La
storia ha più volte mostrato, Atene e Roma per fare due esempi, che il tramonto
di una civiltà ha la sua principale causa interna nella crisi demografica unita
alle scarse capacità creative delle sue guide di fronte alle sfide.
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di Alessandro D’Avenia
Epidemie,
guerre, invasioni danno solo il colpo di grazia a un rapporto nascite/decessi
insufficiente per l’equilibrio naturale del corpo sociale, guidato da una testa
senza soluzioni o con soluzioni inadeguate se non distruttive. A leggere i dati
Istat presentati ai recenti (stupidamente criticati o falsamente raccontati)
Stati generali della Natalità, anche noi siamo al tramonto come tutte le
culture che, per mancanza d’amore verso se stesse e di guide illuminate (la
disaffezione al voto lo dimostra) scelgono la fine, come un disperato che si
lascia morire.
È
irreversibile l’inverno? Lo sarebbe se gli stessi dati non mostrassero una
possibile primavera: 8 persone su 10 in Italia vogliono figli, ma non riescono
a tradurre in pratica il progetto. Non manca desiderio di generare ma le
condizioni, soprattutto per le donne ancora prive di libertà di scelta. Save
the children nel rapporto 2024 sulla maternità in Italia le chiama infatti «le
equilibriste» per la fatica o l’impossibilità di conciliare desideri e realtà.
Perché siamo agli ultimi posti rispetto ai Paesi dell’Ue nel rispondere a
questa emergenza? E siamo sicuri che il problema riguardi solo le donne?
Servono un po’ di dati, perché, in una famiglia, non si cresce senza fare i
conti.
Da
anni in Italia nascono meno di 400 mila bambini, record negativo nel 2023 con
379 mila nati, a fronte di 661 mila decessi. Nel 2050 ci sarà un ragazzo ogni 3
anziani. Gli apporti migratori non saldano il rapporto di sostituzione,
necessario alla copertura del welfare: cala la qualità della vita come è
evidente nel servizio sanitario e scolastico. Per garantire l’equilibrio
sociale il tasso di fertilità dovrebbe essere di almeno due figli per donna, in
Italia è di 1,2 e l’età media della maternità 31,6 anni, la più alta in Europa,
la cui media è 29,7. La Francia, che ha il tasso di fertilità migliore (1,8),
offre infatti da tempo agevolazioni fiscali, nidi, tempo pieno scolastico,
part-time entrambi i genitori.
La
Germania (1,5 figli per donna) dà supporti economici, congedi retribuiti e nidi
garantiti. La Finlandia, ai minimi nel 2019 (1,35 figli per donna), ha
invertito la tendenza con voucher baby-sitter, sgravi fiscali, congedo
parentale più lungo e trasferibile da un genitore all’altro. Come si vede
questi Paesi hanno cambiato mentalità di fronte alla sfida, mettendo al centro
la cura del bambino e alla pari donne e uomini. Noi ancora no. In Spagna dal
2021 c’è il congedo parentale di 16 settimane per ciascun genitore (prime 6
obbligatorie, le successive facoltative o a tempo pieno o part time) con il
100% dello stipendio. In Portogallo i giorni indennizzati sono 150 al 100% o
180 all’80% dello stipendio, con la possibilità di altri tre mesi a testa di
lavoro part-time. In Norvegia sono 12 i mesi di congedo retribuito suddivisi o
condivisi tra padre e madre. In Svezia ogni genitore ha 16 mesi di congedo, tre
all’80% dello stipendio.
La
Germania ha un congedo parentale flessibile: i genitori possono lavorare fino a
32 ore settimanali per 24 mesi. In Polonia il congedo dura 36 settimane, 20
retribuite al 100%.
E
noi? Con la legge di Bilancio 2024, al congedo obbligatorio di 5 mesi per la
madre all’80% dello stipendio e solo 10 giorni a stipendio pieno per il padre,
si aggiunge la possibilità, ma solo per i lavoratori dipendenti, di altri due
mesi complessivi per i genitori, all’80% entro i primi 12 anni di età del
bambino. Ma il secondo mese così retribuito riguarderà solo il 2024, dal 2025
verrà ridotto al 60%. Ci sono poi: l’assegno unico universale (in base al
reddito, da 50 a 200 euro al mese per ogni minore); l’azzeramento dei
contributi solo per le madri lavoratrici con più di tre figli; il bonus nido.
Si tratta però di aiuti non sistematici (smetteremo mai di essere il Paese di
superbonus ed elemosine elettorali?), dai criteri ingiustamente restrittivi e iperburocratizzati,
e di norme che ignorano che un figlio si genera e quindi si cresce in due e
alla pari.
Se
a tutto ciò aggiungiamo che i nostri nidi coprono solo il 28% per la fascia
0-3, non stupisce che spesso una donna debba lasciare il lavoro dopo il parto.
In sintesi il nostro welfare non supera la sfida e non tiene conto della
parità: la spesa del Pil per la famiglia è dell’1,4% (1,9 la media Ue, 2,2 in
Francia, 2,9 in Finlandia). Se gli effetti delle norme entrate in vigore nel
2024 sono ancora da vagliare, colpisce però una contraddizione in atto da
tempo. La Costituzione dice all’art.31: «La Repubblica agevola con misure
economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei
compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la
maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale
scopo», mentre all’art. 11 recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento
di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali». Eppure, in questi anni ciò che è aumentato in
modo sistematico, ma non sempre chiaro e condiviso, è la spesa bellica. Quella
mondiale ha raggiunto nel 2023 il record di 2.443 miliardi di dollari, in
Europa è cresciuta del 16%, mai così dalla Guerra Fredda, e la più alta è
proprio in Europa occidentale (345 miliardi). Gli Stati membri della NATO, di
cui facciamo parte, hanno stanziato nel 2023 ben 1.341 miliardi di dollari, il
55% del totale mondiale. In Italia nel 2024 è prevista una spesa militare di 28
miliardi di euro, un aumento di 1,4 miliardi rispetto alle stime dell’anno
precedente, di questi circa 10 per nuovi armamenti.
Si
dice siano necessari per gli attuali fronti bellici e per strategie di
deterrenza ma, ammesso che sia così, non dovrebbero andar di pari passo con la
cura? Che cosa me ne faccio del recinto elettrificato per difendere una casa a
pezzi? Come ha scritto G.K.Chesterton riferendosi a un quartiere di Londra: «Se
la gente amasse Pimlico come le madri amano i loro figli, gratuitamente, in un
anno o due il quartiere potrebbe diventare più bello di Firenze. Certi lettori
diranno che questa è pura fantasia. Io rispondo che questa è la vera storia
dell’umanità. È così che le città sono diventate grandi. I romani non amavano
Roma per la sua grandezza. Roma era grande perché i romani l’avevano amata»
(Ortodossia).
È
l’amore per un luogo, una cosa, una persona la fonte della sua energia di
crescita. Un’energia (pro-)creativa che non avremo finché le donne rimarranno
equilibriste, gli uomini esclusi da una paritaria possibilità di cura e i
nostri politici miopi. Mi preoccupa questa volontà di morte che finanzia la
guerra più della vita: è la sconfitta della nostra Costituzione che, unificando
un Paese devastato dalla guerra, credeva nella parola per gestire le relazioni
e nella famiglia per gestare il futuro. A classi politiche centrate sul potere
più che sulla vita, la storia dovrebbe mostrare che quando un Paese aumenta la
spesa per la guerra e non quella per la cura (ospedali e scuole), quel Paese
non è al tramonto ma ha deciso di tramontare. E le decisioni non accadono, si
prendono.
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