sabato 30 luglio 2022

SEI FATTO PER VOLARE


 Cammina verso l’alto. 

“Cammina verso l’alto. La tua vocazione é tendere verso l’alto, senza lasciarti trascinare in basso da chi vuol farti credere che sia meglio pensare solo a te stesso e usare il tempo che hai unicamente per il tuo svago e i tuoi interessi.

Amico, non sei fatto per vivacchiare, per passare le giornate bilanciando doveri e piaceri, sei fatto per librarti verso l’alto, verso i desideri più veri e belli che porti nel cuore, verso Dio da amare e il prossimo da servire.

Non pensare che i grandi sogni della vita siano cieli irraggiungibili.

Sei fatto per spiccare il volo, per abbracciare il coraggio della verità e promuovere la bellezza della giustizia, per “elevare la tua tempra morale, essere compassionevole, servire gli altri e costruire relazioni. per seminare pace e cura dove ti trovi; per accendere l’entusiasmo di chi ti vive accanto; per andare oltre, non per livellare tutto quanto”.

 Papa Francesco - 29 luglio 2022



UN GESTO, UN MESSAGGIO

IL PAPA IN CANADA'

La prossimità del Papa, specie negli incontri con le popolazioni indigene, è stato il segno distintivo del viaggio apostolico in Canada. Tanti i gesti che hanno sottolineato la dimensione penitenziale e di riconciliazione che Francesco ha voluto dare alla visita in terra canadese.

 

- di Alessandro Gisotti

 

“Un efficace processo di risanamento richiede azioni concrete”. Francesco lo aveva sottolineato concludendo il discorso alle delegazioni dei popoli indigeni del Canada, ricevute in Vaticano, la scorsa primavera. Il viaggio in terra canadese, affrontato con gioia dal Papa nonostante le difficoltà di deambulazione, si è contraddistinto proprio per quelle “azioni concrete” che sono i gesti. Atti che hanno preceduto o accompagnato le parole pronunciate dal Pontefice nel grande Stato nord-americano e, in particolare, i suoi richiami alla giustizia e al perdono come premessa di un autentico cammino di riconciliazione. In un qualche modo, si può affermare che il viaggio stesso sia stato un’azione concreta “dall’impatto enorme”, per riprendere l’affermazione del premier Justin Trudeau. Anche i giornali canadesi hanno pubblicato in questi giorni sulle loro prime pagine grandi foto che immortalavano tali gesti così significativi. Del resto, passati solo pochi minuti dall’arrivo a Edmonton, prima tappa della visita, il Papa aveva già compiuto un gesto tanto semplice quanto efficace per dare sostanza alla definizione “pellegrinaggio penitenziale” da lui indicata per questo viaggio apostolico: baciare la mano di un’anziana signora indigena, durante la cerimonia di accoglienza in aeroporto.

Ogni viaggio papale si può (anche) raccontare per immagini. Ciò vale forse ancora di più questa volta, tanto è stato forte il valore simbolico degli eventi e degli incontri a partire da quello di lunedì scorso a Maskwacis, che ha avuto un suo ideale raccordo con quello conclusivo a Iqaluit, con i giovani e gli anziani del popolo Inuit. Il Papa che, sulla carrozzina, prega silenziosamente nel cimitero della comunità di Ermineskin. Il Papa che bacia lo striscione rosso con impressi i nomi dei bambini morti nelle scuole residenziali e poi in piedi, senza l’ausilio del bastone, sta davanti al capo indigeno “Aquila dorata” che gli pone sulla testa un copricapo segno di rispetto e riconoscimento di autorevolezza. Ancora, quel gesto di riconsegna dei mocassini rossi, simbolo del dolore di tanti ragazzi indigeni, che gli erano stati donati in Vaticano quattro mesi fa. Particolarmente evocativa l’immagine di Francesco assorto in meditazione sulle rive del Lac Ste. Anne, un luogo che unisce nella devozione popoli indigeni e fedeli cattolici. Un’istantanea dal sapore evangelico che ci riporta alle sorgenti della fede e che, come ha poi sottolineato nell’omelia, ci fa immaginare un altro lago, a migliaia di chilometri di distanza, quello di Galilea inscindibilmente legato alla vita e alla predicazione di Gesù.

 Anche un gesto “ordinario” come la benedizione di un’immagine sacra qui assume un valore “straordinario”. Quando il Papa, nella chiesa del Sacro Cuore dei Primi Popoli, benedice la statua di Kateri Tekakwitha, la prima indigena nord-americana ad essere proclamata Santa, ci sta infatti dicendo che il lievito del Vangelo può, anzi deve, crescere e fecondare i popoli che incontra senza annullarne l’identità e il patrimonio culturale e spirituale, perché la fede si annuncia non si impone. C’è poi un gesto che non ha fatto i titoli dei giornali ma che dà testimonianza non solo del senso profondo di questo viaggio, ma di una delle direttrici portanti del ministero petrino: “la rivoluzione della tenerezza”. Giovedì, al termine della Messa nel Santuario di Sant’Anna di Beaupré, una mamma ha portato al Papa per farlo benedire il suo bambino, affetto da una grave malformazione. Un momento di grande dolcezza con il Papa che, non solo ha benedetto il bimbo, ma lo ha pure tenuto in braccio accanto alla madre. Anche in questa circostanza, come in tante altre durante il viaggio, la sedia a rotelle non ha ostacolato la prossimità alla gente. Anzi, questa condizione di fragilità ha reso - se possibile - ancora più vicino il Papa a quanti soffrono.

