venerdì 30 novembre 2018

MATTARELLA : CULTURA, RICERCA E SPIRITO CRITICO PER ESSERE PROTAGONISTI DELLA SOCIETA'

“…… L’esortazione a portare la cultura ovunque, a diffonderla, a renderla patrimonio comune della società è davvero di grande rilievo ….. La cultura e la ricerca producono spirito critico. È la loro funzione, la loro natura. È il caso di ricordare che una cultura, o meglio, uno studio senza capacità di spirito critico non produrrebbe cultura.
La differenza tra cultura e erudizione è ben nota, così come è ben nota la differenza con l'atteggiamento di chi è chiuso nell’apparente certezza delle proprie convinzioni. ….

Quello della cultura aperta, capace di trasmettere conoscenza e quindi produttrice di spirito critico è un elemento indispensabile per ogni società che voglia essere protagonista e costantemente in crescita e progresso. ….. lo spirito critico è quello, ad esempio, che induce, quando si tratta di valutare un documento (sia esso interno o internazionale) a leggerlo, ad esaminarlo prima di formulare un giudizio, perché non si esprimono opinioni e giudizi sul ‘sentito dire’. ….. spirito critico induce e suggerisce a un atteggiamento protagonista nella società di cui si fa parte, nella comunità in cui si vive e si opera. Questo è un elemento indispensabile in qualunque democrazia; lo è nella nostra Repubblica, lo è perché è conforme al modello indicato dalla nostra Costituzione. Parlo della partecipazione attiva. Non bisogna essere soggetti passivi. Essere attivamente protagonisti della vita comune è un ingrediente indispensabile per la nostra democrazia. …. tutti ne siamo partecipi e che tutti siamo coinvolti, necessariamente e consapevolmente, nella vita comune e nella vita istituzionale….. “

Dal discorso  del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Verona in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2018-2019 dell’Università degli Studi di Verona

