domenica 30 gennaio 2022

MATTARELLA PRESIDENTE. AUGURI


L'Associazione Italiana Maestri Cattolici esprime viva riconoscenza al Presidente Mattarella per avere responsabilmente accettato l'onere di proseguire il suo prestigioso e qualificato servizio a favore dell'Italia.

Ringrazia il Presidente Mattarella per la testimonianza data di quei valori civici ed etici che sostengono e orientano la comunità nazionale.

Il Suo generoso impegno, apprezzato anche in Europa e nel mondo, fa onore a noi tutti e ci stimola a compiere del nostro meglio per essere buoni cittadini e buoni educatori.

Lo ringrazia anche per la Sua costante attenzione alle problematiche educative e cordiale vicinanza all'AIMC, sia in Sicilia, sia da Ministro dell'Istruzione, sia come Presidente della Repubblica.

Assicura leale collaborazione.


Nella foto degli anni 80, un intervento del Presidente in un convegno regionale AIMC a Palermo. Da sinistra: il presidente regionale La Placa, l'on. Mattarella, il senatore Borghi, il president nazionale AIMC Buzzi e l'Assistente Ecclesiastico regionale, Mons. Oliva


TRANSUMANO e TRANSGENDER


 UNA DEVIAZIONE DALLA NATURA

La visione profetica di Paolo VI.

 -         di Fiorenzo Facchini *

-          

 Mezzo secolo fa l’enciclica Octogesima adveniens di Paolo VI richiamava l’attenzione sul pericolo delle ideologie nelle soluzioni dei problemi sociali (in particolare l’ideologia marxista e l’ideologia liberale) e sulla rinascita delle utopie per i problemi del futuro. «L’appello alla utopia è spesso un comodo pretesto per chi vuole eludere i compiti concreti e rifugiarsi in un mondo immaginario. Vivere in un futuro ipotetico rappresenta un facile alibi per sottrarsi a responsabilità immediate» (n.37). Mi viene da pensare a quanto siano attuali queste riflessioni, quando sento parlare di scelta nella propria identità sessuale o di decostruzione della differenza sessuale per scegliere ciò che si vuole essere. Ma anche la prospettiva del superamento di ogni limite umano, sostenuta dalla concezione del transumanesimo, si allinea su una posizione decisamente ideologica.

Questi modi di vedere e di realizzare la cultura rappresentano una deformazione nel rapporto dell’uomo con la natura, una forzatura sulla natura, che non ha senso, non porta da nessuna parte, e anzi, se realizzata, può portare a un’autodistruzione della specie umana. Tutto quello che si distacca o nega il dato biologico nell’uomo, ispirandosi a una ideologia, rappresenta una oggettiva deviazione nel rapporto con la natura. Non è una semplice variante della specie umana che, se non vantaggiosa, nel lungo tempo potrà essere eliminata per selezione naturale.

La prospettiva transumanista, che si propone di realizzare un 'transumano', in vista di un 'postumano', con miglioramenti genetici e applicazioni dell’intelligenza artificiale (sostituzioni di parti malate o difettose dell’organismo umano, miglioramenti di funzioni biologiche meccaniche, circolatorie, intellettive, con microchip e microprotesi...) al fine di prolungare la vita in modo indefinito, viaggia nel mondo dell’utopia. Ma c’è chi la sostiene, pur dando l’impressione di essere fuori dal tempo. Secondo Bostrom (2007) un transumano sarebbe un essere umano in transizione verso il postumano.

«Nella ideologia transumanista c’è una fantasia di 'Homo novus' che abbiamo visto nei totalitarismi del passato (il lavoratore, l’ariano) », ha notato Giulio Meotti (Il Foglio, 20-21 febbraio 2021). A questo mondo del transumano viene accostata da Bruno Chaouat «la tendenza alla decostruzione della differenza sessuale a livello globale». Secondo alcuni essa potrebbe essere una risposta a situazioni di disforia di genere. In realtà, se c’è una ricostruzione dell’identità in base a scelte soggettive si scivola nella ideologia del gender. La disforia di genere, ancora non ben conosciuta nelle sue cause, viene considerata una situazione disarmonica della personalità con carattere patologico. I fattori che la determinano possono essere diversi e complessi. Ma con le teorie 'gender' si va ben oltre, perché si sostiene una fluidità del genere.

L’identità che si vuole raggiungere con interventi di cambiamento a livello biologico può avere un senso se corrisponde all’effettivo benessere della persona, a un equilibrio biopsichico della persona. Ma nella prospettiva ideologica decostruzionista ispirata al 'gender' non c’è un punto di arrivo, ci si muove in una sfera che non è quella scientifica, oggettiva, sostenuta dalla razionalità, ma in una sfera ideologica, ispirata dalla soggettività delle scelte (che sono di per sé provvisorie), cioè dal principio che si vuole essere quello che ci si sente nel momento, senza chiedersi il significato o le cause dell’eventuale disagio della persona. Si parla di fluidità del genere. È un fraintendimento, anzi un tradimento della natura, la quale deve essere alla base nella costruzione della persona. L’accostamento del transgender al transumanesimo non è senza senso.