Francesco non è mai rimasto distante dal dolore delle persone che ha incontrato. Per ascoltare, ascoltare con il cuore - ci ha testimoniato tante volte - bisogna stare vicino al prossimo. Un atteggiamento che si è visto molto bene nell’incontro di ieri con gli ex alunni della scuola residenziale di Iqaluit, “ai confini del mondo”. Francesco si è seduto in mezzo a loro in una fila di sedie a forma di cerchio, ponendosi dunque “alla pari”. Arrivato fino a soli trecento chilometri dal Circolo Polare Artico, ha così ribadito concretamente con questo gesto che il pastore deve avere l’odore delle pecore, soprattutto di quelle più lontane e ferite.

Un viaggio quindi che ha visto intrecciarsi armonicamente - come i fili delle fasce colorate delle vesti degli indigeni - gesti e parole, discorsi e azioni concrete. Il gesto, parafrasando il noto mass-mediologo Marshall McLuhan (canadese e cattolico), si è così fatto messaggio. Un messaggio di amore e di riconciliazione.

 

Vatican News

 

 

 

LA STOLTEZZA DELLA CUPIDIGIA


  •  “E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».  (Lc 12, 13-21)

Commento al Vangelo del 31 luglio 2022  - don Oreste Bensi

(XVIII Domenica del Tempo Ordinario- Anno C)

La ricchezza, per natura sua, rende la persona arrogante. Perché la rende arrogante? Perché la pone fuori, “fuori serie”, quindi per natura sua è arrogante!

Il valore della persona non viene dato dai beni posseduti. Il modo di ragionare degli uomini, che definisce il valore della persona a seconda dei possedimenti che ha, in base alla potenza economica o politica che possiede, è sbagliato. Il valore nell’uomo è nell’intimo del suo essere, creato ad immagine e somiglianza di Dio. Il valore nell’uomo è tanto più grande quanto più la sua vita è conforme alla sua vera identità. La via da seguire per risolvere le questioni finanziarie familiari, e non solo quelle, è di tenersi lontani da ogni cupidigia. Lo scopo nella vita è arricchire davanti a Dio, cioè di essere ricchi della sapienza di Dio, e non accumulare tesori per sé.

Il mondo di Dio è un mondo completamente a rovescio rispetto al nostro: quello che è sapienza umana è stoltezza agli occhi di Dio, quello che invece è stoltezza agli occhi degli uomini è sapienza agli occhi di Dio (vedi 1 Cor 1,25). Davvero non rimane altro che questo: «Signore, sono nelle tue mani!».

Sempre News



IN CAMMINO VERSO LE ELEZIONI


Una politica che

 si identifica con le persone

 

- di Giuseppe Savagnone*

 

La campagna elettorale procede, in questi giorni, sull’onda di piccoli e grandi scontri tra fronti opposti e, all’interno di essi, tra partiti alleati. L’ultimo è quello relativo alla presunta influenza della Russia sulla caduta del governo Draghi, che vede la Lega sotto attacco da parte del PD e sostenuta da Fratelli d’Italia e Forza Italia.

Ma anche nei confini del centro-destra si sono appena risolti i dissidi sui rapporti di potere, legati alla scelta del futuro premier, e nel centro-sinistra non sono stati ancora definiti i confini dell’ex “campo largo”, ribattezzato “campo aperto”. Per non parlare dei 5Stelle, attaccati da tutti e divisi al loro interno.

In questa ridda di voci dissonanti, la sola cosa che manca, da tutte le parti, è un progetto politico da proporre agli elettori e su cui gli italiani siano chiamati a scegliere il proprio futuro. I programmi sembrano essere l’ultimo problema dei partiti.

In primo piano sono le persone dei rispettivi leader. Non è una novità. Tutta la storia della Seconda Repubblica è stata dominata dalla figura di Berlusconi. Impossibile parlare della sua politica a prescindere dalla sua vicenda personale di imprenditore, più precisamente di fondatore in Italia di quella televisione commerciale che ha rivoluzionato la vita degli italiani sostituendosi alla TV “pedagogica” di Bernabei e dei tempi della Democrazia cristiana.

Prima ancora di essere un importante uomo politico – suo il governo più duraturo della Seconda Repubblica – Berlusconi è stato, in un certo senso, un educatore (non è questa la sede per giudicare se in senso positivo o negativo), il cui influsso culturale per il nostro Paese è stato decisivo nel passaggio dalla fine del Novecento al nuovo millennio.

Da una programmazione che in prima serata trasmetteva i drammi di Pirandello o di Claudel e gli sceneggiati tratti dai grandi romanzi della letteratura mondiale, con le sue televisioni si è passati a una fondata sulla pubblicità e quindi necessariamente legata alla domanda della maggior parte degli spettatori, tendenzialmente propensa ad altri generi.  E il movimento è stato così inarrestabile che la stessa televisione pubblica alla fine ha dovuto adeguarsi. Lo stesso Berlusconi è stato in qualche modo la proiezione dei sogni di tanti che, frustrati spesso da una vita mediocre, hanno visto in lui l’immagine ideale dell’uomo di successo. Tutto questo è rifluito sulla sua folgorante carriera di politico che, dal nulla, ha dato vita a un partito – Forza Italia – capace nel giro di pochissimo tempo di andare al governo.

Più che di programmi scritti a tavolino, le sue scelte politiche sono sempre state espressione immediata della sua inventiva e del suo fiuto nel cogliere le situazioni. E i suoi nemici più che combattere le sue idee, hanno attaccato la sua persona. Perfino la sua vita privata più intima è diventata oggetto di discussione pubblica.