UNESCO: I BAMBINI VITTIME DI ESPULSIONI E DISCRIMINAZIONI

Dossier su educazione e migrazioni: 
in 2 anni persi un miliardo e mezzo di giorni di scuola dagli alunni profughi nel mondo
Una persona su 8 è un migrante interno, una su 30 non vive nel Paese in cui nasce. Spiega l’ex ministra dell’Istruzione Stefania Giannini, da maggio vicedirettrice dell’Unesco: «Viviamo in un mondo in movimento, spesso drammatico: 4 milioni di bambini tra i 5 e i 17 anni sono rifugiati, 11 milioni sono migranti. Dal 2016 ad oggi hanno perso un miliardo e mezzo di giorni di scuola».
L’occasione della conta è la presentazione, all’Università Cattolica di Milano, del Rapporto mondiale di monitoraggio dell’educazione 2019 (Global Education Monitoring) dell’Unesco. «Il titolo indica la direzione: 'Migrazioni, spostamenti forzati e educazione: costruire ponti, non muri'» e fa il punto su come la migrazione impatta sull’istruzione, nei Paesi di partenza come in quelli di arrivo.
E le risposte sono diverse: in alcuni casi migliorano i livelli di alfabetizzazione dei migranti, in altri peggiorano. La scuola infatti è il luogo in cui si costruiscono ponti; ma – sottolinea il rapporto – non sempre: «Negli Stati Uniti, che nel 2014 contavano 11 milioni di immigrati irregolari – spiega Giannini –, la minaccia di espulsione tiene i bambini lontani dalla scuola. Così nel 2017 il tasso di assenteismo del distretto scolastico di Las Cruces, nel New Mexico, è aumentato del 60%».
Il rapporto ha uno sguardo globale, critica le nazioni – come Thailandia, Tanzania e Bangladesh – che chiudono le porte delle classi ai bambini privi di documenti. «L’Italia – ricorda la vicedirettrice Unesco – ha una scelta immensa da tutelare: accettare nelle aule tutti i bambini, indipendentemente dallo status giuridico dei genitori». Un principio importantissimo, che talvolta viene minato per quanto riguarda l’accesso a mense, asili e ciò che dipende dagli enti locali.
Un esempio: la Dote Scuola della Regione Lombardia, che serve per acquistare i libri alle medie, non viene assegnata in base alla frequenza scolastica ma alla residenza. «Vuol dire – è emerso nel convegno – lasciare senza testi i ragazzi che non hanno i documenti. Nel caso dei comunitari, come i rumeni, i figli dei disoccupati. Insomma i più poveri».
Per Milena Santerini, direttrice del Centro di ricerca sulle Relazioni Interculturali della Cattolica e organizzatrice dell’incontro, «è arrivato il tempo dell’intercultura 2.0. Non un insegnamento, ma un modo di essere dei docenti e della scuola, che assuma una dimensione integrante per tutti, ricordandosi che le differenze non sono solo etniche». Del resto il 61% degli alunni stranieri è nato in Italia e rischia dunque di sentirsi straniero a casa propria.
«Il Rapporto – nota Santerini – permette di confrontare le politiche locali con le raccomandazioni internazionali: l’incremento dei servizi per l’infanzia è un punto di forza del nostro Paese, ma solo il 77% dei bambini di cittadinanza non italiana li frequenta contro il 94% dei nativi. L’istruzione professionale e l’educazione degli adulti sono invece settori deboli».
Durante il convegno si sono alternate voci dell’università, della società civile e delle istituzioni; sono sfilate esperienze significative come l’Istituto comprensivo Casa del Sole di via Padova a Milano, il progetto Espar che ha sperimentato un passaporto per riconoscere le competenze professionali dei richiedenti asilo, i corsi universitari per rifugiati di Uninettuno, la Scuola della Pace della Comunità di Sant’Egidio.
Quest’ultima esprime una forte preoccupazione per gli effetti del Decreto sicurezza approvato martedì alla Camera: «All’hub regionale di Bresso hanno annunciato l’allontanamento di diversi titolari di permesso umanitario, che rischiano così di diventare senza dimora. Sono arrivati i primi rigetti per le domande di residenza di richiedenti asilo: vuol dire, tra l’altro, meno opportunità educative».
Infatti la Garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano, in audizione il 19 novembre alla Camera, ha espresso serie preoccupazioni per il futuro del 58,9% degli oltre 12mila minori non accompagnati presenti sul territorio nazionale che a breve compiranno 18 anni.




mercoledì 28 novembre 2018

LA FILOSOFIA, BUSSOLA PER TUTTI I SAPERI

C’è una sottile linea rossa che lega mondi apparentemente lontani: «Così come il linguaggio produce discorsi utili a capirsi, la filosofia genera concetti utili a muoversi in natura. E mantiene alta l’attenzione sui limiti di ciò che stiamo utilizzando, ci ricorda e lavora per farci superare la parzialità del nostro agire»
Così la disciplina “astratta” si misura con l’economia, la fisica e persino l’industria 4.0 Parla Onoranti, dell’Università Lateranense: «È come un surf con cui cavalcare le onde dell’ignoto»

