mercoledì 31 ottobre 2018
martedì 30 ottobre 2018
CONCORSO DOCENTI SCUOLA INFANZIA E PRIMARIA - Pubblicato il Decreto
Pubblicato il decreto per il concorso straordinario, per titoli ed esami, per il reclutamento di personale docente per la scuola dell’infanzia e primaria su posto comune e di sostegno. Adesso in attesa del bando con le indicazioni sulle domande e tempistiche per presentarle.
Leggi: Articolazione concorso
domenica 28 ottobre 2018
SINODO. LETTERA AI GIOVANI: LA CHIESA E IL MONDO HANNO BISOGNO DEL VOSTRO ENTUSIASMO
«La Chiesa e il mondo hanno urgente bisogno del vostro entusiasmo. Fatevi compagni di strada dei più fragili, dei poveri, dei feriti dalla vita. Siete il presente, siate il futuro più luminoso», la consegna per il dopo-Sinodo.
Ecco il testo integrale della lettera:
«A voi, giovani del mondo, ci rivolgiamo noi padri sinodali, con una parola di speranza, di fiducia, di consolazione.
In questi giorni ci siamo riuniti per ascoltare la voce di Gesù, ‘il Cristo eternamente giovane’, e riconoscere in Lui le vostre molte voci, le vostre grida di esultanza, i lamenti, i silenzi.
Sappiamo delle vostre ricerche interiori, delle gioie e delle speranze, dei dolori e delle angosce che costituiscono la vostra inquietudine. Desideriamo che adesso ascoltiate una parola da noi: vogliamo essere collaboratori della vostra gioia affinché le vostre attese si trasformino in ideali.
Siamo certi che sarete pronti a impegnarvi con la vostra voglia di vivere, perché i vostri sogni prendano corpo nella vostra esistenza e nella storia umana. Le nostre debolezze non vi scoraggino, le fragilità e i peccati non siano ostacolo alla vostra fiducia.
La Chiesa vi è madre, non vi abbandona, è pronta ad accompagnarvi su strade nuove, sui sentieri di altura ove il vento dello Spirito soffia più forte, spazzando via le nebbie dell’indifferenza, della superficialità, dello scoraggiamento.
Quando il mondo, che Dio ha tanto amato da donargli il suo Figlio Gesù, è ripiegato sulle cose, sul successo immediato, sul piacere e schiaccia i più deboli, voi aiutatelo a rialzarsi e a rivolgere lo sguardo verso l’amore, la bellezza, la verità, la giustizia.
Per un mese abbiamo camminato insieme con alcuni di voi e molti altri legati a noi con la preghiera e l’affetto. Desideriamo continuare ora il cammino in ogni parte della terra ove il Signore Gesù ci invia come discepoli missionari.
La Chiesa e il mondo hanno urgente bisogno del vostro entusiasmo. Fatevi compagni di strada dei più fragili, dei poveri, dei feriti dalla vita. Siete il presente, siate il futuro più luminoso».
sabato 27 ottobre 2018
GIOCHI DI SGUARDI: GESU' E BARTIMEO . PER IMPARARE A VEDERE
Dal Vangelo secondo Marco - Mc 10, 46-52
46E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». 48Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». 49Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». 50Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 51Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». 52E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
46E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». 48Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». 49Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». 50Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 51Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». 52E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
La storia di Bartimeo, cieco poi guarito da Gesù, è un’ottima occasione per fare l’esame della vista spirituale.
Qualche giorno fa, Raffale un amico formatore, ha tenuto un bel incontro al gruppo dei fidanzati. Il tema era la relazione e tutto quello che la mette in pericolo o la può aiutare. Uno dei passaggi che più mi hanno colpito è quando ha parlato del “vedere” come mezzo per la relazione, e ha fatto un’interessante distinzione tra i 3 verbi italiani che hanno a che fare con la vista: vedere, guardare e osservare.
“Vedere” è percepire con l’organo della vita in modo superficiale e immediato senza andare a fondo e senza selezionare quel che passa davanti agli occhi. “Guardare” è restringere il campo visivo in modo intenzionale su quello che ci interessa o ci colpisce. E’ scegliere cosa vedere e cosa non vedere. “Osservare” è la restrizione massima del campo visivo su qualcosa o qualcuno dedicando tempo, mente e cuore. La qualità delle nostre relazioni ha a che fare con il nostro vedere, guardare e osservare. È la dinamica della relazione che va nel profondo delle situazioni e delle persone che la vista fisica ci pone davanti agli occhi.
Gesù era uno che vedeva fisicamente, ma non si fermava ad uno sguardo superficiale delle situazioni e delle persone, ma guardava e osservava arrivando a posare il suo sguardo fin nel cuore delle persone. Bartimeo è cieco fisicamente, ma sembra che siano altrettanto ciechi spiritualmente coloro che gli stanno attorno anche se ci vedono bene con la vista. Non vedono il povero che cerca di incontrare Gesù e fanno da ulteriore barriera. Lo vedono ma non lo guardano e non lo osservano con attenzione per comprendere la sua fame di Gesù e il suo desiderio di guarigione, e vorrebbero non solo toglierselo dalla loro vista ma anche da quella di Gesù. Nonostante questo Gesù coglie il grido di Bartimeo e invita i suoi discepoli a cambiare il loro sguardo e a non a chiudere gli occhi del cuore.