Come rilevanza pubblica hanno avuto i numerosi processi che gli sono stati intentati – dando origine alla sua convinzione di essere perseguitato dalla magistratura – , e uno dei quali gli è costata una condanna definitiva, senza per questo bloccare la sua carriera politica, proseguita fino ad oggi.

Il declino delle idee e il primato dell’economia

Ma Berlusconi è stato solo l’emblema di una stagione politica in cui il declino delle ideologie ha corrisposto anche a quello delle idee. Il grande scontro che aveva dominato il Novecento e che aveva visto contrapposte la visione liberale, quella della destra totalitaria e quella comunista, si è progressivamente svuotato di senso, nella seconda metà del secolo scorso, con la sconfitta militare del nazi-fascismo e il crollo economico dell’Unione Sovietica. 

Il solo protagonista rimasto in campo, il neocapitalismo, ha potuto farsi scambiare per l’unica soluzione possibile, malgrado le isolate e inascoltate proteste di qualche papa, come Giovanni Paolo II («Centesimus annus») e Francesco («Laudato si’»).

Questo nuovo quadro internazionale ha prodotto i suoi effetti anche in Italia. Non ci sono stati più progetti di grande respiro, in grado di far intravedere una società diversa. Lo scontro tra i partiti è avvenuto nel clima rissoso dei talk show televisivi o nei linciaggi mediatici su Facebook. E le scelte si sono fatte prevalentemente in base a stati d’animo polarizzati da individui – Renzi, Grillo, Salvini, oggi la Meloni – le cui immagini sono state enfatizzate dai giornali, dalle televisioni e da Internet, dando pochissimo spazio ai contenuti delle loro proposte politiche.

Il terreno ideale per un populismo che disprezzava gli intellettuali e che, come anche i fatti hanno ampiamente dimostrato, non aveva molto chiare neppure le idee. A riempire il vuoto politico, in questi ultimi anni, è stata l’economia. Sono stati i parametri stabiliti a Maastricht, e più in generale le linee stabilite dall’Unione Europea, a fornire ai nostri governi le piste obbligate su cui procedere. Non è un caso che il nostro più solido e apprezzato esempio di governante sia stato Draghi, un banchiere. Anche se ci si dovrebbe ricordare che l’economia riguarda i mezzi e non i fini, e che questi ultimi dovrebbero essere stabiliti dalla politica. Salvo a essere di fatto perseguiti occultamente, senza passare al vaglio del giudizio popolare, come vorrebbe una democrazia degna di questo nome.

Il risultato di questo meccanismo economico sganciato da una reale progettualità politica e affidato alla logica degli interessi privati è sotto i nostri occhi. L’ultimo rapporto Istat denuncia la presenza, in Italia, di più 5milioni e mezzo di persone in condizioni di povertà assoluta. E già in precedenza era segnalato un progressivo approfondirsi del divario tra ricchi e poveri. I 4o italiani più ricchi possiedono oggi l’equivalente della ricchezza netta del 30% degli italiani più poveri.

I partiti di fronte alla scadenza elettorale

Questa carenza di progettualità propriamente politica si risente pesantemente alla vigilia delle imminenti elezioni. Che cosa propongono in realtà i partiti per convincere gli elettori a preferirli? Da tempo la sinistra, orfana del marxismo, è tutta presa dalle sue battaglia per i diritti individuali e sembra aver rinunziato a proporre un’alternativa, radicale o anche moderata, alla prospettiva liberale e al sistema capitalistico.

Il fatto stesso che il PD si rifaccia in modo esclusivo all’“Agenda Draghi”, pur essendo comprensibile, data la gravità della congiuntura economica, è un segno evidente di questa rinunzia. Non meno vaghe sembrano le proposte dei 5Stelle, partiti con una grande carica innovatrice, ma attualmente incapaci, sembrerebbe, di proporre serie riforme del sistema.

A meno che non si voglia considerare tale il reddito di cittadinanza, che, secondo l’ultimo rapporto Istat, è senz’altro servito a limitare l’impoverimento della popolazione, ma non è certo un correttivo strutturale ai meccanismi che lo producono. Quanto alla destra, anch’essa appare, alla vigilia di queste elezioni, ossessionata da un problema settoriale – quello delle migrazioni – che, per quanto importante, non può sostituire un orizzonte progettuale globale. Da parte sua, la Meloni sembra per ora soprattutto preoccupata di dimostrare, ripetendolo a ogni pie’ sospinto, di non voler rompere con la tradizionale fedeltà all’atlantismo dell’Italia. In mancanza di una proposta d’insieme chiara, la politica estera diventa l’unico punto di riferimento. Ma non basta certo a dire qual è il suo progetto politico complessivo.

La probabile ascesa al governo della leader di Fratelli d’Italia rischia così di assomigliare a un uovo di Pasqua, in cui solo alla fine salta fuori la sorpresa. Ma siamo sicuri che sia questo il corretto funzionamento di una democrazia? Nessuna meraviglia che un numero crescente di italiani si sia stancato di una politica ridotta a questo show senza contenuto.

Dopo gli anni della Prima Repubblica, in cui l’astensionismo era rimasto entro limiti molto contenuti, passando dal 7,1% nel 1968 al  7,4% nel 1996 (0,3 in più in quasi trentanni), esso ha avuto un’impennata nella Seconda, arrivando al 27% nel 2018 (20 punti in più nel giro di poco più di vent’anni!).