Una sottile linea rossa lega figure appartenenti a mondi assai lontani tra loro – dal compianto Sergio Marchionne a Chicco Testa, passando per Bruce Lee e Bill Miller – ma accomunati dall’aver capitalizzato la loro formazione filosofica in attività “materialmente” concrete, spendibili, dimostrando quanto la scienza da secoli va dicendo: ovvero, svelare in ogni teoria la profonda complementarietà con la filosofia. E così, la disciplina astratta per antonomasia si misura con quelle economiche nelle operazioni finanziarie delle borse mondiali, non teme il confronto delle competenze tecnologiche nei processi produttivi dell’industria 4.0, affianca il diritto internazionale nella costruzione della futura giurisdizione, si sporca le mani negli asettici laboratori di fisica, chimica e biologia e, spazzando i frequenti luoghi comuni circa l’inutilità del suo sapere, se guarda alle stelle, magari ispirata dalle sublimi meditazioni kantiane, è perchè chiamata ad esplorare la «via» di qualche missione spaziale. Quando «si applica», del resto, i risultati…si vedono! Per un’idea dei versanti pratici dell’indagine filosofica, ecco il bolognese Filippo Onoranti, filosofo della scienza della Pontificia Università Lateranense, ricercatore in uno dei colossi del software della Silicon Valley dove si occupa di biologia e, in particolare, della formalizzazione del principio evolutivo: «Trasferisco gli strumenti del mondo fisico al regno dei viventi».
E la filosofia si ritrova?
«Aristotele, primo vero biologo della storia, scoprì i polmoni dei cetacei: nessun etnologo li avrebbe cercati in un “pesce”. Anche l’informatica ha influito molto sulle discipline filosofiche, imponendo un rigore diverso dal passato e rendendo attraenti le ricerche epistemologiche. La logica, poi, tra i linguaggi più universali, si presta a far dialogare aree del sapere tra loro scarsamente “comunicative”: si parla molto di interdisciplinarietà, ma essa non può prescindere da un approccio filosofico a sapere, a conoscere, per costruire relazioni coerenti tra aspetti teoretici, pratici e produttivi».
Da quando le big companie parlano il linguaggio filosofico?
«Il PhD è in sè stesso un grado “filosofico” – oggi molto richiesto – di formazione, utile a costruire una conoscenza globale, appunto, philosophical doctor. La specializzazione in filosofia abbina un alto grado di competenza specialistica a una visione integrata del sapere».
Quali i mestieri dei moderni filosofi?
«Ad esempio, l’analista di dati o il consulente al project management ».
E la ricerca?
«È un altro esempio. Si applicano principi e metodi a problematiche “pratiche” di breve termine, come strumento del “fare” invece che del conoscere. Del resto, l’ambito aziendale – in cui sorgono sempre imprevisti – è occasione di studi forzatamente originali. La filosofia è la stessa scienza che si confronta con realtà poco note, è il germoglio di una conoscenza non definita, il surf con cui cavalcare l’onda dell’ignoto».
E la filosofia nella pratica quotidiana?
«Funziona da bussola, per distinguere vero e falso, quando il mondo ci appare ingannevole. Ad esempio, l’interpretazione di riferimento della realtà fisica sancisce la duplice natura – corpuscolare ed ondulatoria – delle particelle subatomiche: la luce è, contemporaneamente, finissima sabbiolina di fotoni ed onda di energia. Comprendere – letteralmente tenere insieme – evidenze similmente contraddittorie ha richiesto la ridefinizione dei paradigmi precedenti e la costruzione di nuovi archetipi logici».
Tale visione è condivisa in ambito scientifico?
«Il dualismo onda-corpuscolo sì, il ruolo della filosofia non direi. Le tifoserie non mancano: Stephen Hawking scrive che la filosofia è morta senza rattristare nessuno. Eppure, il profondo debito della scienza antica e moderna nei suoi riguardi è palese. Ancora si discute circa l’utilità di questa relazione: in Italia, il fisico Carlo Rovelli la sostiene in toto, sottolineandone – accanto al tradizionale ruolo del sapere filosofico nello scoprire errori – l’abilità nel vaccinare la mente dal pregiudizio, cui l’uomo ingenuamente cede. In un mondo che evolve con velocità crescente, una struttura di pensiero che prevenga le pratiche – ad essa conseguenti – da irrigidimenti e rotture è una necessità».
I confini tra scienza, impresa e filosofia così si assottigliano: è un bene?
«I confini hanno a che fare col nostro bisogno di rassicurazioni. La scienza raccoglie dati, li interpreta e ne ricava teorie utili a relazionarsi col mondo. Anche il mondo dell’impresa, per quanto si subordini a scopi marcatamente individualistici e sia poco incline alla condivisione (fondamenta dell’istanza conoscitiva), è simile: studia dati, ne ricava interpretazioni e, su queste, formula delle previsioni: sono i business plan. Ogni costrutto presuppone un punto di vista e – come tale – consente l’accesso a una limitata porzione di mondo. La filosofia, in questo processo, aiuta a non sposare gli scorci di realtà che, pur se prodotto buoni frutti, occorre superare per mantenere il passo del cosmo».
La filosofia inventa cose oltre che idee?
«Inventa astrazioni con ricadute ed effetti concreti. I diritti umani, ad esempio, sono il prodotto della filosofia morale di una certa epoca: tali “oggetti dell’etica”, giunti nel mondo, hanno generato mutamenti socio- politici ed oggi – sui testi – sono puntualmente definiti e nei tribunali vigorosamente tutelati. Un’altra magia filosofica è la scoperta – grazie alla ragione – di alcune realtà, come gli atomi, solo a posteriori testimoniate dai sensi. Il concetto di realtà indivisibile ha preceduto di XXV secoli la scoperta di atomi e quanti. Anche l’informatica è il prodotto, abbastanza diretto, di ricerche filosofiche: i computer parlano una lingua piuttosto strana – con due sole lettere, 0 e 1 – la logica antica è lo strumento per rendere questi due valori significativi ai nostri scopi. All’origine del progetto di Turing c’è Kant: non a caso, i nostri calcolatori funzionano in modo affine alla mente descritta nella Critica della Ragion Pura. Nelle sue ricerche ha inventato o scoperto qualcosa? Ho lavorato molto sui fondamenti teorici della biologia, apprendendo – con sorpresa – che una definizione non descrittiva di specie vivente non esisteva. Poiché mi occorreva, ne ho “costruita” una: “nodo metastabile della relazione tra individuo ed ambiente”. La filosofia è, dunque, produttiva? Certamente. Così come il linguaggio produce discorsi utili a capirsi, la filosofia genera concetti utili a muoversi in natura. E mantiene alta l’attenzione sui limiti di ciò che stiamo utilizzando, ci ricorda e lavora incessantemente per farci superare la parzialità del nostro agire».