L’incontro avviene, e Gesù, che ha già visto fin dentro l’anima del cieco, ridona la vista fisica a Bartimeo, che ha dimostrato con il suo coraggio (continuare a gridare nonostante la folla e lasciare il mantello unica sicurezza materiale pur di arrivare in fretta da Gesù) di averci visto bene riguardo il Signore. Bartimeo anche se fisicamente cieco, ha visto in Gesù l’unica sua salvezza. È quindi un vero “gioco di sguardi” quello tra il figlio di Timeo e il Figlio di Dio, che nella cecità spirituale che li circonda, sono capaci di vedersi reciprocamente e profondamente.
“La tua fede ti ha salvato”, gli dice Gesù, e in questa frase, già altre volte usata nelle guarigioni, comprendiamo che la fede è davvero una capacità visiva profonda che ci permette di “vedere” Dio all’opera nella nostra vita, anche nelle situazioni più buie e difficili, ma ci permette anche di cambiare il nostro sguardo tra di noi, nelle relazioni umane.
Siamo infatti capaci di vedere con gli occhi ma ci scopriamo ciechi spiritualmente, perché abbiamo sguardi superficiali che non guardano e non osservano il prossimo, fermandoci alla superficie e al pregiudizio. Vale anche su noi stessi quando pur vedendoci allo specchio vediamo solo i difetti e non osserviamo quello che abbiamo dentro, quello che Dio vede in noi.
L’invocazione di Bartimeo “Rabbunì, che io veda di nuovo!” la facciamo dunque diventare nostra.
Chiediamo al Signore di vedere di nuovo, di guarire dagli sguardi superficiali e giudicanti verso noi stessi e verso il prossimo. Chiediamo di riuscire a vedere di nuovo un fratello e una sorella in chiunque ci passa vicino, e di vedere qualcosa di buono anche in coloro che guardiamo storto e che per qualche motivo e litigio abbiamo deciso di non vedere più. Chiediamo al Signore di vederlo in azione nella nostra vita anche se alla superficie delle cose sembra così invisibile da non esistere. Chiediamo il dono della fede che ci permette lungo la strada di incrociare ogni tanto, in un gioco di sguardi d’amore, Gesù che cammina con noi.
mercoledì 24 ottobre 2018
MIUR e UNICEF . intesa a favore dell'infanzia e dell'adolescenza
MIUR e UNICEF Italia firmano il Protocollo di intesa
24 ottobre 2018 – Il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e l’UNICEF Italia hanno firmato oggi a Roma unProtocollo di intesa della durata di tre anni per realizzare e promuovere in tutte le scuole azioni e attività rivolte al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza.
La firma è avvenuta alla presenza del Direttore generale per lo studente, l’integrazione, la partecipazione e la comunicazione del MIUR Giovanna Boda e del Presidente dell’UNICEF ItaliaFrancesco Samengo.
«Rinnovare l’impegno congiunto del MIUR e dell’UNICEF a favore dei nostri ragazzi rappresenta una grande risorsa per il sistema scolastico» ha sottolineato il Direttore Generale Giovanna Boda. «La scuola è il terreno privilegiato per l’educazione alla pari dignità sociale e la formazione di individui responsabili. Accordi come quello siglato oggi ci consentono di rafforzare gli interventi tesi a dare una maggiore informazione agli studenti sui loro diritti individuali, ma anche e soprattutto a promuovere comportamenti concretamente rispettosi dei principi di inclusione e di prevenzione di tutte le forme di discriminazione e violenza».
«Il Protocollo rappresenta il coronamento di una collaborazione trentennale tra il MIUR e l’UNICEF per promuovere azioni sinergiche per diffondere la cultura dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, operando per la piena attuazione del principio di non discriminazione e la promozione dell’educazione digitale attiva per un uso consapevole delle nuove tecnologie e dei social», ha dichiarato Francesco Samengo, Presidente dell’UNICEF Italia.
«L’UNICEF Italia dal 2010, in collaborazione con il MIUR, promuove il Progetto “Scuola Amica dei bambini e dei ragazzi” che vede aderire annualmente più di 1.200 scuole di ogni ordine e grado. Il progetto è finalizzato ad attivare prassi educative per promuovere la conoscenza e l’attuazione della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza».
Il Protocollo prevede di:
- favorire azioni rivolte al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, con tutti gli attori coinvolti nel processo formativo-educativo della persona di minore età e nella prevenzione della dispersione scolastica;
- sviluppare iniziative culturali, di formazione e qualificazione di soggetti a diverso titolo impegnati professionalmente in attività con minori;
- promuovere percorsi di educazione alla cooperazione internazionale, alla pace, allo sviluppo delle popolazioni del Sud del mondo che vivono in situazioni di guerra e di povertà;
- migliorare l’accoglienza e la qualità delle relazioni, per favorire l’inclusione delle diversità e delle abilità differenti;
- promuovere la partecipazione attiva da parte degli alunni, anche nell’ambito delle attività di prevenzione delle diverse forme di esclusione, discriminazione, bullismo e cyberbullismo, violenza fisica e verbale;
- assicurare l'attuazione dei principi di pari opportunità, promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra le persone.
domenica 21 ottobre 2018
PADRE PUGLISI E LA VITTORIA SULLA "MAFIA ... BUONA"
Gli «esempi»
che hanno dato frutto
SULLA «MAFIA BUONA» UNA VITTORIA CULTURALE
di Giuseppe Pignatone*
La storia della vita e
della morte di padre Puglisi rende un’idea della violenza incombente e
senza limiti di quella condizione di offesa continua alla dignità umana
in cui si viveva a Palermo, e che a padre Puglisi fece dire: «Chi usa
la violenza non è un uomo, si degrada da solo al rango di animale». E di
questa minaccia imminente, di questo rischio della vita tanti erano
consapevoli: persone comuni e persone più esposte per il lavoro che
facevano o il ruolo che ricoprivano. Lo erano Falcone e Borsellino, lo
erano Piersanti Mattarella e Pio La Torre, lo era Padre Puglisi, che si
preoccupò di non esporre a pericolo i suoi amici, quelli che gli erano
stati affidati dal Padre (Gv. 17,8). E di quei rischi erano consapevoli tanti altri che, per un caso o
per un disegno della Provvidenza, non sono stati colpiti dalla violenza
mafiosa.
