrazioni diocesane
    • Avezzano, 1 luglio - Incontro regionale (foto)
    • Cremona, dal 27 agosto al 7 ottobre, serie di eventi per il #TempoDelCreato
    • Brindisi, presentazione Messaggio del Papa
    • Milano, nel mese di settembre serie di eventi per il #TempoDelCreato
      • Nocetum, 1° settembre e 10 settembre
    • Ferrara-Comacchio, dal 1° al 30 settembre, serie di eventi per il #TempoDelCreato
    • Milano (zona Lecco, dal 1° settembre al 4 ottobre, serie di eventi per il #TempoDelCreato
    • Bergamo-Brescia, 1° settembre, preghiera ecumenica
    • Treviso, 1° settembre, Inaugurazione del percorso botanico naturalistico
    • Alba, 1° settembre, Preghiera presso l’Oasi San Nicolao di Canale
    • Vicenza, dal 2 al 22 settembre, serie di eventi per il #TempoDelCreato
    • Novara, 3 settembre - Pellegrinaggio
    • Padova, 15 settembre - Incontro con Animatori Laudato si'
    • Padova, 17 settembre - Cammino di preghiera

mercoledì 30 agosto 2023

SCHADENFREUDE

 
Le persone stanno diventando 

sempre meno empatiche?

Schadenfreude è quando ci si compiace delle disgrazie altrui. Gli esperti spiegano quali sono i fattori che potrebbero portare a un deficit di empatia che interessa ampie porzioni della popolazione.

 

-         di DARYL AUSTIN

La Schadenfreude, ovvero il compiacersi per le disgrazie altrui, è un sentimento comune di questi tempi. Gli esperti indicano i tre fattori che oggi più frequentemente possono alimentare questa emozione in ampi gruppi di persone.

Quando una commerciante d’arte di Manhattan mostrò interesse per la sua arte, Paul Weiner pensò che la sua carriera fosse finalmente a un punto di svolta. Quando l’influente gallerista lo scoprì su Instagram, l’artista attraversava un periodo di difficoltà, e faticava a sopravvivere a Brooklyn. “All’inizio pensavo che fosse interessata al mio lavoro”, racconta Weiner, “ma non c’è voluto molto perché le sue intenzioni diventassero evidenti”. Poco dopo che avevano iniziato a parlare, l’attenzione della gallerista si è spostata dall’arte di Weiner al fatto che non poteva permettersi di comprare i colori o di pagare un necessario intervento del dentista. “Si compiaceva della mia miseria”, afferma Weiner, “voleva sentire sempre più aneddoti sulle mie difficoltà”.

Anche se all’epoca non sapeva come chiamarlo, Weiner era vittima della cosiddetta Schadenfreude, un termine che in tedesco descrive il sentimento per cui si prova piacere per le disgrazie altrui.

Non è un sentimento nuovo. Un vecchio detto giapponese, ad esempio, recita: “La sfortuna degli altri ha il sapore del miele”, e il filosofo del XIX secolo Friedrich Nietzsche affermò: “Vedere gli altri soffrire fa bene”. Secondo i ricercatori delle università Johns Hopkins, Columbia, Berkeley Haas e Harvard, al giorno d’oggi sono tre i fattori che scatenano questa emozione con maggiore frequenza in ampie fasce della popolazione. Tra questi, il surplus di lavoratori d’élite (un tema trattato da The Atlantic il mese scorso), le reazioni personali alla pandemia e l’uso sfrenato dei social media.

“La Schadenfreude esiste da sempre, ma aumenta o diminuisce a seconda della prevalenza delle emozioni che la innescano nelle persone”, afferma Silvia Montiglio, docente alla Johns Hopkins University e studiosa di Schadenfreude.

Tali emozioni sono spesso radicate in un senso di ingiustizia, superiorità morale, invidia o nel concetto per cui qualcuno “si merita” ciò che gli capita, spiega Montiglio. E così succede che sorridiamo quando il collega che ci sta antipatico viene rimproverato dal capo o quando vediamo che l’auto sportiva che ci ha appena superato di gran carriera viene fermata dalla polizia. La Schadenfreude è anche il motivo per cui gran parte del mondo ha sogghignato e condiviso meme quando il sommergibile Titan è scomparso il mese scorso, prima di scoprire che i suoi quattro ricchi passeggeri erano morti. “Le gerarchie sociali da tempo creano un terreno fertile per la Schadenfreude”, afferma Montiglio.

