DELLA MAMMA
LIBERA DA STEREOTIPI
-di Andrea Frison
«Le giovani donne si
trovano oggi in condizioni difficili nell’immaginare il futuro in un presente
lacerato da troppi squilibri. Allo stesso tempo, questi venti di guerra, di
competizione senza scrupoli e di dominio scriteriato sulla natura producono un’incertezza
esistenziale senza precedenti. Non è detto, dunque, che la maternità sia per
loro un desiderio avvertito con intensità». L’analisi della filosofa e teologa
veronese Lucia Vantini, 52 anni, presidente del Coordinamento delle teologhe
italiane, sembra stendere un velo di amarezza sulla festa della mamma che
ricorre questa domenica. Tuttavia, l’affermazione è confermata da un dato
contenuto nel recente (è uscito a fine aprile) “Rapporto giovani”
curato dall’Istituto Toniolo: “la preoccupazione per la salute del pianeta
spinge i giovani tra i 25 e i 34 anni a fare meno figli per il timore di
vederli condannati ad un futuro potenzialmente catastrofico”. Una tendenza che
cresce nei Paesi che investono meno risorse pubbliche sulle nuove generazioni e
in politiche familiari.
«In quale modo questa
società immagina e sostiene la vita che nasce?» si domanda la teologa, a sua
volta madre di tre figli, per poi aggiungere: «Chiederselo aprirebbe tante
riflessioni, anzitutto su questa strana cultura che da un lato si preoccupa del
calo delle nascite e dall’altro respinge le vite migranti, da un lato parla di
civiltà e dall’altro rimuove il problema della vulnerabilità, lasciando senza
sostegno coloro che si prendono cura di figlie e figli disabili o con patologie
psichiatriche».
Quindi, secondo lei, ci
sono mamme che ci dimentichiamo di festeggiare?
«Sì, ci sono madri che
dimentichiamo e che addirittura rimuoviamo. Tendiamo infatti a festeggiare solo
un certo tipo di madre: quella che ha un uomo accanto, quella che lavora in
modo dignitoso, ma sa anche fare le torte, quella che si sacrifica volontariamente
per il bene della famiglia o per Dio, quella che viene dalle nostre terre,
quella che è già adulta ma non troppo, quella che non ha mai pensato – nemmeno
per un momento – di interrompere una gravidanza, quella che non conosce la
strada, il carcere, la violenza o la paura di non farcela».
Quali sono, secondo lei,
gli stereotipi che andrebbero con urgenza superati, sul piano culturale,
sociale ed ecclesiale?
«Ogni festa porta con sé
un immaginario e quella dedicata alla mamma non fa eccezione. Tuttavia, come
dicevo prima, tendiamo a chiudere il discorso in stereotipi che cancellano la
realtà nella sua complessità. In questo senso, ogni idealizzazione dell’elemento
materno condanna le madri vere – divenute tali per desiderio, per caso o per
violenza – a non poter raccontare la propria storia, la propria versione del
mondo, la propria speranza di giustizia. Sul piano ecclesiale, papa Francesco
ha coniato un nuovo verbo: “smaschilizzare”. Voleva dire che dobbiamo imparare
a sognare e a realizzare una Chiesa dove le donne e gli uomini siano
corresponsabili e pienamente soggetti, insieme, nel loro battesimo».
La figura di Maria, visto
che siamo nel mese di maggio, aiuta a superare questi stereotipi o li rafforza?
«Dipende da come la
presentiamo, da come la celebriamo e da come usiamo i simboli che la madre di
Gesù – madre di Dio per i cristiani – produce. Le teologie femministe, per
esempio, hanno denunciato tutti gli usi scorretti di questi simboli, affermando
che nella storia la figura di Maria è stata spesso usata come una clava per le
donne. Allo stesso tempo, non nego che con Maria siamo di fronte a una potenza
simbolica della generatività che, se maneggiata con cura, riesce ad aprire un
varco di libertà in certi discorsi abitudinari tutti declinati al
maschile».
A proposito di questo, ha
fatto scalpore una puntata di Porta a porta dedicata all’aborto con soli uomini
in trasmissione.
«Da sempre lo spazio
pubblico è stato interpretato come maschile, con la conseguente
rappresentazione della donna come soggetto che dà il meglio di sé nello spazio
della casa e delle relazioni di cura. Certi uomini si sono abituati a prendere
la parola anche su esperienze che non sperimentano in prima persona e a
presentarsi come controllori del corpo femminile, un corpo che sa ospitare la
vita e mettere al mondo parole e gesti che si nutrono di quella potenza
generativa».
Ma secondo lei, nella
società di oggi, la maternità è un peso o una risorsa?
«In questo scenario, la
maternità in sé non è né un peso né una risorsa, nel senso che tutto dipende
dai desideri, dalle condizioni psicologiche, sociali e materiali di una donna,
dall’ospitalità delle comunità in cui una vita viene al mondo, dalle leggi che
ci diamo. Io sono colpita dalle madri che trovano il coraggio di attraversare
il mare, ma sono colpita anche da quelle che restano dove sono e lasciano
andare i loro bambini e le loro bambine. Mi costringono a domande difficili sul
tipo di speranza che ogni essere umano può permettersi: certe persone non
possono permettersi di sperare quello che speriamo noi. Le loro sono speranze
arrischiate che prevedono dure separazioni alle quali noi facciamo caso
distrattamente o sulle quali ci soffermiamo solo per dare giudizi spietati.
Quelle storie ci insegnano da un lato che amare è lasciare andare, ma con il
loro grido ci insegnano soprattutto ad aprire gli occhi sull’iniquità del
nostro mondo».
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