Riandando con
il pensiero a quegli anni, penso che tanti, tantissimi, hanno cercato di
portare avanti, a Palermo e in Sicilia, una 'normalità impossibile'.
Proprio perché la situazione era questa io credo che sia giusto ripetere
in ogni occasione che noi, cioè lo Stato italiano, abbiamo sconfitto
quella mafia, la Cosa nostra corleonese, la mafia delle stragi, la mafia
che aveva sfidato lo Stato pretendendo di trattare da una posizione di
superiorità. Una sfida che è durata troppo a lungo, costata troppe
vittime e troppi sacrifici, ma che è stata vinta senza leggi
eccezionali, nel rispetto della Costituzione e dei codici. Il delitto di
Brancaccio, insieme alle bombe piazzate proprio dai mafiosi agli ordini
dei Graviano a San Giovanni («cuore della Roma cristiana», secondo la
definizione del cardinale Ruini) e a San Giorgio al Velabro il 27 luglio
1993, rappresentano una intimidazione a tutta la Chiesa e una risposta
alle parole pronunziate da Giovanni Paolo II ad Agrigento poche
settimane prima, il 9 maggio. Queste parole colpirono profondamente i
mafiosi perché denunziavano direttamente una delle ipocrisie chiave
nella falsa rappresentazione che le mafie danno di sé: quella di essere
una vera religione, coerente e compatibile con quella cattolica, ancora
così importante nelle nostre regioni.
Naturalmente la vittoria processuale, se così si può dire, sulla mafia
corleonese è frutto anche di una battaglia culturale che è e che sarà
decisiva per la vittoria su tutte le mafie. E su questo punto cruciale
l’esempio di padre Puglisi rimane di assoluta attualità. Diceva: «Non
dobbiamo tacere, bisogna andare avanti. Ciò che è un diritto non si
deve chiedere come fosse un favore». Parole ancora attuali, e non solo a
Palermo. Mi tornano in mente le parole di Paolo Borsellino che invitava
a parlare comunque, in ogni occasione, della mafia, perché la mafia
cerca il silenzio, il nascondimento, la disinformazione, come si vede in
ogni parte d’Italia.
Quelle di padre Puglisi non erano solo parole vane, ma parole che
generavano effetti inaccettabili per i mafiosi. Naturalmente non era un
illuso. E la sua frase più famosa, «se ognuno fa qualcosa, allora si può
fare molto», segue l’affermazione piena di realismo con cui mette in
guardia i suoi amici: «Le nostre iniziative devono essere un segno. Non è
qualcosa che può trasformare Brancaccio. Questa è un’illusione che non
possiamo permetterci».
A
queste parole di Padre Puglisi io vorrei affiancare quelle di due altri
grandi siciliani. Giovanni Falcone: «Si può sempre fare qualcosa»
dovrebbe essere scritto sullo scranno di ogni magistrato e di ogni
poliziotto. Piersanti Mattarella, in un discorso ai giovani, disse: «Non
vi lamentate se il personale politico della Dc siciliana è mediocre e
impresentabile, perché la responsabilità più grande e più grave è quella
degli onesti e dei capaci che se ne lavano le mani e non si impegnano
per cambiare le cose». Lo storico Andrea Riccardi si chiede se alla fine
per Mattarella, come per Puglisi, non si possa parlare di vite sprecate
per realizzare sogni impossibili. Al di là della risposta della fede –
che riguarda la coscienza di ognuno e che si basa sulla parabola, cara a
padre Puglisi, del chicco di grano che se non cade e marcisce non dà
frutto – anche in una logica laica gli esempi di Mattarella e di padre
Puglisi, uniti a quelli di tanti altri, hanno portato frutto.
Non solo per quella che ho definito la sconfitta processuale della
mafia corleonese, ma anche sul piano – decisivo – della crescita
culturale. Fino a non molto tempo fa 'mafia' non coincideva affatto con
'criminalità'; si poteva essere mafiosi senza sentirsi né essere
considerati delinquenti. Oggi non è più così. Nessuno più oserebbe
parlare di una 'mafia buona' o definire la mafia 'un normale modo di
comportarsi'.
Ecco, io –
che ho vissuto quei tempi in cui tutto questo avveniva – credo che si
tratti di un cambiamento di fondamentale importanza, determinato certo
dalle stragi e dalle migliaia di vittime, ma anche dall’esempio positivo
di tanti, a cominciare naturalmente da quello, eroico fino al martirio,
di padre Pino Puglisi.
*Magistrato, procuratore della Repubblica di Roma
INSEGNANTI E CFU - DIVENTARE INSEGNANTI .... SENZA ESSERE PRESI IN GIRO
La storia sbagliata dei «24 cfu», una modesta proposta
di Roberto Carnero
Non c’è nulla che possa scoraggiare un giovane il quale voglia intraprendere una data professione più
dell’incertezza del percorso per accedervi. E negli ultimi anni non
sembra esserci un mestiere la cui strada sia più incerta di quello
dell’insegnante. Non tanto per il precariato fatto di supplenze, più o
meno lunghe, che da sempre costituisce spesso l’inevitabile gavetta per
poi entrare finalmente in ruolo: perché negli ultimi anni, con i
pensionamenti che ci sono stati e ci saranno, le cattedre vacanti sono
tutt’altro che scarse; la necessità di docenti di sostegno, poi, ha reso
disponibili ulteriori posti.