No, non è questa la democrazia. Vogliamo sapere che cosa il nostro voto produrrà. Che uso verrà fatto, a lunga scadenza, dei soldi dell’UE, non solo per rattoppare i buchi, ma per dare un orientamento al nostro Paese (e questo l’agenda Draghi non può dirlo). Che cosa intende fare la Meloni se davvero si realizza il suo sogno di prendere il potere.

È ora che gli interessati diano queste risposte. Non ci bastano le loro facce sorridenti sui manifesti elettorali. Il Paese ha diritto di conoscere i loro programmi e di sapere che essi si impegnano a rispettarli. Perché queste elezioni non siano come un uovo di Pasqua.

 

* Pastorale della Cultura, Diocesi di Palermo

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venerdì 29 luglio 2022

DOMINIUM TERRAE

 La sfida ambientale è dunque innanzitutto una sfida spirituale, ma anche una sfida educativa. Bisogna infatti tornare alla sobrietà come valore inseparabile della solidarietà e opporsi alla logica dello sfrenato consumismo, rieducando noi e i nostri giovani ad uno stile di vita in cui “meno è di più”, rendendoci così di nuovo capaci di gustare le piccole cose e di godere della vita.

 

-di Sabrina Corsello

 La ricerca di un giusto rapporto tra uomo e natura è una delle domande che da sempre ha accompagnato l’uomo nel suo cammino e dalla cui risposta dipende, infine, il nostro modo di abitare questo nostro meraviglioso pianeta. Sul tema sono stati versati fiumi di inchiostro, ma in sintesi possiamo dire che la difficoltà di riuscire a dare una risposta definitiva a questa domanda nasce dalla difficoltà di definire l’uomo all’interno della dicotomia natura-artificio.

È chiaro infatti che, per quanto artificio si intenda tutto ciò di cui l’uomo è artefice e che deriva dall’uso dell’arte, tuttavia da ciò non segue che l’essere umano sia esso stesso artificio. Esiste infatti una realtà che, benché sia trasformabile da parte dell’uomo, tuttavia non è da lui prodotta. Ed è proprio all’interno di questa realtà modificabile, ma non prodotta dalla mano umana, che l’uomo stesso si colloca. La posizione occupata dall’uomo è dunque quella a metà strada tra natura e artificio.

Da un lato vi è l’idea che vi sia una natura governata da leggi naturali universali che operano su tutti gli esseri viventi, uomo incluso, dall’altra vi è un uomo che ritiene, ogni giorno sempre di più, di poter fare a meno di queste leggi, vittima di un’illusione di onnipotenza che lo porta a pensare che non possa e non debba esserci alcun limite al suo potere di azione. Oggi sembra che la natura stessa si stia ribellando in varie forme a questo strapotere e che l’uomo stesso ne stia pagando le spese.

Disastri ambientali, emergenze climatiche, pandemie sembrano i segnali sempre più chiari ed evidenti di una natura che si ribella e grida all’uomo che non può più ignorare le sue leggi. Che sia finalmente arrivato il momento di comprendere che non possiamo più considerare la natura come separata da noi, come se fosse la mera cornice estetica delle nostre vite? Forse, finalmente, a caro prezzo, l’umanità sta iniziando a comprendere che la salvaguardia della natura è garanzia di salvaguardia di se stessa.

Ma come è stata possibile una simile strumentalizzazione della natura da parte dell’uomo? L’epoca moderna, dal Rinascimento in poi, è stata caratterizzata da un antropocentrismo la cui elaborazione ha finito con il legittimare un uso strumentale ed utilitaristico delle risorse naturali. A questo si è anche aggiunta una interpretazione distorta del tema biblico del dominium terrae, per la quale l’uomo sarebbe il padrone assoluto e incontrastato del creato cui ogni creatura sarebbe sottomessa.

Uno dei passi più discussi lo troviamo in Gen 1, 26-29, in cui si legge che Dio, dopo aver creato l’uomo a sua immagine, gli ordina di soggiogare e dominare sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni altro essere vivente. Purtroppo, tali versetti non sempre sono stati letti assieme a quelli seguenti che troviamo in Gen.2,15, nei quali Dio, pone l’uomo nel giardino di Eden perché lo coltivi e lo custodisca.

Il coltivare e il custodire rimandano dunque all’idea del custode e del lavoratore e dunque di un uomo che, in tal modo, si rende partecipe dell’opera della creazione, portando a compimento quella creaturalità (ricordiamo che creaturus è un participio futuro) che non è mai da intendersi come un dato di fatto, ma come un compito tutto da assolvere.

L’uomo così, pur essendo già creato ad immagine e somiglianza di Dio, diviene creatura attraverso la sua stessa opera. Il dominio dell’uomo, ben lungi dunque dal potersi intendere come attribuzione di un potere assoluto su tutto il resto degli esseri viventi, è una vera e propria chiamata alla responsabilità di quell’essere vivente che, in quanto dotato di ragione, è l’unico in grado di “rispondere” e di aderire alle leggi della natura in modo consapevole. Come ci ha spiegato Tommaso d’Aquino, mentre la legge naturale opera su tutti gli esseri viventi in modo irriflesso e necessario, nell’uomo richiede un’adesione consapevole e libera.

L’uomo cioè, in quanto essere dotato di ragione, è l’unico essere vivente che può essere chiamato in causa in qualità di custode e di amministratore responsabile. Si tratta dunque di un problema spirituale prima ancora che ecologico. Non a caso, Papa Francesco ha voluto dedicare al tema un’enciclica, la Laudato si’. Si tratta di una lettera che si rivolge non solo ai credenti, ma a tutte le persone che sentano forte la responsabilità verso la nostra casa comune.

