della democrazia
il grande compito
per i cattolici italiani
Dibattito aperto sul tema dell’appuntamento in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio, tra società civile, istituzioni ed economia
Verso la Settimana Sociale: nella realtà plurale di oggi va restituita centralità al metodo democratico, non lasciando che sia ridotto a mera procedura o a monopolio dei partiti E i cristiani devono tornare a “immischiarsi”
-di
STEFANO ZAMAGNI
A
poco più di 40 giorni dalla 50esima Settimana Sociale dei cattolici italiani a
Trieste il professor Stefano Zamagni, economista, già presidente della
Pontificia Accademia delle Scienze, offre la sua riflessione sul tema della
manifestazione – la democrazia – aprendo il dibattito sull’evento.
A
metà degli anni ’90 si svolse a Torino una Settimana Sociale dei Cattolici in
Italia sul tema della democrazia. A distanza di quasi quaranta anni, il
medesimo tema sarà oggetto della cinquantesima Settimana Sociale a Trieste nei
giorni 3-7 luglio 2024, il cui titolo – assai evocativo – è “Al cuore della
democrazia”. Ancora una volta, il mondo cattolico si ritrova per interrogarsi
sul fondamento del principio democratico in un contesto socio-politico affatto
differente per mettersi, come sempre, in cammino. Le considerazioni che seguono
vanno lette su tale sfondo.
La
democrazia
Conviene
iniziare da un paio di chiarimenti. Il principio democratico è molto antico.
Risale alla Grecia di Aristotele. Demos kràtos significa
“potere al popolo”. Aristotele e altri furono molto chiari nell’indicare i due
pilastri del principio democratico. Eppure, si tende a identificare la
democrazia con la pratica delle elezioni, le quali appartengono alla categoria
dei mezzi e non già dei fini. Infatti, si possono avere elezioni anche in Paesi
non democratici. Due – dicevo – i pilastri del principio democratico. Per un
verso, coloro i quali esercitano l’azione di comando sono tenuti a dare conto
delle azioni da essi compiute. Non solo narrare, cioè, raccontare quel che si è
fatto, ma dare le ragioni in forza delle quali certe decisioni sono state prese
– ragioni che possano essere comprese dal cittadino. Per l’altro verso, coloro
i quali non si riconoscono in quelle ragioni devono poter avere il diritto di
protestare, ovviamente in modi civili, ed eventualmente devono essere liberi di
lasciare la comunità (è il cosiddetto “ voting by feet”).
Questi
principi basilari sono stati implementati nel corso del tempo secondo due
diverse tradizioni di pensiero. L’una è la tradizione Hobbesiana; l’altra è
quella Rinascimentale. La tradizione Hobbesiana si rifà al pensiero di Thomas
Hobbes ( Leviathan, 1651), secondo cui è lo Stato che invera
la società civile; idea che verrà poi perfezionata da Hegel. Allo Stato, spetta
dunque il compito di dire come la società civile deve organizzarsi e quali sono
i criteri in forza dei quali una società si definisce civile. Per la tradizione
rinascimentale, invece, è vero esattamente il contrario: è la società civile
che dà senso e forza allo Stato e non viceversa. La ripresa in tempi moderni
della tradizione neo-rinascimentale è uno dei grandi meriti di Jacques Maritain
e dei pensatori del personalismo cristiano (si veda di Maritain L’uomo
e lo Stato e pure Umanesimo integrale). È sempre bene
ricordare che la nostra Costituzione pone il suo fondamento nella tradizione
neo-rinascimentale.
Una
repubblica democratica
All’
articolo 1 si legge: «L’Italia è una Repubblica democratica (non
uno Stato) fondata sul lavoro ». Lo Stato è parte della
Repubblica. E nell’articolo 2 si legge che la Repubblica è fondata, e tenuta in
piedi, anche dai corpi intermedi della società (società civile organizzata,
Terzo settore ecc.). Fino a un trentennio fa il principio democratico accolto
dal mondo cattolico è stato quello della tradizione neo-rinascimentale. Dopo di
allora, ha iniziato a prendere corpo una sorta di slittamento semantico: senza
quasi accorgersene, si è andati verso la tradizione di pensiero neo-Hobbesiana.
A ben considerare, è questa una sorta di tradimento dello spirito
del Codice di Camaldoli. Un secondo chiarimento concerne la
confusione di pensiero tra politica e partitica. La Politica, termine che
deriva da polis (città), appartiene, per il pensiero greco,
alla ragion pratica; la partitica, invece, nasce nel XIX secolo dopo
l’illuminismo e la rivoluzione francese e il suo ambito è piuttosto quello
della ragion tecnica. Perché è importante questa distinzione? Perché ci aiuta a
capire che si sbaglia sia quando si dice che i partiti sono diventati
irrilevanti sia quando si pensa che la politica possa ridursi totalmente alla
partitica – quanto a significare che l’unico modo di occuparsi di politica, sia
quello di iscriversi a un qualche partito politico. Il che è falso. Al tempo
stesso va detto che l’espressione “pre-politica” è priva di senso. Nessuno che
viva in società può affermare di non interessarsi di politica. I partiti sono
bensì uno strumento essenziale per fare politica ma non sono l’unico strumento.