Il problema riguarda invece un aspetto che potrebbe essere molto
semplice: l’iter formativo, e burocratico, per diventare insegnanti. Il
Governo Gentiloni aveva emanato i decreti attuativi della cosiddetta
legge sulla “buona scuola” (107/2015), che tutta buona alla fine non si è
rivelata. Tra le altre cose si stabiliva che, per accedere al percorso
finalizzato a diventare insegnanti, il “Fit” (formazione iniziale e
tirocinio), i laureati nelle diverse materie dovessero avere ottenuto,
all’interno del proprio piano di studi, 24 crediti formativi
universitari (Cfu), corrispondenti grosso modo a quattro vecchi esami
“annuali”, in psicologia, pedagogia, antropologia e didattica
disciplinare.
Di per sé
era buona l’idea di inserire queste competenze come obbligatorie per
andare a svolgere un lavoro, quello dell’insegnante, sempre più
complesso e delicato per i tanti risvolti non solo culturali, ma anche
psicologici e sociali che esso comporta nella scuola di oggi.
Peccato però che quella richiesta avesse valore retroattivo: si
applicava, cioè, anche a chi si era già laureato prima dell’entrata in
vigore del provvedimento. Così molti laureati (magari anche da diversi
anni) interessati all’insegnamento si sono dovuti iscrivere di nuovo
all’università per sostenere quegli esami che mancavano loro per poter
accedere al concorso. Gli atenei, a loro volta, hanno attivato questi
“corsi d’emergenza”, vista la pressante domanda in vista del bando
concorsuale dato per imminente. Essendomi trovato a insegnare Didattica
dell’italiano in un grande ateneo del Nord, posso testimoniare
direttamente la frustrazione, e talora anche la rabbia, di laureati
giovani e meno giovani, che magari già insegnavano da anni come
supplenti, costretti a tornare sui banchi per ottenere quei crediti
mancanti. Mi sono sempre chiesto come mai i sindacati non abbiamo fatto
le barricate su una cosa simile.
Ora circolano voci per cui il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti
sarebbe intenzionato a modificare la normativa, rendendo i 24 Cfu un
requisito “accessorio”, dunque non obbligatorio, per iscriversi al
concorso per insegnanti. Se ciò è vero, l’intenzione del ministro è
lodevole, poiché si andrebbe a correggere una stortura. Ma bisogna
pensare anche a un altro risvolto, diciamo così, di “pace sociale”. Che
cosa proverebbero coloro che con molta fatica (e sborsando anche i
quattrini delle tasse universitarie) negli ultimi mesi hanno fatto i
salti mortali per ottenere quei benedetti 24 Cfu? Avrebbero
l’impressione di aver fatto una fatica inutile e – sostanzialmente – di
essere stati presi in giro dallo Stato. Che il «Governo del cambiamento»
intenda cambiare ciò che non va, sta bene. Ma bisogna osservare che
quando si continuano a cambiare le carte in tavola, il gioco alla fine
rischia di risultare truccato.
Ci permettiamo perciò di suggerire una soluzione di compromesso, che
possa salvare capra e cavoli. Bene togliere il requisito, almeno per chi
si sia già laureato, dei 24 crediti aggiuntivi. Chi però li ha
sostenuti ha acquisito importanti competenze che ne aumentano la
professionalità. È, questo, un fatto innegabile.
Dunque che tale requisito, per quanto “accessorio”, venga adeguatamente
valorizzato in termini di punteggio, in modo che possa segnare, quanto
alla posizione in graduatoria, una differenza che oggettivamente c’è.
sabato 20 ottobre 2018
Romania: GIOVANI E NUOVE TECNOLOGIE
Milioni di possibilità, poca
libertà
Estratto della conferenza
su giovani e nuove tecnologie nei licei rumeni
Pubblichiamo l’intervento che Marco Brusati,
collaboratore del Dicastero Vaticano per i Laici, la famiglia e la Vita e direttore di Hope, sta tenendo nei licei
di Cluj, Blaj, Oradea e Bucarest in questo mese nell’ambito del
progetto World Youth Hope realizzato con l’Ufficio di Pastorale
Giovanile della diocesi greco-cattolica di Oradea
Oggi abbiamo un’idea ridotta di cosa sia comunicare;
spesso finiamo per credere che comunicare sia mandare un bel selfie per
il gruppo Whatsapp o Snapchat, oppure pubblicare un video
divertente su Musically o Youtube, oppure aprire un profilo
accattivante su Instagram, Facebook, Twitter e via
dicendo. Comunicare è certamente questo, ma è, allo stesso tempo, molto più di
questo.
Partendo da qui, facciamo il primo di cinque passi:
l’atto del comunicare non è fine a se stesso; noi non comunichiamo per
comunicare, ma perché comunicare permette a noi di aprire e vivere le relazioni
con gli altri e permette agli altri di aprire e vivere le relazioni con noi.
“Non possiamo non comunicare” (Paul Watzlawick) perché abbiamo la necessità
vitale di vivere in relazione, iscritta nel nostro DNA. Chi comunica con noi,
pertanto, entra in relazione con noi ed influenza la nostra vita, arrivando a
orientare ciò che pensiamo, capiamo, crediamo.