Entrambi, quando il cambiamento è ispirato o governato da un distacco o dal superamento del dato biologico, e affidato alle scelte soggettive, sostenute dalla utilizzazione di biotecnologie di cambiamento, sono ispirati da modi di vedere che allontanano dalla realtà delle cose e tendono a falsificarla. L’elemento che li accomuna è la visione materialista, e quindi riduttiva, della persona umana.

 *Antropologo e paleontologo professore emerito nell’Università di Bologna

 www.avvenire.it

 

 

sabato 29 gennaio 2022

METTERCI IN CAMMINO

  + Dal Vangelo secondo Luca - Lc 4,21-30

 - In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

-  Il commento al Vangelo di domenica 30 gennaio 2022 – 

 a cura di Paolo Curtaz.

Basta poco. Un attimo. Un istante.

Un moto improvviso. Parole che fanno cambiare l’umore. Si sono entusiasmati, gli abitanti di Nazareth. Sono meravigliati del figlio del loro piccolo paese, del figlio del falegname. Ora lo vogliono uccidere, furenti d’ira. Lì, nella sinagoga, hanno ascoltato la profezia di Isaia. E hanno sentito la determinazione con cui Gesù ha affermato che quella profezia si sta realizzando, qui e ora, nell’oggi perenne di Dio.

È magnifico. 

Allora, chiedono, se la profezia è compiuta, se la buona notizia della presenza di Dio è giunta, se i ciechi vedono e i prigionieri vengono liberati, che Gesù ripeta i prodigi che ha compiuto a Cafarnao. Facci un miracolo. Così crederemo alla profezia. Ma Gesù argomenta, ragiona: no, non potete limitare la grazia dell’annuncio al nostro piccolo paese. Non potete impossessarvi della profezia. Non potete chiudere Dio nella vostra sinagoga. Guardate Elia. Guardata Eliseo. 

Profeti immensi che hanno sostenuto la fede di stranieri, di pagani, di disperati come la vedova di Zarepta sfinita dalla fame eppure disposta ad accogliere in casa Elia, o Naaman il siro, potente e ricco che accetta le indicazioni di Eliseo che neppure lo riceve, per essere guarito dalla lebbra. Loro hanno creduto senza aspettare un miracolo. E la loro fede ha suscitato un miracolo.....   Apriti cielo!

Parole pesanti

Non va bene, Signore, andiamo, non essere ingenuo. Nessuno di noi ama la verità. Soprattutto quando ci inchioda all’angolo, quando, birichina, mette in luce tutte le nostre contraddizioni.  Nessuno di noi desidera, seriamente, di mettersi in discussione. Se qualcuno ci fa notare qualcosa che non funziona, invece di guardare la luna che indica, ci fermiamo al dito. E critichiamo. La persona che ci richiama è peggiore di noi, a che titolo parla, chi si crede di essere?  E questo accade, purtroppo, anche nella Chiesa, e sempre di più in un’Italia incattivita e spaventata (sì, incattivita, lasciatemelo dire, altro che ne usciremo migliori!) in cui tutto viene sempre portato al litigio, e i toni sono inutilmente rissosi, e le partigianerie diventano furenti. Gesù richiama i suoi concittadini, e noi, ad una verità assoluta: la fede non nasce dai miracoli e Dio non lo puoi chiudere in sinagoga, nella tua sinagoga, e la profezia arriva nel quotidiano, proprio da chi hai accanto, come Gesù. 

E dobbiamo ammetterlo: come Chiesa abbiamo dilapidato il tesoro della profezia. Fatichiamo a riconoscere i profeti. E ad essere i profeti.  Troppo impegnati a criticarci gli uni gli altri, anche noi inutilmente partigiani. Chi si schiera col Papa di adesso, con quello di prima. Chi per una Chiesa severa, chi per una accogliente. Chi per Paolo, chi per Cefa, chi per Apollo (1Cor 3)… 

E, invece, il Maestro ci chiede di essere come lui. Di fare della fede, della speranza e della carità, come ci ha ricordato san Paolo, i pilastri della nostra predicazione, della nostra vita, della nostra profezia. Non è un tempo per cristiani deboli, il nostro. È tempo per cristiani innamorati. E accesi. Autentici, se non proprio coerenti. Cercatori. Feriti guariti capaci di indicare il medico che ci ha salvati e sanati nel profondo. Forse un’indicazione per nostra Chiesa in cammino sinodale?