Forse quando si dice “non mi occupo di politica” si intende significare: “non
mi occupo di partitica”.
La
politica come servizio
Il
celebre teologo Henry De Lubac ha scritto che il cristiano che non si interessa
di politica – non certo di partitica – non è fedele al Vangelo. Sulla medesima
posizione si collocano tre dichiarazioni recenti di altrettanti Pontefici. «La
politica come servizio è una via della Carità: volete amare gli altri? Fate
politica» (Paolo VI). «Sogno il ritorno diretto in politica
dei laici cattolici» (Benedetto XVI, corsivo aggiunto). «Un buon cattolico si
immischia in politica, offrendo il meglio di sé» (Francesco). Non v’è bisogno
di commenti, se non per suggerire due conseguenze che sono derivate dalla non
presa in considerazione di tali ammonimenti. Per un verso, il babelismo (per
usare la felice espressione di Maritain) del mondo cattolico; per l’altro
verso, il fatto che i cattolici sono spesso percepiti come una sorta di lobby a
difesa di determinati obiettivi, e non invece come una comunità di persone
portatrici di un progetto di trasformazione della società che pone la sua
ispirazione nella Dottrina sociale della Chiesa. Si tenga presente che le lobby
– di “destra” o di “sinistra” che siano – se possono ottenere vantaggi
nell’anticamera della partitica, sono sempre perdenti nelle competizioni
elettorali, per la semplice ragione che non sono in grado di organizzare i
canali di trasmissione degli interessi della cittadinanza verso
la politica vera e propria. Ciò precisato, di
quali trasformazioni – non parlo di mere riforme – il nostro
Paese ha oggi grandemente bisogno, trasformazioni per l’attuazione
delle quali l’apporto del mondo cattolico non può mancare? Ne
indico solo alcune per ragioni di spazio. Primo, il passaggio
dal modello bipolare di ordine sociale fondato su Stato e
Mercato, e quindi sulle due categorie del pubblico e del privato, al
modello tripolare Stato, Mercato, Comunità, un modello che alle
categorie di pubblico e privato aggiunge quella del civile.
Solamente attuando una tale trasformazione è possibile dare ali
al principio di sussidiarietà, secondo quanto
contemplato dall’articolo 118 della Carta costituzionale, dal
Codice del Terzo settore (D. Lgs. 117/2017) e della innovativa
sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale. Quella finora
applicata non è la piena sussidiarietà: è la sussidiarietà
orizzontale, che si limita alla co-progettazione e non si spinge fino alla
co-programmazione. Per attuare quest’ultima occorre dare ali
alla sussidiarietà circolare, il cui fondamento è negli scritti
di Bonaventura da Bagnoregio, di fine XIII secolo. Si badi
che il passaggio, da tutti invocato, dall’obsoleto modello di
Welfare State a quello di Welfare Society mai potrà essere realizzato
restando entro lo schema Stato-Mercato.
Il
Terzo settore
Un
welfare delle capacità di vita, in sostituzione dell’attuale welfare delle
condizioni di vita, esige la messa al centro del variegato mondo del Terzo
settore e della Business Community, con compiti di co-programmazione.
Secondo,
l’impianto del nostro assetto economico-istituzionale è ancora
prevalentemente di tipo estrattivo. È di istituzioni economiche inclusive ciò
di cui l’Italia ha urgente bisogno, se si vuole ridurre significativamente
l’area della rendita che, nell’ultimo quarantennio, si è andata espandendo a
danno sia del profitto sia del salario. La stanchezza della cultura
imprenditoriale (e il declino dei livelli di produttività), oltre che il
nanismo del sistema di impresa, trovano in questo la loro causa principale. Lo
stesso dicasi della condizione di sofferenza delle famiglie, soprattutto di
quelle numerose, ingiustamente penalizzate. Se si crede che il lavoro, nella
sua duplice dimensione acquisitiva ed espressiva, è fattore decisivo di
libertà, oltre che di benessere, allora occorre dire che è l’impresa che crea
lavoro. Ma l’impresa nella molteplicità delle sue forme: capitalistica,
cooperativa, sociale, benefit. Non è accettabile né una prosperità senza
inclusione né una inclusione senza prosperità. Terzo, va trasformato
il sistema scuola-università. Cosa c’è da trasformare?