È la prima volta che la Chiesa cattolica pubblica un documento ufficiale sul tema della salvaguardia dell’ambiente, ma lo fa puntando alla conversione del cuore dell’uomo. Per risolvere il problema, non è utile infatti rifugiarsi in un atteggiamento fideistico nei confronti di sempre nuovi ritrovati tecnologici, né tanto meno colpevolizzare un uomo sempre più inteso come minaccia per l’ecosistema, la cui presenza debba addirittura essere ridotta attraverso drammatiche strategie di depopolamento o inducendo sterilità.

L’uomo rimane quella creatura che ha sempre dinanzi a sé un cammino da fare, un compito da assolvere, una vocazione cui rispondere. Se però tutto è connesso e l’uomo è parte integrante della natura, allora la prima conversione deve essere quella dell’uomo. Non può esistere, infatti, un problema ecologico che possa essere affrontato prescindendo dal problema etico, economico e dal senso di giustizia verso i poveri.

Occorre essere consapevoli, si legge nell’enciclica, che «l’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme» e che alla radice del problema vi è il predominio dell’interesse economico di un “mercato divinizzato”, che non rispetta le leggi della natura e che non conosce limiti inviolabili. Pertanto “le ragioni per le quali un luogo viene inquinato richiedono un’analisi del funzionamento della società, della sua economia, del suo comportamento, dei suoi modi di comprendere la realtà”. Se la terra è ferita, ciò accade perché a prevalere è sempre la logica della speculazione finanziaria, che nel pianeta vede solo una fonte infinita di risorse da estrarre incondizionatamente e che persino osa prefigurarsi il ricorso allo sfruttamento di altri pianeti, esaurite le risorse della terra.

Il fatto che oggi tutto questo si stia ritorcendo contro l’uomo e il suo benessere non è che la prova provata che egli è parte integrante di questo ecosistema. Alla transizione ecologica viene così preferita la conversione spirituale di un uomo capace di rifondare la sua vocazione di custode dell’opera di Dio. Solo un amministratore responsabile può infatti contrastare quel relativismo pratico, che dà assoluta priorità agli interessi contingenti e trascura le prospettive di lungo termine. Non ci sono dunque due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale che richiede di affrontare in parallelo il compito di combattere la povertà, di restituire la dignità agli esclusi, di prendersi cura della natura.

Tuttavia, affinché questo progetto possa divenire praticabile occorre rilanciare il senso della comunità e dell’appartenenza. Com’è possibile, infatti, prendersi cura degli spazi pubblici se non si ha la percezione del proprio radicamento, se in essi non ci si sente a casa, se non si riesce a vivere la città come uno spazio che “ci contiene e ci unisce” e infine se non si riesce a «concepire il pianeta come patria e l’umanità come popolo che abita una casa comune”? Ecco un’altra ragione per cui occorre ripartire dall’etica e dalla spiritualità, prima ancora che dalla scienza, specie se per scienza si intenda quello scientismo, oggi tanto in voga, che troppo spesso usa la tecnica come un’arma da usare contro la natura e dunque contro l’essere umano.

Non è possibile uscire da una logica utilitaristica che fa della natura uno strumento per il soddisfacimento di falsi bisogni, prescindendo dalla conversione del cuore umano. Infatti, “Più il cuore della persona è vuoto, più ha bisogno di oggetti da comprare, possedere e consumare” e dunque più si allontana dalla possibilità di concepire la natura e l’ambiente in cui viviamo come un fine in sé.

Si tratta perciò di rieducare le nostre menti a nuovi stili di vita, compatibili con la salvaguardia del creato. Un buon inizio potrebbe essere per il cristiano – ma non solo – quello di tornare a vivere il giorno del riposo celebrato dalla tradizione biblica come giorno della contemplazione estetica contro la logica dell’efficientismo. In fondo sono le stesse meraviglie del creato che ci invitano alla contemplazione, ad un atteggiamento estatico. Forse è proprio questo il senso di quell’idea secondo cui la bellezza salverà il mondo.

La sfida ambientale è dunque innanzitutto una sfida spirituale, ma anche una sfida educativa. Bisogna infatti tornare alla sobrietà come valore inseparabile della solidarietà e opporsi alla logica dello sfrenato consumismo, rieducando noi e i nostri giovani ad uno stile di vita in cui “meno è di più”, rendendoci così di nuovo capaci di gustare le piccole cose e di godere della vita.

 

 www.tuttavia.eu

 

giovedì 28 luglio 2022

IL METAVERSO A SCUOLA

Prof, alunni e burocrati saranno travolti dal Metaverso?

Non siamo ancora in grado di stimare gli effetti di un ingresso della scuola nel Metaverso (o viceversa). Ma potrebbe essere un’opportunità,

                       -di Alessandro Artini 

La qualità dell’insegnamento è sempre più importante ed è corroborata dalle innovazioni didattiche, per questo è utile spendere alcune parole su cosa sia il Metaverso e perché Mark Zuckerberg, sulla sua scia, abbia cambiato il nome di Facebook in Meta.

In sintesi, il Metaverso è una realtà virtuale molto più assorbente e profonda di quella finora sperimentata. Grazie a una visiera (oggi si stanno sperimentando degli appositi occhiali, molto meno invasivi), si può entrare in un mondo virtuale, avvalendosi di un proprio avatar, il quale può interagire con gli avatar di altri. Il nostro io digitale, così, sperimenta una vita parallela a quella che noi comunemente consideriamo come reale. La prima espansione di questa nuova realtà avverrà probabilmente tramite la diffusione di giochi di community, dove ciascuno avrà un proprio ruolo, “incarnato” in un player più o meno stabile.