Muro di bronzo

Come quando Geremia si è trovato a custodire la fede in un momento di enorme sbandamento, di perdita della fede e dell’identità. Intendiamoci: allora, come forse accade oggi, l’apparenza era salva. Stuoli di profeti di corte applaudivano al re di Israele che giocava a fare della sua microscopica nazione una grande potenza e Geremia, solo, irriso, dileggiato, perseguitato, era l’unico a parlare con verità.

Non amava fare il profeta, Geremia. Né lo aveva chiesto. Ma ci si era trovato, seguendo la bellezza di Dio, lasciandosi sedurre. E Dio non gli aveva promesso una vita semplificata, anzi. Ma di farlo diventare un muro di bronzo. Per non cedere.

Senza diventare dei fanatici, senza ergere barriere, siamo chiamati a conservare la purezza della fede così come ce l’hanno trasmessa gli apostoli. Siamo chiamati a credere nel dialogo, nella profezia, nella visione salvifica della vita. 

Hai deciso di darmi salvezza, abbiamo cantato nel salmo. Sì, Dio salva. È tempo di ricordarlo al nostro mondo. Con fermezza.

Si mise in cammino

La conclusione del brano del vangelo è straordinaria. Gesù, condotto sul ciglio del paese per essere lanciato nel vuoto, si gira, passa in mezzo ai suoi concittadini minacciosi, e tira diritto per la sua strada.  Scrive Luca: si mise in cammino. Un cammino, nel suo vangelo, che durerà per venti capitoli, fino a Gerusalemme, fino al Golgota.

Se vogliamo essere discepoli del Maestro, prepariamoci a qualche incomprensione, a qualche scontro, a qualche scelta dolorosa. Davanti all’incomprensione Gesù non si chiude in se stesso, non discute, non litiga, ma si mette in cammino. Tira diritto per la sua strada. Cerca, indaga, esplora, percorre nuove vie. Il discepolato, la sequela, a volte nasce da una contrapposizione, da un superamento, da un percorso innovativo.  È tempo di riconoscere i profeti. E di ascoltarli.

È tempo di tornare ad essere profeti. Sappiatevi amati.

Cerco il tuo volto 

SCUOLA INCLUSIVA. UNA SPECIALITA' PER TUTTI

In “
Un’altra didattica è possibile” Ianes e Canevaro rilanciano l’idea di una scuola «universale», che «parla a tutti gli alunni e non a una parte»

 

-         di Paolo Ferrario

-          

Una scuola davvero inclusiva deve bandire il termine «inclusione» dal proprio vocabolario, se vuole parlare al 100% degli alunni e non soltanto a una parte. Si apre con una provocazione, non soltanto semantica ma soprattutto pedagogica, “Un’altra didattica è possibile. Esempi e pratiche di ordinaria didattica inclusiva”, l’ultimo libro che Dario Ianes, docente di Pedagogia e didattica speciale all’Università di Bolzano e co-fondatore del Centro studi Erickson di Trento, ha scritto con Andrea Canevaro, delegato del rettore dell’Università di Bologna per gli studenti con disabilità, già docente di Pedagogia speciale all’Alma Mater.

«Una scuola che non ha più bisogno dell’inclusione è innanzitutto una scuola fondata sull’equità», scrive Ianes nell’introduzione al testo, sottolineando che «il tema dell’equità è il motore motivazionale della scuola che vogliamo, una scuola fondata sui diritti umani e sulla giustizia sociale, una scuola che, in nome di questi valori, sa anche essere contro oltre che pro».

Per essere inclusiva, universale, la scuola deve saper riconoscere l’unicità di ciascun alunno. Sembra ovvio e scontato e, infatti, la scuola spesso lo dimentica, finendo per dare lo stesso libro, la stessa lezione, gli stessi tempi di apprendimento e le stesse modalità di

valutazione a tutti indistintamente. «Se vogliamo davvero muoverci verso l’universalità – sottolinea Ianes – dovremmo essere ossessionati dallo scoprire, comprendere e valorizzare in ogni modo le differenze dei nostri alunni. Le differenze – ricorda il pedagogista – sono la normalità, sono la biodiversità che arricchisce gli ecosistemi dove si apprende e ci si relaziona».