Poche posizioni adeguate per lavoratori qualificati

Una ricerca pubblicata di recente mostra che il “confronto con chi sta meglio”, spesso tra poveri e ricchi, comunemente contribuisce a generare il sentimento di Schadenfreude. Ma accade anche che a provare questa emozione siano più frequentemente le persone della stessa condizione sociale. In un articolo pubblicato sul The Atlantic, Peter Turchin, ricercatore dell’Università di Oxford, ha recentemente definito la “sovrapproduzione di lavoratori d’élite” come un fenomeno che si verifica “quando una società produce troppe persone super-ricche e molto istruite e non abbastanza posizioni adeguate per soddisfare le loro ambizioni”. Il ricercatore sostiene che questo sia uno dei due fattori che hanno portato più di una società al collasso nel corso della storia, e afferma che questa dinamica si sta ripresentando nel nostro tempo.

Montiglio concorda sul fatto che la Schadenfreude sia più diffusa oggi, e descrive l’attuale mercato del lavoro avanzato come più competitivo di qualsiasi altro abbia mai sperimentato prima. La docente afferma che questo fa sì che chi ne fa parte intimamente si rallegri quando un collega viene scartato per una posizione o una promozione perché ciò significa che aumentano le proprie probabilità di avanzamento.

Diverse reazioni alla pandemia globale

Oltre all’elevata domanda per un numero limitato di posizioni lavorative, un’altra ragione per cui la Schadenfreude viene percepita più di frequente ha a che fare con la pandemia. “La pandemia ha creato una tempesta perfetta di superiorità morale, atteggiamenti di vanto e una malattia che causa danni e disgrazie gravi”, afferma Montiglio. In effetti, è probabile che la Schadenfreude sia alla base di gran parte dei casi di derisione e stigmatizzazione a cui tutto il mondo ha assistito quando le persone che non si sono vaccinate hanno contratto il COVID o quando coloro che si sono attenuti alle raccomandazioni si sono ammalati comunque.Julia Garcia, madre di due figli di San Jose, in California, ha vissuto in prima persona questi sentimenti, quando suo cugino si è ammalato di coronavirus. “Era stato così presuntuoso nelle sue affermazioni su Facebook, dicendo che non aveva bisogno del vaccino”, racconta. Aveva preso in giro i membri della nostra famiglia che avevano fatto il vaccino, e sosteneva che tutta la questione del virus era stata ingigantita dai media. “Quando alla fine si è ammalato, la cosa mi ha fatto in un certo senso piacere”, spiega Garcia. “Solo quando si è ammalato gravemente ed è finito in ospedale, mi sono sentita pentita di quella reazione”.

 Oltre alla pandemia, Garcia fa una riflessione su quello che probabilmente è l’ambito in cui maggiormente viene alimentata la Schadenfreude: i social media.

Social media e Schadenfreude

Colin Leach, psicologo della Columbia University e autore di ricerche sulla Schadenfreude, sostiene che il piacere della Schadenfreude si intensifica quando il sentimento è provato nei confronti di qualcuno che non ci piace e aggiunge che i social media spesso favoriscono l’esternazione di queste emozioni.

I social media sono anche il contesto in cui spesso si fanno paragoni e proliferano le invidie. “L’invidia alimenta la Schadenfreude più di qualsiasi altra emozione”, afferma Montiglio. Inoltre, molte persone leggono le notizie e si informano sui social media, ed è lì che, come mostrano le ricerche, in molti vengono a sapere di disgrazie altrui, che si tratti del mancato successo di una celebrità o del divorzio dei vicini.

A volte, nei social media la Schadenfreude viene usata per manipolare l’ideologia degli utenti, spesso in ambito politico. “Provocare i liberali” è uno slogan (usato da alcuni conservatori negli Stati Uniti) concepito per coltivare la Schadenfreude”, afferma Susanna Siegel, docente di filosofia all’Università di Harvard.

I tentativi politici di strumentalizzare la Schadenfreude e di sfruttare le ideologie in questo modo sono spesso efficaci perché la Schadenfreude può rendere emotivamente più gratificante vedere qualcuno dell’altro schieramento fallire, che la propria squadra avere successo. “Ritengo che si siano verificati fenomeni di questo tipo durante le elezioni del 2020”, afferma Sa-kiera Hudson, docente assistente presso l’Università della California a Berkeley Haas, che ha pubblicato una ricerca a supporto di questa teoria. “Le persone possono sentirsi più motivate dalla possibilità di danneggiare i propri avversari che da quella di aiutare i propri alleati”, spiega.