Facciamo adesso il secondo passo, chiedendoci: oggi,
chi comunica -e quindi entra in relazione- con noi? La risposta è almeno
duplice: sia chi incontriamo personalmente, nel rapporto io-tu (Martin Buber):
amici e coetanei, genitori e adulti, insegnanti, educatori e sacerdoti; sia chi
incontriamo medialmente: artisti, cantanti e attori, bloggers e youtubers,
giornalisti e altri protagonisti dei prodotti mediali, reali o virtualmente
creati. Tuttavia, le relazioni io-tu sono numericamente molto limitate; alcuni
studi (Robin Dunbar), dicono che relazioni personali che contano veramente sono
circa dodici; invece, le relazioni mediali sono milioni e sono tutte mediate da
uno smartphone, potenzialmente attive 24 ore al giorno, 7 giorni su 7.
Facciamo ora il terzo passo: gli smartphone
non sono scatole vuote, ma barattoli pieni di contenuti preparati da persone
che comunicano con noi, entrano in relazione con noi ed influenzano il nostro
modo di vivere; abbiamo detto che sono milioni. Tuttavia, spostando lo sguardo
più a monte possiamo vedere che dietro queste milioni di relazioni mediali, c’è
un ristretto numero di soggetti. Un solo esempio ci fa intuire la portata del discorso:
circa il 75% della musica globale è prodotto da 3 multinazionali (Universal,
Sony, Warner): questo ha prodotto un rovesciamento strutturale in quanto, per
esempio, un cantante non fa successo perché piace, ma piace perché fa successo
e fa successo perché lo vediamo dappertutto e lo vediamo dappertutto perché un
manipolo di persone ha così deciso per ragioni insindacabili. Questo vale per
la musica, ma vale anche per l’informazione, i videogiochi, le fiction, i
prodotti mediali hardware e software. Abbiamo quindi pochissimi
soggetti nel mondo che hanno l’immenso potere di decidere cosa noi dobbiamo
sentire e vedere, andando ad influenzare globalmente cosa bisogna pensare,
credere e, persino, quali emozioni provare.
Facciamo il quarto passo andando a vedere le
conseguenze di questa situazione: mentre pochissime persone, i vostri genitori,
educatori e insegnanti per esempio, vi ribadiscono ogni giorno principi come
“la vita è sacra”, “ama il tuo prossimo”, “la Verità vi farà liberi”, “la
persona non vale per quello che ha”, milioni di persone con cui siamo in
relazione mediale e autorizzate, per così dire, da pochissimi, sostengono che
“la vita non ha senso”, “io vengo prima di tutto”, “la verità non esiste",
“la persona umana è quello che produce e consuma, è il successo che ha”. Siamo,
come possiamo vedere, in pieno scontro tra due visioni antropologiche,
antitetiche tra loro ed i più giovani sono, per così dire, tirati di qua e di
là.
Facciamo il quinto ed ultimo passo andando a vedere
con quali criteri affrontare questa situazione che si è generata soltanto una
decina di anni fa, con l’avvento dei primi smartphone e che ci sta
trovando piuttosto impreparati. Anzitutto occorre vivere le relazioni mediali
come fossero relazioni frontali; ad esempio: a scuola, un giovane non può
invitare impunemente altri a fare uso di droga, mentre concediamo la stessa
cosa ad un cantante sul web senza alcun tipo di critica, piegati al suo
successo; in secondo luogo, occorre imparare a non avere paura di essere soli a
dire “no” e a non dare il nostro consenso solo perché pensiamo che lo facciano
tutti o per timore di rimanere fuori dal gruppo (FOMO, Fear of missing out);
infine, non escludere gli adulti dalla vita mediale, dai genitori agli
insegnanti, dagli educatori ai sacerdoti, sapendo riconosce chi vuole davvero
il vostro bene e non il vostro consenso che, in fin dei conti, è finalizzato a
generare soldi per chi ne beneficia.
In questo lavoro difficile, quotidiano ed eroico,
dobbiamo avere la consapevolezza che la libertà non è acquisita una volta per
tutte, ma va conquistata ogni giorno, in ogni scelta, anche la più piccola ed
apparentemente insignificante come un like.
ALLA RICERCA DI UN POSTO PRIVILEGIATO
XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (21/10/2018)
Vangelo: Mc 10,35-45
35Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». 36Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». 37Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».38Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?».39Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. 40Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
41Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. 42Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. 43Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, 44e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. 45Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Siamo talmente “malati” di umanità - papa Francesco direbbe “mondanità” - che neanche ci rendiamo conto della distanza tra l'umano e il divino, tra i poteri degli uomini e il potere di Dio. La confusione è tale che a Dio chiediamo ogni cosa senza neppure renderci conto di quello che chiediamo. Giacomo e Giovanni chiedono di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra. Come per dire vogliamo essere i tuoi viceministri, condividere il potere in un consesso in cui gli altri non contano. La stessa storia di potere che si ripete da generazioni, anche oggi.
L'equivoco nasce dalla comprensione del potere di Dio: Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato? La domanda dal sapore profetico nasconde la realtà verso cui sta camminando il Signore e verso cui cammineranno anche i suoi apostoli: la Croce. Il Battesimo di cui sta parlando Gesù è la sua umiliazione e l'espulsione dal genere umano con la condanna a morte. Gesù, nella sua vita, non ha mai avuto un atteggiamento di potere, di dominio, o di qualche interesse o ambizione, anzi quando il potere sembrava affacciarsi sulla sua strada ha preferito andare altrove (cfr. Mc 1,35).
Tutta la Scrittura, ed il Vangelo in particolare, è la storia di "perdenti", e a nessun uomo verrebbe in mente di chiedere a Dio “la grazia di perdere”.