Al centro della ricerca di Ianes c’è anche la figura dell’insegnante di sostegno che, a giudizio del docente universitario, deve «evolvere» verso un «cambio di paradigma». Anzi, come sostiene da tempo, «la figura dell’insegnante di sostegno, come tradizionalmente intesa, va abolita del tutto, evolvendola in due direzioni: la normalizzazione piena e la specializzazione vera». Secondo Ianes, dato che «l’85% degli attuali insegnanti di sostegno diventa contitolare curricolare», tanto vale «ripensare radicalmente» il loro ruolo, «liberandolo dal vincolo della certificazione e facendolo diventare insegnante curricolare a tutti gli effetti», per farlo «lavorare in compresenza didattica inclusiva con tutti gli alunni». Dove è già stata sperimentata, questa innovazione, ricorda Ianes, «ha dimostrato non solo di essere possibile, ma anche di comportare vantaggi sia per gli alunni con disabilità sia per i loro compagni di classe». La nuova didattica proposta da Ianes e Canevaro,

insomma, funziona e fa bene a tutti ma ha bisogno, in definitiva, di un «grande cambio di paradigma necessario». Deve, in sostanza, «superare il binomio alunno speciale-insegnante speciale, per fare in modo che la “specialità” necessaria si diffonda e diventi patrimonio di tutti i contesti di vita degli alunni».

 www.avvenire.it

Canevaro, Ianes,

Un' altra didattica è possibile. Esempi e pratiche di ordinaria didattica inclusiva,

Ed. Erichson, 2022


 

UN'ONDATA DI INDIGNAZIONE


-         di Giuseppe Savagnone *

-          

La recente pubblicazione dell’inchiesta sugli abusi sessuali – almeno 497, di cui il sessanta per cento riguardanti minori tra gli 8 e i 14 anni di età – consumati nella diocesi di Monaco di Baviera, ha rinnovato nell’opinione pubblica l’ondata di indignazione che già si era levata, nell’ottobre del 2021, in occasione dell’analoga indagine, commissionata dall’episcopato francese.

Il report, commissionato dalla stessa arcidiocesi di Monaco, è stato presentato dallo studio Westpfahl-Spilker-Wastl il 20 gennaio scorso e riguarda gli anni tra il 1945 e il 2019. Particolare impressione ha suscitato il coinvolgimento nelle accuse di connivenza, o almeno di tolleranza, nei confronti dei membri del clero colpevoli di quei crimini, del papa emerito, Benedetto XVI, che fu arcivescovo di Monaco dal 1977 al 1982.

In particolare, a Ratzinger viene attribuita la responsabilità di aver partecipato, il 15 gennaio 1980, a una riunione in cui si era discussa la destinazione all’attività pastorale di un sacerdote – peraltro proveniente da un’altra diocesi, Essen – di cui erano note le tendenze sessuali e che era stato mandato a Monaco proprio per un trattamento terapeutico.

Benedetto ha fatto sapere di aver partecipato effettivamente a quella riunione, spiegando però che in essa ci si era limitati ad accogliere la richiesta del sacerdote di avere fornito un alloggio nel periodo di permanenza nella città. Il problema della gravità e delle conseguenze di queste denunzie tuttavia rimane. Intanto esse mettono in luce una situazione gravissima di corruzione del clero: nella sola arcidiocesi bavarese, nell’arco di poco più di settantanni, 173 preti e 9 diaconi.

Ne può costituire un’attenuante il fatto che comunque, secondo tutte le statistiche, il numero maggiore di abusi sui minori avvenga nella famiglia e non sia perciò addebitabile al celibato ecclesiastico. Resta il fatto che la Chiesa pretende di costituire una realtà alternativa alle logiche del mondo e che da essa si deve esigere una testimonianza di coerenza che questi episodi smentiscono.

Non è una sorpresa

In realtà, non si tratta di una sorpresa. Già nel giugno del 2021, il cardinale Reinhard Marx, che dal 2007 è vescovo di Monaco, aveva rassegnato le sue dimissioni – peraltro subito respinte da papa Francesco – proprio in riferimento a questa situazione: «Sostanzialmente», aveva dichiarato, «per me si tratta di assumermi la corresponsabilità relativa alla catastrofe dell’abuso sessuale perpetrato dai rappresentanti della Chiesa negli ultimi decenni. Le indagini e le perizie degli ultimi dieci anni mi dimostrano costantemente che ci sono stati sia dei fallimenti a livello personale che errori amministrativi, ma anche un fallimento istituzionale e sistematico».

Ma più gravi erano state le sue considerazioni ulteriori, che suonano come una denunzia non solo del passato, ma del presente: «Le polemiche e discussioni più recenti hanno dimostrato che alcuni rappresentanti della Chiesa non vogliono accettare questa corresponsabilità e pertanto anche la colpa dell’istituzione. Di conseguenza rifiutano qualsiasi tipo di riforma e innovazione per quanto riguarda la crisi legata all’abuso sessuale. Io la vedo decisamente in modo diverso».

Il problema sollevato dal card. Marx va oltre la questione delle responsabilità personali dei colpevoli degli abusi e di coloro che li hanno in qualche modo protetti o comunque non li hanno sanzionati adeguatamente. Su questo punto, bisogna prendere atto che proprio papa Ratzinger ha inaugurato, durante il suo pontificato, una linea di assoluto rigore, implicante la denunzia dei responsabili alla giustizia penale dei rispettivi Stati, e che papa Francesco lo ha seguito, indicendo nel febbraio del 2019 un summit sulla pedofilia in cui ha parlato della necessità di non limitarsi alle condanne verbali, preannunciando «misure concrete».