Non lasciare che la Schadenfreude prenda il sopravvento

Ma la Schadenfreude non solo ha un effetto negativo sulle divisioni crescenti all’interno della società, il più delle volte danneggia a livello individuale chi prova questo sentimento. Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer una volta ha definito la Schadenfreude “un segno distintivo di un cuore completamente cattivo”; e anche se questa associazione è forse un po’ eccessiva, considerando che tutti proviamo questo sentimento in una certa misura di tanto in tanto, la Schadenfreude non è certo una virtù.

“Essenzialmente, la Schadenfreude è una malevola noncuranza per l’umanità altrui”, afferma Leach. Un antidoto per curarla è mettersi nei panni degli altri. “La reazione più benevola alle disgrazie altrui è la simpatia, che può derivare dall’empatia”, spiega Leach. Hudson concorda, e consiglia di evitare qualsiasi persona o luogo che strumentalizzi le emozioni, spinga a fare paragoni sociali o proponga una visione basata sul contrasto e la contrapposizione. “Coltivate un’atmosfera in cui tutti abbiano dei benefici e la Schadenfreude avrà meno modo di attecchire”, afferma.

Per le persone che si accorgono di provare Schadenfreude e vogliono liberarsene, Leach suggerisce di riconoscere che questa emozione è spesso alimentata dal proprio senso di inadeguatezza, “quindi può essere utile disgiungere i sentimenti che proviamo per noi stessi da quelli che proviamo per la fortuna di altri”, spiega, consigliando inoltre di mettere in discussione qualsiasi convinzione personale sul fatto che una persona colpita dalla sfortuna “se la sia cercata” o se la sia meritata. “Prima di affermare che una disgrazia è giusta, dobbiamo essere sicuri che lo sia davvero, e non solo in base a una nostra soddisfazione cinica per la sventura altrui”, afferma Leach.

E se questi passi sono troppo difficili, Siegel consiglia almeno di tenere per sé la propria felicità per le disgrazie degli altri. “Se vi sentite in conflitto con la vostra Schadenfreude, è un buon segno”, dice. “È la celebrazione smisurata del dolore altrui che si colloca a livello della crudeltà”.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente in lingua inglese su nationalgeographic.com.

LA SOLITUDINE DI STUDENTI, INSEGNANTI E FAMIGLIE


La lettera sulla scuola


“La solitudine di ragazze e ragazzi è evidente, ma diventa ancor più grave perché è incastonata tra altre due solitudini: quella delle famiglie e quella degli insegnanti”. Su ilLibraio.it la lettera sulla scuola scritta da Franco Lorenzoni, maestro elementare e fondatore del centro di sperimentazione educativa Casa-laboratorio di Cenci, dal nuovo numero della rivista “Sotto il vulcano”: “Fuori dalle classi i meccanismi di esclusione sono ancora più spietati…”

 

-di Franco Lorenzoni *

 Un gruppo di studenti di un liceo di Terni, rispondendo all’invito della preside di indicare possibili miglioramenti per la loro scuola, ha proposto di istituire uno psicologo bidello. Uno psicologo sempre presente, in corridoio, che si possa interpellare al momento del bisogno senza passare al vaglio di insegnanti o genitori.

 Tra bidelle e bidelli, come gli studenti chiamano il personale Ata, ci sono talvolta figure che incarnano un’attenzione curiosa verso la vita di ragazze e ragazzi e che sanno entrare in relazione con loro al di là degli esiti scolastici.

 Proviamo a prendere sul serio questa espressione ingenua di un bisogno.

 Un numero sempre più ampio di studentesse e studenti ha un evidente bisogno di aiuto. Se ascolto una ragazza di seconda media che dice “mi taglio le braccia per soffrire meno”, se assistiamo a una moltiplicazione geometrica di casi gravi che si presentano alle Asl e ai centri di igiene mentale, se crescono a dismisura disturbi dell’alimentazione e forme di autolesionismo o di isolamento e chiusura totale, non possiamo non pensare che ci sia qualcosa da ripensare con radicalità e urgenza nella scuola, perché la scuola è il principale e spesso unico luogo pubblico di incontro tra le generazioni.