Educare
ed istruire
Il
fondamento stesso del sistema: scuola e università devono tornare a essere in
primis luoghi di educazione e in secundis luoghi di
istruzione. All’origine della crisi della scuola vi è l’abbandono,
nel corso dell’ultimo secolo, del concetto aristotelico di conazione –
parola che deriva dalla crasi di conoscenza e azione – e il cui significato è
quello di porre la conoscenza al servizio dell’azione e di non consentire che
l’azione abbia luogo se non a partire da una base di conoscenza. Le nostre
scuole e università veicolano bensì conoscenza, pure di buon livello, grazie
alle riforme dell’istruzione dei passati decenni, ma non aiutano i giovani a
inserirsi “nella realtà totale”. Non si può continuare a tenere in piedi la
obsoleta dicotomia tra cultura umanistica e cultura tecno-scientifica. È al
pensiero della complessità che occorre oggi educare, superando vetusti
riduzionismi.
La
comunanza etica
Infine,
occorre porre mano alla vexata quaestio della comunanza etica
nella società del pluralismo. Come noto, il pluralismo contemporaneo per
definizione rifiuta l’idea di un’etica unica. Al tempo stesso, la vita
associata – e soprattutto la politica – esige una comunanza (la koinotes di
Aristotele) fondata su princìpi etici condivisi se non vuole ridursi a mero
proceduralismo e se si vuole scongiurare il conflitto sociale. Ci si rifugia
nel relativismo nella convinzione che il metodo dello svincolo ( avoidance) sia
l’unica strada percorribile per evitare il conflitto e per assicurare una
parvenza di pace sociale. Che si tratti di beffarda illusione dovrebbe essere
compresa da tutti, perché chi crede di sapere, non sapendo di credere, non si
fa né fa mai domande, da cui il relativismo oggi dilagante. Ebbene, la ricerca
di una via attenta al rispetto del pluralismo e al tempo stesso capace di
suggerire una comunanza etica significativa è la grande missione del mondo
cattolico in questo tempo. Una società del pluralismo non può essere sorretta
da un’etica univoca, ma può aspirare a una inter-etica generata
dall’incontro di quelle varietà culturali che abitano la stessa civitas.
Invero,
la comunanza che si deve cercare non può essere né quella propria di una
comunità culturale né quella propria di una comunità religiosa – mai si
dimentichi che è stato il Cristianesimo ad affermare per primo il principio di
laicità – ma quella di una comunità politica che rifiuta decisamente
l’orizzonte hobbesiano (tuttora in auge) secondo cui l’agire politico è
solamente quello concentrato dentro le istituzioni rappresentative. Vediamo che
il modello hobbesiano non funziona più, ma continua a produrre ruoli di
sistema. Si tratta allora di avviare, in modo sistematico, una riflessione
sull’uomo (la cosiddetta quaestio de homine) che è certamente
desunta dalla fede cristiana ma che può essere esibita anche come
ragionevolmente condivisibile perché razionalmente dimostrabile.
P er
chiudere. Pensare a nuove forme di impegno politico è, oggi, un compito di
primaria rilevanza da assolvere, se il mondo cattolico vuol continuare a
offrire un messaggio di speranza. Le certezze che ci offre l’esaltante
progresso tecnico-scientifico non ci bastano, perché la questione odierna non è
tanto decidere cosa fare per ottenere ciò che vogliamo, ma decidere cosa è bene
che si voglia. Di qui l’esigenza di una nuova speranza. È comprensibile che la
speranza di chi non ha sia diretta sull’avere. Continuare a crederlo oggi
sarebbe un grave errore. Se è vero che lasciar cadere la ricerca dei mezzi più
efficaci sarebbe stolto, ancor più vero è riconoscere che la nuova speranza va
diretta ai fini.
Il
senso di fraternità
Avere
dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui si
estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a
migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro
verso, ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di
natura pubblica ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze
intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti a una soluzione credibile
di quel trade-off. Non è capace di futuro la società in cui si
dissolve il principio di fraternità; non c’è felicità in quella società in cui
esiste solamente il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”. Ecco perché
né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è
scambio, né la visione statocentrica della società, in cui tutto (o quasi) è
doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui
iperglobalizzazione e quarta rivoluzione industriale stanno mettendo a dura
prova la tenuta del nostro modello di civilizzazione.
Restituire
un’anima alla politica.
Ci
vogliono grandi cause, ancorché talvolta deviate dal loro alveo originale, per
mobilitare le persone in gran numero. Non esiste forza politica, degna di
questo nome, che non si rifaccia a un’ispirazione. Senza di essa, un partito si
riduce a una mera aggregazione di interessi, sia pure legittimi. È
culturalmente attrezzato il nostro mondo cattolico per una missione come quella
sopra abbozzata? Penso proprio di sì, purché se ne voglia prendere atto. Un
antico proverbio tibetano dice che quando c’è un grande traguardo anche il
deserto diventa una strada. Se il grande traguardo è riportare la categoria di
bene comune – il bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo – al centro
dell’agenda politica, il deserto della crisi attuale può diventare una grande
opportunità. A patto che mai ci si dimentichi della sorgente. La quale è né
solo origine né solo inizio. Origine e inizio si possono anche dimenticare col
tempo, ma non ci si può dimenticare della sorgente, perché’ da essa lo
“zampillo d’acqua” fuoriesce in modo continuo.
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