Si può immaginare, tuttavia, come il Metaverso possa espandersi sino a coinvolgere altri ambiti, come quello lavorativo, dove saranno possibili varie attività (ad esempio quelle che oggi svolgiamo in presenza con i nostri colleghi) e vere e proprie transazioni, come la compravendita di beni e cose. Non a caso, nella realtà del Metaverso disponiamo di denaro (criptovalute) per l’acquisto di oggetti digitali che, registrati da appositi algoritmi (blockchain), diventano insostituibili e unici, ovvero Nft (Not Fungible Token).

C’è da chiedersi se qualcuno, dopo aver sperimentato la vita parallela per molte ore nell’arco della giornata, continui a preferire la propria identità fisica e reale a quella digitale. Forse alcuni sceglierebbero il mondo virtuale, perché più adattabile alle proprie esigenze, piuttosto che quello reale. Soprattutto, a questo punto, giova porsi un’altra domanda: è possibile che il Metaverso, in futuro, non coinvolga il mondo della formazione e della scuola?

La domanda è retorica, perché inevitabilmente quel mondo sarà pervaso e forse travolto dal Metaverso, anzi tutto attraverso la gamification, cioè l’uso didattico di meccanismi dei videogiochi. Inoltre si hanno evidenti segnali economici di quanto sta per accadere: la finanza si sta interessando alla formazione, perché è in corso, a livello mondiale, un’incredibile riconversione del capitale umano, come sostiene Fabio Vaccarono, l’Ad di Multiversity, la società che controlla varie università private (Pegaso, Mercatorum e altro ancora).

Alcuni fondi di private equity  investono nelle aziende che si occupano di formazione, nelle start up più promettenti, che non solo formulano previsioni sul futuro, ma contribuiscono a costruirlo, secondo il dinamismo delle profezie “autorealizzantisi”. C’è da attendersi, infatti, che una realtà virtuale così potente e immersiva, come il Metaverso, trovi applicazioni formative. È evidente come, grazie ad essa, sia possibile creare infinite situazioni finalizzate a costruire o mettere alla prova le competenze degli alunni. La didattica, inoltre, contemplerà straordinari processi di personalizzazione e il ruolo del docente, che tutt’oggi effettua perlopiù lezioni trasmissive, in “modalità cinema”, richiederà forti innovazioni. Gli insegnanti diventeranno animatori e registi dei processi di apprendimento.

La cosa può non piacere e anzi sdegnerà una parte consistente dei docenti e dei sindacati della scuola, ma, se si dimostrasse che con il Metaverso si può apprendere in maniera più efficace, sarebbe difficile propugnare aprioristicamente il solo valore delle tradizionali lezioni. Entrerà in crisi anche il primato del sistema statale di formazione, che in Italia gode di un credito inossidabile: le scuole saranno valutate dall’opinione pubblica per come operano, indipendentemente dal fatto che si tratti di istituzioni pubbliche o società private.

C’è anche un ultimo aspetto sul quale porre l’attenzione ed è quello relativo al ruolo che la scuola può avere rispetto alla coesione sociale, che è un tema non sempre opportunamente individuato. Secondo Perulli e Vettorino, la tradizionale composizione sociale delle classi, oggi, sta radicalmente cambiando e si sono determinate delle faglie che descrivono una triade di gruppi sociali: quello delle élite, spesso indifferenti ai destini nazionali e in progressiva riduzione, quello della classe creativa, che si avvale della conoscenza come strumento lavorativo e, infine, quello della neo plebe, che comprende persone in difficoltà, animata da risentimento e a rischio costante di secessione.

La classe creativa è quella che manterrebbe vivo il codice di responsabilità, che Hegel individuava nella società civile del suo tempo. Persone che, grazie alla conoscenza, ritengono di poter perseguire il proprio interesse coerentemente con quello generale della comunità; che credono di poter raggiungere la prosperità tramite il cosmopolitismo, il quale offre loro l’opportunità di aprire nuovi mercati alle idee. L’eventuale espansione di questa classe rappresenterebbe la principale chance, per la società, di mantenere la coesione.

Anche per queste ragioni, l’innovazione didattica, che favorisce la diffusione della classe creativa, è fautrice indirettamente di un equilibrio sociale e il Metaverso, secondo me, può rappresentare un’opportunità da cogliere.

 

Il Sussidiario

 

ALCOL E GIOVANISSIMI

Alcol, divieti violati

 e pochi controlli

Parla il direttore dell’Osservatorio dell’Iss, Scafato: «Sono 800 mila i consumatori dannosi, che avrebbero bisogno di un trattamento. Spesso i genitori sono i primi a normalizzare certe 'abitudini'» «Non esistono quantità sicure per la salute e la sicurezza; lo slogan che recita 'bevi responsabilmente' non ha senso. Sotto i 25 anni consumare certe bevande è nocivo allo sviluppo e all’evoluzione del nostro cervello