 Il decennio della cura

 Nei mesi che seguirono la fase più acuta della pandemia ci siamo trovati a ragionare sulla necessità di inaugurare un decennio da dedicare alla cura.

 Cura delle persone, a partire dai più giovani, che avevano subito l’isolamento domestico ed erano stati costretti a considerare il contatto come contagio con conseguente avvilimento del corpo, in una età in cui il corpo è primario ed essenziale luogo di conoscenza e desiderio. Intorno al corpo e alla percezione di sé, tra l’altro, si stanno giocando negli ultimi anni sommovimenti profondi nelle nuove generazioni, i cui sintomi vanno dall’esplosione delle tematiche di genere a nuove inibizioni che accompagnano relazioni vissute frequentemente solo a distanza.

 Il paradigma della cura non riguarda tuttavia solo il corpo e la salute dei singoli, ma la relazione con l’intero pianeta ferito, i cui equilibri sono a rischio per via dei cambiamenti climatici, avvertiti dalle nuove generazioni con maggiore sensibilità.

 Quello che, nelle prime settimane della pandemia, in cui sembrava prevalere la solidarietà, era apparso come un momento di svolta e di presa di coscienza dell’insostenibilità dei nostri modi di vivere e abitare la terra, si è dissolto velocemente.

 Non appena ci siamo liberati dalle mascherine c’è stata una rimozione collettiva pressoché assoluta di ciò che era accaduto, mentre a livello individuale ragazze e ragazzi e bambine e bambini anche piccoli, si sono trovati a dovere affrontare in solitudine le conseguenze profonde di quel trauma.

 A tutto questo si è aggiunta una guerra percepita come vicina, dal momento in cui la Russia di Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina: un bambino, che vede alla televisione le conseguenze di un bombardamento scoprendo che non è finzione, non può non esserne colpito e offeso.

 La distanza tra generazioni

 La solitudine di ragazze e ragazzi è evidente, ma diventa ancor più grave perché è incastonata tra altre due solitudini: quella delle famiglie e quella degli insegnanti.

 Già in un articolo sul “Giornale dei genitori” del 1962 Ada Gobetti descrive “genitori che si mostrano e si dichiarano il più delle volte smarriti, impotenti, sprovveduti, […] che ancora conservano, pur senza rendersene conto, molte caratteristiche dell’adolescenza: incerti, instabili, disorientati essi stessi, quale sicurezza possono dare ai loro figli?”. Aggiungendo poi: “Non sanno offrire modelli a cui i figli possano ispirarsi o contro cui possano polemicamente ribellarsi; troppo assorti nei propri problemi, difficilmente sanno uscire da se stessi per dare ai figli quell’amore completo e disinteressato capace di colmare da solo ogni lacuna di preparazione culturale e pedagogica”.

 L’analfabetismo che allarmava Ada Gobetti oltre sessanta anni fa non riguardava tanto la preparazione culturale, quanto l’incapacità di “uscire da se stessi”, che è base imprescindibile per costruire un confronto positivo con figlie e figli, sapendo accogliere il fatto che possano incarnare punti di vista diversi dal nostro.

 Le relazioni sono rese ancora più difficili da una distanza tra le generazioni che si è enormemente ampliata per la costante dipendenza che tutti abbiamo verso strumenti di comunicazione, informazione, gioco e distrazione permanentemente accesi.

 Questa distanza è alimentata ulteriormente dall’ossimoro che caratterizza il comportamento di molti genitori: un bisogno di controllo sempre più accentuato unito a una presenza incostante e intermittente.

 Questo vuoto, questa difficoltà di relazioni nelle famiglie, viene talvolta compensata, paradossalmente, da una difesa a oltranza di qualsiasi comportamento anche improprio di figlie e figli nella scuola. Da cui una sfiducia diffusa, che a volte sfocia in aggressività e violenza verso gli insegnanti e il loro ruolo educativo.

 Teniamo presente anche il fatto che ormai più della metà dei bambini sono figli unici e non conoscono dunque il salutare allenamento alla condivisione di spazi e oggetti che aiuta a ridimensionare l’espansione illimitata delle proprie esigenze.

 La terza solitudine riguarda noi insegnanti, in grande difficoltà nel costruire regole condivise con ragazze e ragazzi che incorporano esperienze segnate dalla difficoltà adulta di assumersi le proprie responsabilità nello stabilire confini sensati, nella vicinanza.