Su questa linea, nel 2021, il Codice di diritto canonico – la legge della Chiesa – è stato modificato, ridefinendo i casi di abuso sessuale non più, come era prima, in rapporto agli obblighi dei consacrati, ma alla violazione della dignità della persona, e introducendo il reato di omissione della denuncia.

Il problema del potere

Tuttavia, parlando di «un fallimento istituzionale e sistematico», l’arcivescovo di Monaco ha accennato a qualcosa che va oltre la questione della coerenza etica delle singole persone e della trasparenza. Ne aveva parlato già in occasione del summit in Vaticano del 2019.

In quell’occasione il cardinale aveva spiegato che «gli abusi sessuali nei confronti di bambini e di giovani sono in non lieve misura dovuti all’abuso di potere nell’ambito dell’amministrazione. A tale riguardo, l’amministrazione non ha contribuito ad adempiere la missione della Chiesa ma, al contrario, l’ha oscurata, screditata e resa impossibile». 

Il problema che sembra emergere da queste parole va oltre la questione sessuale: in discussione è la logica del potere, che è la grande tentazione del mondo e che finisce col nascondersi anche nelle strutture della Chiesa. Una eccessiva concentrazione della “sacra potestas» nelle mani dei pastori – parroci e vescovi – finisce per rendere incontrollabili e inappellabili le loro scelte, mantenendo alla Chiesa di fatto una struttura verticistica che il Concilio, privilegiando la categoria del «popolo di Dio» su quella della piramide gerarchica, aveva cercato di ridimensionare.

È il potere, non il sesso, il nemico più insidioso della rivoluzione evangelica di cui la Chiesa deve esser custode e interprete. Esso sta dietro anche agli abusi sessuali, ma non si limita a questi. E la comunità cristiana potrà essere veramente alternativa al mondo solo se saprà rimettersi in discussione su questo punto.

Un’occasione importante per farlo potrà essere il Sinodo – quello dei vescovi a livello mondiale, quello delle Chiese d’Italia per il nostro Paese –, a patto che davvero si dia spazio ai problemi di fondo, in un libero confronto, e non ci si limiti a riempire questionari.

Intanto bisogna dare atto alla Chiesa francese e alla diocesi di Monaco di avere commissionato – proprio loro! – le due inchieste che le hanno messe sotto accusa e di averne accettato i risultati con un pubblico atto penitenziale. Non è questo lo stile del potere politico, sotto tutte le latitudini.

Sono segnali importanti di una sincera volontà di cambiamento in senso evangelico. Non bisogna fermarsi, però, al pentimento. Sono necessarie delle profonde trasformazioni. Perché Cristo non debba più vergognarsi di ciò che noi facciamo della sua Chiesa.

 *  Scrittore ed Editorialista. Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo

 www.tuttavia.eu

 

  

venerdì 28 gennaio 2022

UNESCO : RAPPORTO SULLA SCIENZA

 


Nel Rapporto, emerge come Paesi di ogni livello di reddito stiano dando contemporaneamente priorità al passaggio alle economie verdi e alla transizione digitale. Ovvero, se da un lato sono impegnati a rispettare le scadenze collegate agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, dall’altro ambiscono a completare al più presto la transizione digitale che ne garantirà la competitività: è il dualismo di cui si parla diffusamente nel Rapporto.

 Questa edizione monitora, dalla prospettiva della governance scientifica, il percorso di sviluppo intrapreso dai Paesi, concludendo che se vorranno avere successo nella loro transizione duale, dovranno investire molti più fondi in ricerca e innovazione.

 

Cliccando qui  potrete avere accesso alla traduzione dell’Executive Summary in italiano, realizzata a cura della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO.


www.unesco.it  

giovedì 27 gennaio 2022

OLOCAUSTO, EBREI e CRISTIANI


 La Memoria dell’Olocausto, quale il contributo della Chiesa cattolica e l’eredità custodita dagli uomini. 

Intervista al prof. p. Carmelo Raspa

 

-di  Mari Cortese

 -

Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, viene celebrato in tutto il mondo dalla politica, dalle scuole, dalle associazioni e dal mondo della cultura da oltre quindici anni.

A dire il vero, sembra trascorso un tempo più longevo dalla sua istituzione. Invece, il ricordo istituzionale di eventi tragici come l’Olocausto e la Shoah del popolo ebraico ha solo varcato la soglia dell’adolescenza. Ciò è evidente non solo a causa di una questione “anagrafica” quanto perché la portata di tale eredità storica, con le sue brutture ma anche con il senso di quanto avvenuto, non è ancora stata raccolta nel profondo all’unanimità, nel nostro quotidiano. Ne abbiamo parlato con don Carmelo Raspa, parroco di San Giovanni Bosco (Acireale), docente di ebraico biblico presso la facoltà Teologica di Sicilia e lo Studio Teologico S.Paolo di Catania, profondo conoscitore della cultura e delle tradizioni legate al mondo complesso e affascinante dell’ebraismo.