Gli altri dieci
Giacomo e Giovanni si erano avvicinati a Gesù con lo scopo di garantirsi un posto, un privilegio, una garanzia per il futuro. La loro richiesta non è diretta, segue un percorso di avvicinamento, prima fisico, poi verbale - «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo» - prima di arrivare al dunque. In questa manovra di avvicinamento al Maestro c'è un progressivo allontanamento dagli altri, una sorta di esclusione, non una attenzione, nessuna fraternità né comunione: il potere tende ad isolare, privilegiare, escludere, allontanare... Certamente i due si erano messi d'accordo, avevano complottato, studiato una strategia, prima ancora di separare e di escludere gli altri si erano separati e esclusi da soli. Forse più che il desiderio di arrivare in alto è stata la paura di perdere, l'incertezza del futuro che li ha mossi.
Dal momento che metti alla porta qualcuno sei tu che ti rendi prigioniero di te stesso... è storia infinita di persone, di gruppi, di sette, di popoli e nazioni.
Allora Gesù li chiamò a sé
Sembra ripetersi la storia di quando Gesù salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui (Mc3,13) per costituire la comunità dei dodici. Gesù “chiama a sé”, chiede una azione di fede verso di lui per ricucire le fratture e ristabilire la comunione, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali (Mt 23,37).
Gesù non rimprovera, non punisce, non si indigna come gli altri dieci, non caccia via nessuno, semplicemente li chiama a sé insegnando prima ancora con l'atteggiamento che con le parole.
Quanto abbiamo ancora da imparare, noi che vorremmo riempire le prigioni e gettare le chiavi, che ci immaginiamo come una società di buoni (senza esserlo) col desiderio di escludere le mele marce incapaci di riconoscere il verme che rosicchia la nostra mela.
Tra voi però non è così
È una affermazione precisa, non una prospettiva o un suggerimento, né una dichiarazione d'intenti: tra voi non è così. Tra voi discepoli, apostoli, tra voi comunità... tra voi chiesa. Non c'è nessun posto comodo, nessuna sede di potere, nessuna posizione di prestigio. Due sono le parole che caratterizzano le relazioni tra cristiani: diakonos (colui che serve, servitore) e doulos (servo, schiavo). Nella Chiesa non c'è esercizio di potere anche se non mancano manifestazioni di peccato, piuttosto un servizio di autorità che scaturisce dalla testimonianza di vita di chi l'esercita; come Gesù che stupiva egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi (Mc 1, 22).
Roberto Benigni, nella scenografia de “La vita è bella”, afferma: Guarda i girasoli: s'inchinano al sole, ma se vedi uno che è inchinato un po' troppo significa che è morto. Tu stai servendo, però non sei un servo. Servire è l'arte suprema. Dio è il primo servitore; Lui serve gli uomini, ma non è servo degli uomini.
https://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=44164
venerdì 19 ottobre 2018
CRISTO SI E' FERMATO A LODI
Siamo davanti all’inaugurazione di una politica che, sotto i pretesti più vari e in nome del fatidico «Prima gli Italiani!», è destinata, a livello nazionale come a quello degli enti locali, a moltiplicare episodi come quello di Lodi.
di Giuseppe Savagnone
Probabilmente il caso di Lodi verrà ricordato nei libri
di storia come il primo episodio esplicito e conclamato di discriminazione
etnica in Italia, dopo la fine del fascismo. Vale perciò la pena di ricordarne
brevemente i termini.
Tutto
ha inizio nell’estate del 2017, quando la sindaca Sara Casanova – appena eletta
con la Lega – firma una delibera che modifica le regole per beneficiare, nelle
scuole cittadine, delle tariffe agevolate per la mensa scolastica e per lo
scuolabus. Fino a quel momento i requisiti per goderne erano stabiliti in base
all’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE), un indice che in estrema sintesi serve
a stabilire la ricchezza di una famiglia. Per l’anno scolastico 2018-2019,
quello iniziato poche settimane fa, la delibera prevede che i genitori nati
fuori dall’Unione Europea debbano invece presentare una ulteriore
documentazione, che attesti la loro nullatenenza nel paese di origine. Si noti
che i bambini coinvolti – fra i due e i trecento – sono quasi tutti nati in
Italia, mentre le loro famiglie ci sono per lo più arrivate con i mezzi di
fortuna che conosciamo, fuggendo dai loro paesi e magari rischiando la vita
nelle acque del Mediterraneo.
È
appena il caso di dire che per questi genitori produrre la documentazione
richiesta dal Comune è stato più impossibile che difficile. Da qui l’esclusione
dei loro figli dalla lista degli aventi diritto alla mensa e all’autobus
gratuiti e l’obbligo, per fruirne, di versare 5 euro a pasto per il primo
servizio, 210 euro al trimestre per il secondo. E poiché le famiglie in
questione non sono in grado di pagare simili cifre, per quanto non
astronomiche, i bambini hanno dovuto essere accompagnati a scuola dai genitori,
che sono stati anche costretti a riprenderli all’ora di pranzo per farli
mangiare a casa. Mentre i figli degli italiani viaggiavano e mangiavano alla
mensa gratis. Anche lo yogurt fornito a merenda durante a ricreazione è stato
dato solo ai “cittadini”. Dimenticavo: due scuole hanno permesso
eccezionalmente ai bambini di portarsi il cibo da casa, però mangiando in aule
separate dalla mensa comune.