 Si arriva così a un altro paradosso. Ragazze e ragazzi pensano a volte di poter fare ogni cosa pur sapendo, con maggiore o minore consapevolezza, che li aspetta un mondo dominato da vecchi spesso incattiviti, che stanno sottraendo loro libertà e futuro, perché rimandare ogni scelta sul clima o minare le fondamenta del welfare riguarda molto concretamente la qualità della vita che li aspetta.

 Pronto soccorso culturale

 Molti anni fa Felice Pignataro, geniale artefice di interventi artistici e laboratori proposti nelle periferie di Napoli, invocava la necessità di un pronto soccorso culturale, più che mai necessario oggi.

 E allora una domanda che dovremmo porci con rigore e radicalità riguarda il ruolo giocato dalla scuola in questi decenni, in cui evidentemente noi che insegnavamo e provavamo ad educare non siamo stati in grado di elaborare un controcanto convincente, capace di criticare e contrastare ciò che stava accadendo nelle famiglie e nella società riguardo al disprezzo per la cultura e a una sfiducia crescente verso il sapere come terreno per la realizzazione di una vita migliore.

 La peggiore offesa all’infanzia sta nel costringere bambine e bambini e adolescenti a trascorrere ore e ore a scuola insieme ad adulti pigri, demotivati e frustrati, a insegnanti che hanno smesso di ricercare e credere nella cultura come luogo di conoscenza di sé e leva di trasformazione individuale e collettiva.

 Ma noi sappiamo che fuori dalla scuola i meccanismi di esclusione e discriminazione sono ancora più spietati, perché chi è ricco di parole, curiosità e domande potrà utilizzare al meglio le potenzialità della rete e di future “intelligenze” artificiali, mentre chi è più povero di riferimenti culturali e desideri di conoscenza si troverà relegato alla mercé di un mercato che non privilegia certo la qualità.

 Tra chi prova a fatica ad affrontare la dispersione scolastica e le crescenti povertà educative si sta sviluppando una discussione di cui tenere conto. Dobbiamo puntare a un ampliamento del tempo della scuola o dobbiamo immaginare e finanziare altri apporti educativi da parte del volontariato sociale, del terzo settore in collaborazione con le istituzioni locali, moltiplicando progetti capaci di dare vita a comunità educanti aperti al contributo delle famiglie?

 Alcuni tentativi di costruzione di comunità educanti locali stanno dando risultati interessanti.

 In altre situazioni, invece, il finanziamento di progetti educativi nati fuori dalla scuola sta alimentando diffidenze tra insegnanti e famiglie, che a volte sono invadenti, o tra scuola e terzo settore.

 Tra scuola e territorio

 Personalmente penso che chiunque lavori per migliorare la qualità culturale del territorio sia un alleato indispensabile per chi nella scuola non rinuncia a battersi contro ogni forma di discriminazione.

 Penso tuttavia che la scuola debba mantenere le sue peculiarità e sforzarsi di essere un luogo di costruzione culturale lenta. E che dunque noi docenti non possiamo sottrarci al tentativo di intrecciare sempre il ruolo di insegnanti a quello di educatrici ed educatori, sapendo trasformare l’incontro con arte, scienza, letteratura e bellezza come luoghi possibili di quel bisogno di cura di cui siamo noi i responsabili.

 Il cuore dell’educazione attiva sta nel costruire strumenti per arricchire le qualità e potenzialità di ciascuno alimentando la fiducia in sé stessi. Al tempo stesso il nostro ruolo sta nella capacità di seminare inquietudine, cercando ogni modo per moltiplicare le domande.

 Seminare inquietudine dovrebbe essere un anelito costante in chi educa, con la consapevolezza che a scuola stiamo svolgendo una funzione politica nel senso più ampio e autentico del termine, cioè di allenamento all’arte del convivere e di cura del bene comune.

 La mezza verità

 Mario Lodi, nel più noto dei suoi diari didattici che intitolò Il paese sbagliato, fa un’unica lunga citazione, tratta da un saggio dello psicologo e pedagogo svizzero Jean Piaget: “Lo scopo dell’educazione intellettuale non è quello di saper ripetere o conservare verità belle e fatte, perché una verità che viene ripetuta non è che una mezza verità: ma è piuttosto quello di apprendere e conquistare da se stessi il vero, a rischio di metterci molto tempo e di passare per tutte le traversie che una attività reale richiede. Non è possibile formare delle personalità autonome nel campo morale se l’individuo è sottoposto a una costrizione intellettuale tale che egli debba limitarsi ad apprendere a comando senza scoprire da se stesso la verità: se passivo intellettualmente non saprà essere libero moralmente”.