Si parla tanto di Shoah anche se, purtroppo, solo durante il periodo che ruota intorno alla ricorrenza del 27 gennaio. Qual è, secondo lei, l’eredità storica e umana che ci ha lasciato questa tragedia?

La Shoah è stata, nel passato, un punto di partenza da parte del mondo cattolico e protestante per avvicinarsi maggiormente all’ebraismo. A testimonianza di ciò, finita la guerra ebbero luogo gli incontri di Seelisberg, dove cristiani ed ebrei si riunirono per stilare un documento contro l’antisemitismo; ricordiamo, negli anni Sessanta, lo storico incontro fra papa Giovanni XXIII e Jules Isaac, a suggellare il dialogo interreligioso; poi il Concilio Vaticano II col documento Nostra aetate: sono tutti passi fatti per una mutua conoscenza. Inoltre, Il fatto di ricordare la Shoah affinché certe ferocie non si ripetano più già rende la memoria “luminosa”. Ricordiamoci, infatti, che il male è sempre all’opera nel mondo e va contrastato con la forza del ricordo.

Come si inseriscono le comunità ebraiche all’interno dell’Italia odierna?

Oggi realtà come l’UCEI o l’UNEDI, il Gran Rabbinato e l’UGEI  agiscono per il dialogo ebraico-cristiano sia a livello istituzionale che territoriale. Ciò avviene soprattutto nel Nord. Noi in Sicilia purtroppo soffriamo di ciò perché non abbiamo una presenza numericamente massiccia di ebrei come a Roma, Milano o Napoli.

Cosa, eventualmente, un cattolico potrebbe imparare da un ebreo che pratica l’ebraismo?

Com’è noto, fra gli ebrei troviamo praticanti ortodossi ma anche moderati, laici e atei. Tutti però, anche i più lontani dalle pratiche religiose conoscono le scritture e la tradizione d’Israele: aspetto che a noi manca a livello di formazione. Bisogna ammetterlo: la nostra fede a volte si fonda su devozionalismi e sentimentalismi che ci allontanano dall’essenza della spiritualità. Invece, una conoscenza delle fonti, dai padri della Chiesa ai teologi alla lettura dei documenti del concilio, aprirebbe a una visione della religione senza pregiudizi, anche da parte dei non praticanti.

Malgrado il carico di malvagità che ha segnato le deportazioni di massa del popolo ebraico e il suo sterminio, una fetta di ragazzi nelle scuole non smette di fare ironia su questi accadimenti storici. Quali le responsabilità del mondo dell’istruzione e della Chiesa per educare i giovani al senso di quanto accaduto?  

È chiaro come oggi i nostri ragazzi risentano di una trasmissione valoriale mancata ed è per questo che cadono spesso nell’indifferenza. Parlerei perfino di un diffuso sospetto nei confronti della cultura che porta inevitabilmente a leggere e osservare poco o nulla. Ecco perché è necessaria la presenza di testimoni della Shoah, come la senatrice Liliana Segre. La scuola ha il dovere di educare i ragazzi all’ascolto e all’amore per la memoria storica. Tutto fuorché semplice, in questi tempi del consumo e del “tutto e subito”.

Invece, per custodire la memoria una fetta della Chiesa dovrebbe rivedere omelie e catechesi, dove purtroppo si evidenzia poco l’ebraicità di Gesù e se ne parla com’egli fosse un cristiano nato. Per non parlare di pregiudizi che danno “i farisei come i cattivi” e la Chiesa come nuovo Israele. Ciò è frutto di una  tradizione antisemitica cristiana che attribuisce agli ebrei segni come la stella gialla, il cappello a punta, il naso adunco, la figura dell’usuraio. Abbiamo bisogno di convertire la nostra conoscenza verso ilo popolo ebraico ma affinché questo sia possibile è necessario formarsi e formare tutto l’anno.

Eppure parte della Chiesa italiana e dei cattolici ha fatto tanto per gli ebrei durante il rastrellamento del ghetto di Roma.

Chiaramente una fetta della Chiesa, dei cattolici e degli istituti religiosi ha aiutato molti ebrei a salvarsi, addirittura facendoli passare per sacerdoti o consacrati o falsificandone i documenti. Nel contesto, la “politica prudente” di Pio XII ha impedito che si scatenasse una rivolta contro la Chiesa, che ha in tal modo avuto la possibilità di salvare vite umane lontano dai riflettori. Quindi, dal mirino dei nazifascisti. Molti ebrei fanno testimonianza di come siano stati nascosti o fatti emigrare. Purtroppo, c’era anche qualche cristiano delatore che spiava della loro presenza ai nemici.