Un
incidente, dovuto alla mancanza di misura e alla sprovvedutezza di una singola
persona? Non sembra. Lo dimostrano inequivocabilmente gli sviluppi che la
vicenda ha avuto quando la stampa ne ha dato notizia. Per la verità, il
presidente della Camera, Roberto Fico, leader della sinistra dei 5stelle,
appreso l’accaduto, ha stigmatizzato la decisione della sindaca leghista e
proposto un’immediata soluzione: «Bisogna chiedere scusa ai bambini e farli
tornare a mensa». Ma Fico non fa parte del governo ed è a quest’ultimo, non al
presidente della Camera, che tocca stabilire gli indirizzi politici che
l’Italia seguirà nel prossimo futuro. Lo ha ricordato, con parole sprezzanti,
il capogruppo leghista di Montecitorio, Ricardo Molinari. E lo ha ribadito, con
altrettanta asprezza, il vicepremier e ministro degli Interni Matteo Salvini:
«Faccia il presidente della Camera!», annunciando al contempo una sua visita a
Lodi per esprimere alla sindaca la sua piena solidarietà.
Per
chi ha seguito in questi primi mesi l’attività del governo e ne ha potuto
constatare le dinamiche interne, il pronunciamento di Salvini assume un
significato particolare. Da quando il “governo del cambiamento” è andato al
potere, il segretario della Lega parla a nome del premier e degli altri
ministri, prendendo perentoriamente posizione sulle questioni più varie, dai
rapporti con gli altri Stati ai problemi della scuola, dai vaccini alla riforma
fiscale. Il suo appoggio alla sindaca di Lodi – la cui delibera, del resto, è
coerente con quanto la Lega da molti anni proclama, e che ora è in grado
finalmente di realizzare – lascia dunque intravedere un progetto destinato a
imporsi, in questo come in tanti altri casi, sui remissivi alleati 5stelle.
Siamo davanti, insomma, all’inaugurazione di una politica
che, sotto i pretesti più vari e in nome del fatidico «Prima gli Italiani!», è
destinata, a livello nazionale come a quello degli enti locali, a moltiplicare
episodi come quello di Lodi. Non risulta che gli indici di gradimento di
Salvini, prossimi al 60% degli italiani, abbiano avuto delle significative
flessioni, in seguito a questo episodio. Possiamo dunque supporre che il numero
delle persone definibili con la formula «Io, per carità, non sono razzista,
ma…» sia molto cresciuto dal tempo delle elezioni e sia ormai tale da
assicurare alla Lega e al suo leader un radioso futuro.
Tuttavia,
le cronache segnalano che, in questa occasione, si sono verificati due fatti,
anch’essi emblematici. Uno è stato che il Coordinamento Uguali Doveri di Lodi,
venuto a conoscenza della situazione, ha lanciato una campagna di raccolta
fondi per pagare i buoni pasto dei bambini esclusi. E con risultati sorprendenti:
in poche ore sono stati accreditati sul conto dedicato più di 60mila euro.
L’altro, che un dirigente scolastico, da poco trasferito a Lodi dal quartiere
palermitano di Brancaccio, dove aveva prestato servizio l’anno scorso, ha
deciso di disobbedire alla delibera e di ammettere egualmente tutti i bambini
alla mensa.
Siamo dunque di fronte al delinearsi di due Italie
diverse e contrapposte, quella dei «Io non sono razzista, ma…» e quella dei «Io
non sono razzista, perciò…».
La
contrapposizione non è tra “cattivi” e “buoni”. I primi quando tornano a casa
accarezzano i propri bambini, come i secondi, e raccomandano loro di essere
buoni; i secondi conoscono ovviamente anche loro, in famiglia, sul lavoro,
nella vita di ogni giorno, comportamenti sbagliati e contraddizioni. Non serve
a molto, per capire cosa sta succedendo, demonizzare gli uni come “razzisti” o
deridere i secondi come “buonisti”. Prendiamo atto che siamo davanti al
delinearsi di due diverse visioni della persona e della/e comunità degli
uomini, che stanno dividendo l’Italia come forse non era accaduto da molto
tempo a questa parte.
Quello
che non sono disposto a concedere è che esse siano entrambe compatibili col
cristianesimo. Salvini ha il pieno diritto di ricordare il suo essere un padre
affettuoso, ma non di appellarsi al Vangelo, rivendicando il merito di
difendere l’identità cristiana del nostro Paese di fronte all’invasione
dell’Islam. Non c’è visione più lontana dal messaggio di Gesù di quella che
discrimina gli esseri umani in base a criteri etnici, giuridici o religiosi. La
parabola del buon samaritano, altrimenti, andrebbe riscritta. All’odiato
straniero il soccorritore dovrebbe dire, nella nuova stesura: «Prima i
samaritani», e passare oltre. E Gesù, se si fosse messo nei panni della sindaca
leghista di Lodi, oggi dovrebbe esortare i discepoli, che vogliono liberarlo
dalla pressione dei bambini: «Lasciate che i piccoli – ma solo gli italiani –
vengano a me». Tanti anni fa, Carlo Levi scrisse un romanzo per descrivere
l’arretratezza del Sud, intitolato «Cristo si è fermato ad Eboli». Oggi Cristo
sembra essere stato bloccato molto più a nord.
Pubblicato in www.tuttavia.eu
ANTISEMITISMO, DALLE ORIGINI AI NOSTRI GIORNI. UN CORSO PER GLI INSEGNANTI
Lo Yad Vashem,
l’Ente Nazionale per la Memoria della Shoah di Israele, ha lanciato un nuovo
corso online gratuito sull’Antisemitismo, dalle sue origini fino
ai giorni nostri.
Il corso, della
durata di 6 settimane (richiederebbe circa tre ore di studio settimanale), è
adatto a chi è interessato alla storia, alle dinamiche sociali e alla natura
umana, oltre ad essere ovviamente interessato al fenomeno
dell’antisemitismo.
Il corso sarà
suddiviso in moduli che esploreranno i diversi aspetti dell’antisemitismo.