 Offrire la possibilità di scoprire e costruire la propria verità imparando a ricercare e a pensare insieme è una funzione sociale che la scuola deve fare propria con convinzione, facendosi magari anche aiutare da altre figure professionali, ma non delegandola a nessuno.

 Il libraio

lunedì 28 agosto 2023

I.A. - OPPORTUNITA' PER LA SCUOLA


 Intelligenza Artificiale:

 sfide e opportunità 

per la Scuola del futuro





Come evolverà l’Educazione nell’era dell’Intelligenza Artificiale? In un mondo che cambia, alla ricerca e alle politiche per l’educazione è richiesto di orientare l’istruzione affinché prepari gli studenti alle sfide tecnologiche, consentendo alla Scuola e alle comunità educanti di guidare l’innovazione.

Come evolverà l’educazione nell’era dell’Intelligenza Artificiale (IA)

I profondi cambiamenti che continueranno a trasformare la società e la natura del lavoro richiedono un approccio educativo innovativo.

Si potrebbe obiettare che la tecnologia ha sempre influenzato il lavoro e la società. Cosa è cambiato dunque?

L’interazione tra le nuove frontiere dell’automazione e dell’intelligenza artificiale e i cambiamenti economici e demografici è così complessa che è diventato fondamentale investire nell’istruzione e nello sviluppo delle competenze.

Nel documento The Future of Education and Skills: Education 2030 – OCSE si legge:

Esiste una domanda crescente nei confronti delle scuole perché preparino gli studenti ai cambiamenti economici e sociali più rapidi, ai posti di lavoro che non sono stati ancora creati, alle tecnologie che non sono state ancora inventate e a risolvere problemi sociali che non esistevano in passato.

Da una parte gli studenti avranno sempre più la necessità di acquisire competenze sul funzionamento dell’Intelligenza Artificiale, per poterla utilizzare a proprio vantaggio ma anche per saperne distinguere eventuali usi impropri.

Dall’altra, l’Intelligenza Artificiale potrebbe aprire nuovi scenari per le pratiche didattiche, a patto che sia disegnata come risorsa per migliorare l’istruzione, senza venire meno alle lezioni apprese e ai principi etici condivisi.

Che cos’è l’Intelligenza Artificiale?

Per contestualizzare ciò di cui stiamo parlando dovremo provare a definire cosa sia l’Intelligenza Artificiale. Sapendo, però, che nemmeno i più grandi esperti di IA sono giunti a una definizione univoca. 

Questo dipende dal fatto che si tratta di un campo in rapida evoluzione, che si esplica in soluzioni molte diverse tra loro ed è reso possibile da altre discipline come l’high permormance computing, dall’informatica e dalla scienza dei dati, oltre a coinvolgere spesso sottocampi complessi come:

  • il machine learning, sistemi che migliorano le loro prestazioni con l’aumentare dell’esperienza e soprattutto dei dati
  • il deep learningun sistema di apprendimento e di classificazione che, elaborando grandi quantità di dati e basandosi su reti neuronali artificiali, consente a un computer di imitare alcuni processi del cervello umano come il processo decisionale e l’apprendimento autodiretto 

Un quadro di riferimenti è quello contenuto nella  Strategia dell’Unione europea per l’Intelligenza Artificiale:

L’Intelligenza Artificiale si riferisce a sistemi che mostrano un comportamento intelligente nell’analizzare il loro ambiente e intraprendere azioni, con un certo grado di autonomia, per raggiungere obiettivi specifici. 
I sistemi basati sull’Intelligenza Artificiale possono essere puramente basati su software, agendo nel mondo virtuale (ad esempio assistenti vocali, software di analisi delle immagini, motori di ricerca, sistemi di riconoscimento vocale e facciale) oppure possono essere incorporati in dispositivi hardware (ad esempio robot avanzati, auto autonome, droni o applicazioni Internet of Things).

Per i cittadini e le imprese, per i docenti e gli studenti può essere molto complesso avvicinarsi all’Intelligenza Artificiale

Tra le risorse utili arrivate in Italia c’è il corso online gratuito realizzato da Reaktor e dall’Università di Helsinki.