Domanda che, invero, potrebbe sorgere nel cuore di chiunque: “Dio dov’era?”

In quell’oscurità si levano voci bellissime: Bonhoeffer, a esempio, arrestato dai nazisti e ucciso in un campo di concentramento, si è posto il problema di Dio non come un’entità tappabuchi ma come quel Dio che si incarna in un Cristo che soffre. Oppure, ricordiamo di Hetty Hillesum col suo Diario, in cui il principio di gravitazione non è di Dio intorno all’uomo ma il contrario. “E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio” è il principio di responsabilità degli uomini per far emergere l’immagine dell’Altissimo dai cuori in cui questa è stata sepolta.

Nel buio più profondo i deportati professavano la Fede, come si evince da pezzettini di preghiere ricopiate dai detenuti nei pochi stralci che riuscivano a trovare nei campi di concentramento. Oppure da piccoli oggetti legati al culto dello Shabbat. Ancora, da libri di preghiere rinvenuti in quei luoghi di atroci torture. È stata la professione di Fede nell’oscurità che ha consentito un ritorno di molti alla normalità.

Alcuni non trovano un equilibrio fra il rispetto per il popolo ebraico e il suo vissuto e un’idea politica contraria all’operato governativo israeliano nella questione israelo-palestinese.

Sono gli ebrei i primi a criticare l’operato dello Stato di Israele, così come i palestinesi fanno verso i terroristi. Ciò che emerge poco dalla nostra stampa, però, è la collaborazione fra ebrei e palestinesi all’interno di iniziative comuni che non vengono propagandate, come Neve Shalom o il teatro di Angelica Edna Calò Livne. Sono elementi che creano ponti e non muri, per citare papa Francesco.  Suggerirei di apprendere la questione israelo-palestinese da giornali del luogo, possibilmente tradotti in lingua inglese, come il Jerusalem Post, per una visione più ampia e senza pregiudizi su un tema così complesso, dove la morte si palesa sa entrambi i lati.

 Freepress on line

 

 

mercoledì 26 gennaio 2022

INSICUREZZA SOCIALE A TUTTO SPIANO


INSICUREZZA SOCIALE: ANTIPOLITICA e ANTISCIENZA

- La fiducia verso ricerca e istituzioni recupera terreno. Ma, tra terrapiattisti e no-vax, resta una base di ostilità che affonda le radici nella crisi delle relazioni e nella fragilità economica.

- I dati sulla crescita delle disuguaglianze e della povertà, nonché quelli sulla situazione occupazionale, sono una spia da non sottovalutare come agenti che generano ansia e sfiducia I nostri sentimenti e comportamenti dipendono prevalentemente dal contesto in cui siamo immersi e dal modello di sviluppo di riferimento -


Cosa dicono le ricerche più recenti sull’ondata di irrazionalità

 

 

La situazione sociale del Paese sembra essere caratterizzata da un trend di “tecno-fobia” e sfiducia, frammisto a convinzioni di tipo cospirazionista. L’ultimo rapporto del Censis, ad esempio, ha messo in luce che il 6% di italiani ritiene che il Covid non esista, l’11% che il vaccino sia inutile e inefficace, il 31% che si tratti di un farmaco sperimentale cui i cittadini vengono sottoposti come cavie, mentre il 13% pensa che la scienza produca più danni che benefici. Secondo il 40% degli intervistati si sta andando verso «una sostituzione etnica» guidata da «opache élite globaliste», per il 6% la terra è piatta, per il 20% il 5G è uno strumento inventato per controllare le persone ed il 46% giudica negativamente il ruolo degli esperti nella comunicazione pubblica. Un mix di sentimenti antiscientifici che ha indotto il Censis a parlare di un’ondata di irrazionalità e di ripresa di «superstizioni premoderne», una sorta di sonno della ragione e di «fuga nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico». Questa lettura trova riscontro in altri dati e ricerche, anche precedenti al Covid e poco noti ai più, da cui risultano analoghe tendenze di ripresa dell’irrazionale rispetto al razionale. Ad esempio, il recente studio della Accademia delle Scienze statunitense, secondo il quale il linguaggio dei libri pubblicati in lingua inglese e spagnola tra il 1850 ed il 2019 registra fino al 1980 un aumento costante dei termini associati alla razionalità, e da quel decennio in poi una inversione di tendenza ed un aumento di vocaboli legati alla sfera dei sentimenti e delle credenze irrazionali. Distinguendo i testi analizzati tra fiction e nonfiction, l’irrazionale mostra di essere più presente nella pubblicistica fiction, la quale a sua volta cresce di peso nel complesso dei volumi pubblicati (dal 5% al 35% dal 1975 in poi). Gli analisti dello studio collegano questo trend allo stallo della crescita economica dopo la ricostruzione post-bellica a fine anni 70, allo sviluppo dei social media ed alla crisi economica del 2008. I l collegamento tra sfiducia nella scienza e tendenza ad abbracciare teorie antiscientifiche e magiche, da un lato, e comunicazione social, dall’altro, ricorre sempre più frequentemente nelle analisi anche italiane. 