Partendo dalla percezione dell’ "altro" nel mondo greco-romano, il corso
esplorerà come l’avvento del cristianesimo ha segnato la storia
dell’antisemitismo e come durante il Medioevo si sia sviluppato l’antigiudaismo,
diverso dall’antisemitismo. Dopo aver spiegato come le ideologie e le
rivoluzioni dell’era moderna hanno influenzato lo sviluppo dell’antisemitismo,
il corso si concentrerà sull’ideologia nazista e sull’Olocausto e su come
l’antisemitismo sia percepito negli ambienti di estrema destra e di estrema
sinistra. Infine, il corso tratterà il fenomeno del negazionismo dell’Olocausto,
dell’anti-sionismo e dei casi più recenti di antisemitismo nel mondo islamico e
arabo e dell’odio online.
Rilevando alcuni
aspetti del comportamento umano (come la tendenza alla creazione del capro
espiatorio, l’avidità e il risentimento) e il ruolo che questi giocano nelle
relazioni sociali e politiche, questo corso vuole evidenziare i pericoli del
pregiudizio, della discriminazione e della disumanizzazione, oltre ad
approfondire e a stimolare la riflessione su temi di attualità come le ideologie
estremiste, la propaganda, l’abuso del potere e l’odio e la violenza di
gruppo.
Conoscere a fondo
l’antisemitismo, saperne identificare le diverse forme e caratteristiche, è di
estrema importanza per comprendere quanto ogni società sia fragile e capire che
le istituzioni – solitamente intese a proteggere e a garantire la sicurezza ed i
diritti di tutti – possono a volte rivolgersi contro una particolare categoria
della società.
Il corso è
disponibile gratuitamente sin da ora al seguente link:
https://www.futurelearn.com/courses/antisemitism/2
https://www.futurelearn.com/courses/antisemitism/2
giovedì 18 ottobre 2018
mercoledì 17 ottobre 2018
MIGRANTI E SCUOLA . IL TAVOLO SALTAMURI PER UNA EDUCAZIONE "SCONFINATA"
E' questo il nome di un tavolo interassociativo che si vuole occupare di Migranti e scuola, nato da circa due mesi su proposta di Franco Lorenzoni e a cui hanno già aderito moltissime associazioni del mondo della scuola
ma anche del sociale tra cui l'AIMC.
Il nome che si è dato il tavolo (hanno già fatto due incontri e un terzo sarà nei prossimi giorni) è SALTAMURI: EDUCAZIONE SCONFINATA PER L'INFANZIA, I DIRITTI, L'UMANITA' e ha lanciato un Manifesto Pedagogico che trovate in fondo che presenta gli obiettivi che si pone e le azioni che intende svolgere. Innanzitutto intende raccogliere le iniziative che sono già in atto in molte delle nostre scuole, ma anche a proporre iniziative di formazione, di convegni, di eventi che approfondiscano questa tematica in quanto la scuola, soprattutto oggi, può costituire un'occasione di promozione e di coesione sociale.
Noi come AIMC Piemonte abbiamo aderito all'interno del Forum Regionale per l'educazione e la scuola, ad esso dedicherà la prossimo conferenza Regionale e invitiamo i territori a fare iniziative ad hoc. Suggeriamo e che il livello Nazionale si faccia carico di raccogliere tutte le belle esperienze che sapremo fare per portarle al tavolo che si è impegnato a fare da cassa di risonanza.
martedì 16 ottobre 2018
EDUCAZIONE FISICA NELLA SCUOLA PRIMARIA
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Per introdurre l’educazione motoria nelle scuole primarie “serviranno 12mila nuovi docenti e un concorso ad hoc”, ma l’attività fisica si svolgerà il pomeriggio e durante le vacanze, quindi oltre all’attività didattica curricolare attuale: l’annuncio è del ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, che arriva parallelo alle richieste fatte in Parlamento per lo stanziamento dei fondi necessari a tradurre in legge i diversi ddl presentati.
L’annuncio via Facebook
Le intenzioni del titolare del Miur, che non a caso ha un passato come docente di educazione fisica, arrivano il 13 ottobre attraverso il suo profilo Facebook, nel giorno dalla visita dello stesso Bussetti a Trento, per la prima edizione del Festival dello Sport.
“Sono stato invitato – dice il ministro – per parlare di come la scuola possa formare i nostri giovani sul piano individuale e collettivo. Ne parlo, prima che da Ministro, da ex sportivo e insegnante laureato in scienze motorie”.
Poi aggiunge: “L’attività sportiva insegna la disciplina, il controllo del corpo, il rispetto delle regole e delle autorità, il senso di responsabilità e la capacità di fare squadra – tutti elementi che concorrono alla formazione di un cittadino consapevole. Ne sono convinto”.
“Serviranno 12 mila nuovi docenti e un concorso ad hoc”
“Ho avuto modo di dirlo in altre occasioni e lo ripeterò anche qui oggi: l’obiettivo del Ministero – aggiunge Bussetti – è inserire insegnanti specializzati nella primaria, ossia dei veri maestri di educazione fisica, e consentire alle scuole, il pomeriggio e durante le vacanze, di diventare centri sportivi scolastici. Serviranno 12 mila nuovi docenti e un concorso ad hoc. Occorre inoltre continuare a sostenere il percorso degli studenti-atleti, un valore per la società: per questo ho voluto personalmente rinnovare e potenziare la sperimentazione in atto con il CONI”.
“Abbiamo il dovere di ridare allo sport la giusta dimensione nell’ambito della formazione dell’individuo: per chi ha a cuore la formazione umana dei nostri ragazzi, questa è una delle prossime sfida”, conclude il responsabile del Miur.
Fonte: Tecnica della Scuola
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