- di DOMENICO MARINO

«Il 10% di tutti gli accessi al pronto soccorso in Italia per problemi alcolici, sono di minori. I binge drinkers, quanti cioè bevono smodatamente per ubriacarsi, sono moltissimi. Fondamentale capire se lo fanno in maniera regolare o solo per un giorno. Risultano circa 800 mila consumatori dannosi, alcol dipendenti, che avrebbero bisogno di un trattamento, ma solo 64mila, cioé appena l’8%, sono in cura. Quindi il Servizio sanitario nazionale ignora il 92% di quanti hanno necessità di seguire un percorso terapeutico ». Parla con la fermezza e la lucidità dello scienziato, Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio nazionale Alcol dell’Istituto superiore di sanità (Iss). Lo specialista insiste sulla creazione di una rete per la gestione del problema e suggerisce d’iniziare dall’agenzia educativa principale: i genitori. «Se si comincia a parlare adeguatamente dell’alcol già quando sono bambini – dice –, nel momento in cui si arriva all’adolescenza, e tutto è trasgressione, hanno una consapevolezza che li aiuta a comportarsi. Invece, spesso, i genitori sono i primi a normalizzare l’uso di alcol in ambito familiare, ignari del rischio di quel bicchiere». Poi un suggerimento per nulla scontato: «Bisogna fare in modo che la prevenzione sia erogata da chi si occupa di salute pubblica, evitando che portatori d’interessi possano farsi carico di interventi, creando evidenti conflitti d’interesse», sigilla il professor Scafato. Anche perché «non esistono quantità di alcol sicure per la salute e la sicurezza». Lo slogan 'bevi responsabilmente' «non ha nessun senso, così come sono fake news quelle che indicano il vino che fa 'fare buon sangue' o l’alcol che sarebbe artefice di successi sociali o sessuali. Sotto i 25 anni, in particolare, l’alcol è nocivo al cervello, al suo sviluppo razionale e alla sua evoluzione in senso sapiens». Alcol e minorenni «è un binomio che non sta in piedi in qualunque posizione si provi a sistemarlo»: lo conferma Scafato denunciando un problema tanto serio quanto diffuso e sottovalutato. Perché, ancor di più con la bella stagione, si moltiplicano gli open bar che vendono alcolici d’ogni genere senza dare nessun peso all’età dei consumatori. Il business, malato, schiaccia salute e tutela, anzitutto dei più piccoli. Eppure, una legge del 2017, ha stabilito il divieto di vendita e somministrazione di bevande alcoliche ai minori di anni 18. È un reato somministrare bevande alcoliche a minori di 16 anni, mentre è considerato solo un illecito amministrativo la somministrazione ai ragazzi tra 16 e 18 anni.

 «Sappiamo bene che c’è la disapplicazione delle norme,  più che la mancanza di controlli. Eppure – riprende Scafato – in un momento nel quale si esce da un lungo periodo in cui l’alcol ha potenziato il rischio nelle popolazioni giovanili, ci sarebbe bisogno di più impegno da parte delle istituzioni per il rispetto delle norme. Anche da parte delle associazioni di categoria », insiste lo specialista dell’Istituto superiore di sanità, il quale individua il bisogno d’una rete di protezione, perché le conseguenze dell’abuso di alcol sono diffuse (violenze, incidenti, danni al patrimonio), e non ci si può affidare solo a una norma per proteggere i minori. «Bisogna lavorare da adulti e associazioni competenti per aumentare la consapevolezza del danno e del rischio quando si decide di bere – osserva il dirigente dell’Iss –. È un problema internazionale, sempre meno controllabile attraverso i canali tradizionali, poiché basta un’app per comprare e farsi recapitare quello che si vuole in un box anonimo. Durante le procedure di acquisto al massimo ci chiedono se abbiamo 18 anni».

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COMPLESSITA' e AGAPE

Il «pensiero complesso» 

si apre all’agape

 - di FRANCESCO BELLINO

 In modo lento, ma graduale, il paradigma della complessità si sta affermando nella cultura italiana. Il volume di Mario Castellana, Briciole di complessità. Tra la rugosità del reale (prefazione di Mauro Ceruti, Studium, pagine 248, euro 25,00) si dipana in 57 capitoletti, apparentemente eterogenei, ma uniti dalla comune prospettiva della complessità. Il titolo del libro è mutuato da Simone Weil, ben consapevole che chi si avventura nelle acque incerte della conoscenza e del pensiero umano viene a scontrarsi con «la rugosità del reale».

Castellana, già docente di Filosofia della scienza presso l’Università del Salento ed esponente di quella che Geymonat ha chiamato «la scuola meridionale di epistemologia», fondata da Bruno Widmar, è approdato al pensiero complesso non con «una fulminea conversione sulla strada di Damasco», ma ha le sue radici nel pensiero di Simone Weil, nello studio della epistemologia francofona (Gaston e Suzanne Bachelard, Teilhard de Chardin, Hélène Metzger, Piaget, Florenskij, Serres, Morin), molto attenta alla dimensione storica della scienza, e del pensiero di Federigo Enriques.

Più il mondo diventa complesso, più cresce la tentazione del riduzionismo e della semplificazione. La complessità è portatrice di una razionalità incarnata della polifonia del reale, che ci aiuta a superare «l’era desertica del pensiero » (Paolo VI) e a cogliere la ricchezza del mondo.

Questo libro, come ha scritto Mauro Ceruti nella prefazione, ci offre non solo «una sapiente mappa delle molteplici vie del pensiero complesso»,

ma anche un contributo che aiuta a chiarire e a sviluppare il potenziale teoretico della complessità». Il pensiero complesso ci protegge dal virus della onniscienza, da visioni essenzialistiche e unilaterali della realtà, dal pensiero asettico e dallo scetticismo. Vive e si alimenta della tensione verso il vero. «Non esistono teorie vere, ma teorie sempre più vere», ripete Castellana con Federigo Enriques.