Ad esempio, lo studio promosso da due università romane assieme alla Fondazione Mesit, e pubblicato a gennaio 2022, segnala il raddoppio del numero degli utenti ostili al vaccino anti Covid presenti sui social nella seconda metà del 2021. E sono numerosi i testi di filosofia della comunicazione e della scienza e di bioetica apparsi negli ultimi anni che indicano le colpe della comunicazione pubblica, sia quella degli scienziati che quella dei politici e della stampa, sostenendo che l’informazione, anche quella scientificamente fondata, non sempre produce una reale comprensione e una reale condivisione di idee, opinioni e dati scientifici, contribuendo così facendo a minare la “fiducia epistemica” in chi è deputato a ricercare le soluzioni migliori per la vita collettiva dal punto di vista scientifico. 

Molto inferiore è invece l’attenzione dedicata agli altri due elementi dello stallo e delle crisi economiche. Rispetto a questo complesso di questioni, non va innanzitutto dimenticato che molte ricerche certificano la presenza di livelli di apprezzamento generale verso la scienza diffusi ed elevati. Per citare una delle ricerche italiane più recenti, quella condotta dal Cnr tra il 9 ed il 14 marzo 2020 segnala livelli di fiducia negli scienziati molto alti, visti come la fonte più affidabile dal 93% degli intervistati (più o meno quanti coloro che hanno aderito alla campagna vaccinale nell’ultimo anno), seguiti dai siti internet ufficiali (89,6%). Ed anche la fiducia nelle istituzioni rispetto alle misure di contrasto contro la diffusione del virus risulta nello studio Cnr particolarmente alta (75%), così come quella nelle autorità pubbliche competenti. L’indagine rileva addirittura la previsione di un incremento della fiducia nella scienza, secondo il 72,8% degli intervistati, della solidarietà tra cittadini per il 57% e della fiducia nelle istituzioni per il 54,4%. M a sarebbe sciocco sottovalutare il fenomeno, sia pur limitato numericamente, del distacco di una parte della popolazione dalla razionalità scientifica, perché in crescita secondo i dati citati, ed anche perché, come abbiamo potuto verificare in epoca di pandemia, è alla base di comportamenti che hanno contribuito a provocare morti e contagi evitabili – con grande danno per la collettività – oltre che tensioni sociali particolarmente aspre. 

Occorre piuttosto interrogarsi sulle cause profonde di questa ondata di sfiducia nella scienza, andando al di là delle troppo facili colpevolizzazioni nei confronti di istituzioni, scienziati o giornalisti – la cui autoreferenzialità, di cui li si accusa, è costitutiva rispetto al loro ruolo –, e soprattutto cercando di distinguere tra tendenze antiscientifiche e forme di ribellione antistatalista e antisistema, che in molti casi vi si aggregano con obiettivi di tipo strumentale. 

Rispetto alla cosiddetta anti-scienza, va ricordato che la fiducia, anche quella nella scienza, si forma nella relazione tra sé e gli altri e nei processi di integrazione sociale. I nostri sentimenti e comportamenti dipendono in sostanza dal contesto in cui siamo immersi e dal modello di sviluppo di riferimento. I dati sulla crescita delle disuguaglianze e della povertà relativa ed assoluta, nonché quelli del malcontento rispetto alla situazione lavorativa e sociale, sono una spia da non sottovalutare come agenti di insicurezza, ansia e sfiducia. Più in generale l’incertezza che caratterizza la vita oggi, la precarietà sociale e occupazionale e, non ultima, l’intensità, la frequenza e la durata delle crisi economiche e sociali che si susseguono e che producono effetti negativi importanti per fasce ampie di popolazione, alimentano la paura del futuro, la ricerca di capri espiatori, l’odio per chi governa, e l’assenteismo elettorale, tutti fattori cui andrebbe dedicata maggiore attenzione.

 In questo senso il fenomeno cosiddetto dei “No Vax” e dei “No Green Pass”, più che con la magia e l’irrazionalità, sembrano avere a che fare con il ciclo socioeconomico e con il distacco tra società e istituzioni. Il che spiega anche il significato di altre evidenze recenti sul tema dell’“anti-politica”. Il tema della giustizia sociale e quello dello sviluppo sostenibile socialmente, economicamente ed ambientalmente acquistano allora una più corposa e profonda centralità, e non solo con riferimento alla lotta al virus.

 

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