lunedì 26 novembre 2018

FAMIGLIA - SCUOLA - ATTIVITA' EXTRACURRICOLARI - Consenso preventivo?

Ha suscitato una vasta eco la circolare, firmata dai direttori generali del Miur Maria Assunta Palermo e Giovanna Boda, che stabilisce che “le famiglie devono esprimere il consenso, ove occorra, al fine della partecipazione degli alunni e studenti alle attività extra-curricolari” inserite nel Piano triennale dell’offerta formativa (Ptof). A tal fine si dispone che il Ptof venga “predisposto antecedentemente alle iscrizioni, per consentire alle famiglie di conoscere l’offerta formativa delle scuole così da assumere scelte consapevoli in merito all’iscrizione dei figli”. Ulteriori attività didattiche eventualmente aggiunte in corso d’anno “devono essere portate tempestivamente a conoscenza delle famiglie, o degli studenti se maggiorenni”.
La circolare, inviata a tutti gli Uffici Scolastici Regionali, è stata accolta con favore da diverse associazioni cattoliche, che da anni stanno combattendo contro l’ingresso nelle scuole di temi che riguardando la sfera della affettività, sessualità, educazione di genere, che “per i loro contenuti sono invece da sottoporre alle scelte educative delle singole famiglie, anche se svolti nel normale orario scolastico”, come ha dichiarato Chiara Iannarelli, vicepresidente di Articolo 26, associazione nazionale di genitori.
Prese di posizione dello stesso tenore sono venute dalle associazioni Pro Vita e Generazione Famiglia, che in un comunicato congiunto hanno chiamato in causa anche la condanna dell’“ideologia gender” pronunciata da Papa Francesco nell’Esortazione Apostolica Postsinodale ‘Amoris Laetitia’.
Anche il Movimento Italiano Genitori (Moige), per bocca del suo direttore generale Antonio Affinita, ha elogiato la circolare ministeriale: “Finalmente i genitori tornano ad essere responsabili e protagonisti dell’educazione e della crescita dei propri figli all’interno delle scuole”.
Altrettanto immediata, ma assai critica, è stata invece la reazione dei sindacati che hanno chiesto un incontro urgente con il ministro Bussetti per discutere il merito della circolare “i cui contenuti rischiano di essere lesivi dell’autonomia professionale dei docenti e dell’autonomia scolastica, entrambe costituzionalmente garantite”.
La nota dei sindacati confederali sottolinea che “ai fini della predisposizione del Ptof la scuola deve certamente promuovere i necessari rapporti con le famiglie, ma la scuola è un insieme di professionalità e costruisce un progetto formativo che le famiglie scelgono in fase di iscrizione” e che deve essere accettato (o respinto) nel suo insieme. “Il rapporto con la collettività scolastica – conclude la nota –non può essere inteso come adesione ad un servizio a domanda individualizzata, l’esatto opposto della funzione che la Costituzione affida all’istruzione”.
Fonte: TUTTOSCUOLA 