Tradotto in italiano per volontà del Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale e del Dipartimento per la trasformazione digitale, è promosso da Fondazione Cotec con la partnership accademica dell’Università degli Studi Roma Tre

Familiarizzare con l’intelligenza artificiale e i suoi principi basilari, sin dai primi anni di Scuola, è infatti essenziale. 

I bambini che oggi hanno 5 anni trascorreranno la maggior parte della loro vita lavorativa nella seconda metà del 21° secolo, in un mondo trasformato dalle tecnologie. Che posseggano o no le competenze adeguate a quel futuro dipende dai sistemi scolastici attuali.

Apprendere e comprendere l’Intelligenza Artificiale

Sia la Commissione europea nel piano d’azione per l’istruzione digitale (2021-2027) che la Strategia italiana per l’Intelligenza Artificiale, pubblicata dal Ministero dello Sviluppo economico, hanno evidenziato le stesse necessità:

c’è bisogno di riprogettare il curricolo delle scuole affinché includa gli apprendimenti nel campo dell’Intelligenza Artificiale e dei dati e di prevedere investimenti per favorire l’aggiornamento delle competenze di studenti e corpo docente.

Le implicazioni dell’Intelligenza Artificiale per la Scuola

Se dobbiamo aumentare il livello di abilità di tutti gli studenti, quali cambiamenti potrebbero essere necessari per la didattica e la valutazione? E l’IA potrebbe essere di supporto?

Non si tratta di mettere in discussione la relazione insegnante-alunno

La Didattica a Distanza nel periodo pandemico ci ha mostrato come gli studenti abbiano bisogno di soluzioni e competenze tecnologiche, sia in emergenza che per le attività di routine, ma anche di tutoringmetodo valutativo e affettività che solo il confronto con altri umani possono garantire.

Ciò che invece è richiesto alla ricerca e alle politiche educative è di interrogarsi su come l’Intelligenza Artificiale possa favorire l’apprendimento umano e fare in modo che siano gli educatori stessi a guidare la trasformazione, rivolgendo richieste alle aziende tecnologiche.

Gli studi suggeriscono che la possibilità che il settore dell’istruzione venga massivamente implicato dall’automazione è relativamente bassa.

Ma possiamo immaginare applicazioni di IA che supporteranno il ruolo unico dell’insegnante?

Nel Libro Bianco per l’Intelligenza Artificiale al servizio del cittadino a cura dell’Agenzia per l’Italia Digitale, tra gli esempi di come la Scuola potrebbe trarre beneficio dall’adozione di soluzioni di IA cita:

  • strumenti automatici per la valutazione
  • personalizzazione del materiale didattico
  • tutoring automatizzato, per mezzo di strumenti di raccomandazione per tenere viva l’attenzione
  • suggerimenti inerenti variazioni personalizzate da introdurre nel programma scolastico
  • estrazione di indicatori predittivi di rischio di abbandono scolastico

Dove l’Intelligenza Artificiale ha già trovato applicazioni in campo educativo è l’automazione delle attività amministrative e di routine.

Ci si riferisce ai sistemi per:

  • aggiornare in tempo reale le presenze/assenze
  • elaborare pagelle elettroniche
  • gestire il calendario delle lezioni
  • produrre la certificazione digitale che attesta in modo oggettivo il livello di competenze acquisito

Didattica innovativa per l’inclusione

L’Intelligenza Artificiale può aprire prospettive anche per migliorare l’inclusività della Scuola.

Ne sono esempi le tecnologie multisensoriali, come la robotica sociale, utilizzata per favorire apprendimento e relazioni nei bambini con disturbi dello spettro autistico, o le soluzioni per supportare studenti con Bisogni Educativi Speciali (BSE) e Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA).

Realtà aumentata

In merito alle possibilità offerte dalla realtà aumentata, nelle scuole potrebbero nascere nuovi ambienti educativi innovativi, inclusivi e coinvolgenti, in grado di incentivare l’interazione con e tra gli studenti, coniugando esigenze di formazione e innovazione tecnologica.

Valutazione degli apprendimenti, Big Data e Small Data

Un uso più semplice e molto più efficace dell’Intelligenza Artificiale nella scuola potrebbe essere il supporto allo studio individuale, quale strumento di autovalutazione attraverso la redazione automatica di esercizi aggiuntivi e interrogazioni virtuali.