Il pensiero complesso ci aiuta a prendere coscienza dei limiti della «forma calcolante del pensiero», imposta dalla modernità, e risponde al bisogno di una «razionalità allargata», proposta da Benedetto XVI. Essendo una razionalità enracinée, aperta, sensibile, riesce a cogliere le diverse nuances (Bachelard) del reale e ad essere «cuore pensante» (Hillesum).

 Castellana conclude il suo lavoro con l’apertura del pensiero complesso alla teologia, considerando la razionalità complessa una «razionalità agapica», per lo stretto legame tra conoscenza e amore. Cita il teologo e matematico Giovanni Amendola, che si fa promotore di una «ragione sensibile» a partire da Leonardo da Vinci e Goethe Tale progetto viene innestato nel solco della rivelazione ebraico-cristiana che trova nell’amore agapico del Vangelo di Giovanni il suo punto di approdo, assumendo una profondità spirituale» da «ragione adorante in silenzioso ascolto del mistero della realtà».

 

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lunedì 25 luglio 2022

INVALSI. DISPERSIONE IMPLICITA


  • La dispersione implicita nelle Prove INVALSI 2022

    ·         Prove INVALSI


    ·         Competenze

    ·         Dati INVALSI

    ·         Equità e Inclusione

    ·         Grafici e infografiche


    Accanto al tradizionale concetto di dispersione scolastica, che riguarda i giovani che hanno abbandonato la scuola prima di concludere il percorso del secondo ciclo, grazie ai dati INVALSI è possibile individuare e monitorare un altro fenomeno che coinvolge i ragazzi e le ragazze che, pur avendo conseguito un titolo di studio di scuola secondaria di secondo grado, non raggiungono i traguardi di competenza previsti entro l’intero percorso dei 13 anni di scuola.

    Si chiama dispersione scolastica implicita e i dati ottenuti dal Rapporto INVALSI 2022 ci consegnano una fotografia confortante del fenomeno, un’inversione di rotta.

    Se nel 2021, infatti, si era attestato al 9,8%crescendo di due punti percentuali e mezzo a livello nazionale rispetto al 2019 (7,5%), nel 2022 arretra al 9,7%, facendo registrare una flessione in quasi tutto il territorio.

    Come ha evidenziato il Presidente dell’INVALSI Roberto Ricci durante la presentazione del Rapporto, ci sono due regioni del Mezzogiorno, la Puglia e la Calabria, che hanno ottenuto un’importante diminuzione della dispersione implicita, segnando rispettivamente -4,3 punti -3,8 punti.

    Un dato incoraggiante se si considera che nelle regioni del Mezzogiorno le percentuali di allievi fragili sono solitamente più alte nel Mezzogiorno rispetto a quanto si registra nel Centro e nel Nord Italia.

    Le differenze territoriali

    Le differenze territoriali, tuttavia, restano ancora fortemente presenti. La Campania, in particolare, è la regione in cui la fragilità scolastica raggiunge la quota di 1 studente su 5 coinvolto (19,8%), ma anche in altre regioni del Mezzogiorno, ossia SardegnaCalabria e Sicilia, le percentuali di allievi in dispersione implicita restano alte (rispettivamente 18,7%, 16% e 18%).

    Caso degno di evidenza è quello della Sardegna che, a differenza di quasi tutte le regioni italiane, segna un dato sulla dispersione implicita in incremento rispetto al 2021, diventando seconda per situazione di maggiore fragilità dopo la Campania.

    Molise e Basilicata, invece, rispetto alle altre regioni del Sud Italia che hanno visto un incremento della dispersione implicita nel 2021, confermano una riduzione costante del fenomeno da un anno all’altro.

    La fragilità rispetto all’origine sociale

    Grazie alla presenza dell’indicatore ESCS – Economic, Social and Cultural Status, che definisce lo status sociale, economico e culturale delle famiglie degli studenti che partecipano alle Prove INVALSI e ad altre ricerche internazionali, è possibile analizzare i dati anche sulla base del contesto socioeconomico degli studenti.

    Nel Rapporto Nazionale 2022 si può osservare che, in termini di punti percentuali, la dispersione esplicita è più che doppia per gli allievi che provengono da famiglie meno avvantaggiate. Inoltre, la dispersione implicita è rimasta stabile per gli studenti provenienti da ambienti più favorevoli (5,6%) ed è lievemente aumentata per gli studenti che provengono da ambienti meno avvantaggiati.

    Un aspetto che merita attenzione è che questo fenomeno raggiunge quote molto alte (19,8%) per gli allievi di cui non sono disponibili i dati di background.

    Non solo esiste un problema del peso del contesto sociale di riferimento, ma l’attenzione va posta alla raccolta di questo dato, perché laddove non è disponibile va ad individuare una categoria di ulteriore fragilità.

    L’equità nel sistema scolastico italiano

    I risultati delle Prove INVALSI 2022 dimostrano quindi che il contesto di appartenenza dei ragazzi continua a giocare un ruolo molto importante sui livelli di apprendimento conseguiti.

    L’analisi di questa dimensione permette così all’INVALSI di fotografare la situazione di equità del sistema scolastico e le – ancora molto forti – correlazioni tra le condizioni socio-economico-culturali di provenienza degli allievi e i risultati raggiunti.

    Il contesto di provenienza degli studenti è un fardello pesante, che ci dimostra l’esistenza di molte variabili che non sono sotto il controllo della Scuola e che pesano fortemente sui risultati.

    Approfondimenti

    ·         I Risultati INVALSI 2022

    ·         Presentazione del Rapporto Nazionale Prove INVALSI 2022

    ·         L’indicatore ESCS per una valutazione più equa