Libro Bianco per l’Intelligenza Artificiale al servizio del cittadino

Grazie all’Intelligenza Artificiale, potrebbero essere implementati nuovi approcci di valutazione basati su domande personalizzate per fornire agli insegnanti e agli studenti informazioni più ricche in tutte le aree di apprendimento.

La disponibilità di Small Data supporterebbe gli insegnanti per identificare i punti di forza e di debolezza dell’apprendimento degli studenti e per favorire la personalizzazione dei contenuti.

Per gli studenti, disporre di dati significherebbe aumentare la consapevolezza dei propri progressi e la conoscenza di se stessi in relazione al lavoro svolto.

A conclusione di questo breve excursus sulle possibili applicazioni dell’Intelligenza Artificiale nella Scuola, va fatto notare che Big Data e analisi predittive hanno già un ruolo nell’elaborazione delle policy educative, ferma restando l’attenzione per il trattamento dei dati e per il rispetto e la tutela della privacy, allo scopo di potenziare i sistemi d’istruzione in relazione ai livelli di competenze richiesti nel mondo del lavoro futuro.

Approfondimenti

 

I HAVE THE DREAM

Educare al sogno significa da un lato acquisire le competenze sempre necessarie per articolare un pensiero e un'azione educativa capace di raggiungere obiettivi seguendo un percorso pensato e non improvvisato; dall'altro l'allenamento personale a sognare per sé, per la propria vita.

-di Diego Zanotti

Il 28 agosto 1963 Martin Luther King tenne il famoso discorso "I have a dream" diventato poi il simbolo della lotta contro il razzismo negli Stati Uniti e comunemente ritenuto un capolavoro.

Per anni molti abbiamo individuato nel "sogno" l'ideale verso il quale orientare la propria azione educativa nei diversi livelli.

Da educatore avverto una fatica presente e diffusa a sognare, e a sognare "in grande"… dove "in grande" si traduce nella capacità di sviluppare desideri di lungo respiro, con la capacità di risolvere (sorridendo e cantando) i molti ostacoli che sicuramente ci saranno lungo il percorso.

Il timore di spingersi oltre un orizzonte temporale "visibile", la non disponibilità ad accollarsi rischi che dipendono da variabili "non governabili" (almeno non da noi), penso sia un approccio tanto presente quanto limitante dell'intera azione educativa. Abbiamo scelto di educare i ragazzi che ci sono affidati a scelte di vita caratterizzate da orizzonti lunghi e imprevisti non definibili a priori; abbiamo assunto come modello antropologico di riferimento un Uomo che ha voluto affrontare innumerevoli ostacoli lungo la via e che ci ha dato testimonianza del come gestire e risolvere le diverse situazioni. Proporre attività ed assumersi impegni restando in modo calcolato in una zona comfort, sentendosi "a posto" per aver assolto oggettivamente al "compitino" assegnato non appartiene al nostro stile, non coincide con quella Promessa pronunciata anni fa che non prevede clausole di tutela.

Essere titolari di proposte educative che abbiano in qualche modo il sapore e lo spessore del sogno significa osare...osare sollecitando i ragazzi, assecondando e ancora più sostenendo le loro idee nei momenti difficili, durante i quali il sogno rischia di venir rinchiuso in un cassetto.

Abbiamo dalla nostra la forza e la libertà di un metodo e di precedenti esperienze e testimonianze capaci di sostenerci e indicarci la via da seguire. Penso sia importante e onesto condividere che l'alternativa a un sogno non è quella di un sogno piccolo bensì quella di non sognare affatto, accettando di stare dove si è, con le proprie sicurezze, ma anche i propri limiti e fragilità.

Il progresso umano è fortemente caratterizzato da pensieri di uomini e donne che hanno saputo sognare un mondo migliore. A ognuno di noi la scelta del come interpretare il proprio ruolo educativo, con la consapevolezza che le nostre scelte "personali" avranno ricadute dirette anche su altri.

Educare al sogno significa da un lato acquisire le competenze sempre necessarie per articolare un pensiero e un'azione educativa capace di raggiungere obiettivi seguendo un percorso pensato e non improvvisato; dall'altro l'allenamento personale a sognare per sé, per la propria vita.

Le mie scelte di vita sono orientate all' "I have a dream?"

 

#Ihaveadream #educare

267/ #Taccuinodistrada in un #Tempodaesplorare