domenica 25 novembre 2018

LA BUONA POLITICA PER LA PACE- Messaggio pontificio per la Giornata Mondiale della Pace

È stato reso noto il tema del Messaggio per la 52ª Giornata Mondiale della Pace, che si celebra il 1° gennaio 2019: 
«La buona politica è al servizio della pace».


“La responsabilità politica – si legge in un commento della Sala Stampa della Santa Sede – appartiene ad ogni cittadino, e in particolare a chi ha ricevuto il mandato di proteggere e governare. Questa missione consiste nel salvaguardare il diritto e nell’incoraggiare il dialogo tra gli attori della società, tra le generazioni e tra le culture. Non c’è pace senza fiducia reciproca. E la fiducia ha come prima condizione il rispetto della parola data. L’impegno politico – che è una delle più alte espressioni della carità – porta la preoccupazione per il futuro della vita e del pianeta, dei più giovani e dei più piccoli, nella loro sete di compimento. Quando l’uomo è rispettato nei suoi diritti – come ricordava San Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in terris (1963) – germoglia in lui il senso del dovere di rispettare i diritti degli altri. I diritti e i doveri dell’uomo accrescono la coscienza di appartenere a una stessa comunità, con gli altri e con Dio (cfr ivi, 45). Siamo pertanto chiamati a portare e ad annunciare la pace come la buona notizia di un futuro dove ogni vivente verrà considerato nella sua dignità e nei suoi diritti”.


sabato 24 novembre 2018

GESU', UN RE AL CONTRARIO

Dal Vangelo secondo Giovanni - Gv 18, 33-37
In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

Commento di p. Enzo Bianchi

Siamo giunti alla fine dell’anno liturgico B, nel quale abbiamo ascoltato nella liturgia domenicale il vangelo secondo Marco. Domenica scorsa l’annuncio del Veniente, il Figlio dell’uomo (cf. Mc 13,26), ci ha rallegrati, perché questa è la nostra speranza, la nostra attesa: che il Signore Gesù venga nella gloria e venga presto.
Oggi, in verità, celebriamo un aspetto di questa venuta nella gloria, attraverso il quarto vangelo, che con audacia profonda sa leggerla già nella storia di Gesù di Nazaret, addirittura nella sua passione. In essa avviene un’epifania: proprio quando Gesù è nel pretorio romano di Gerusalemme, consegnato dai capi dei giudei, si confessa davanti a Pilato “Re dei giudei”, cioè loro Messia, unto e inviato da Dio al suo popolo. Ma attenzione: nel quarto vangelo Gesù è un Re paradossale, un “Re al contrario”, perché non ha il potere mondano, la gloria dei re della terra, non si fregia dell’applauso della gente, non appare in una scenografia trionfale. Al contrario, proprio nella nudità di un uomo trattato come schiavo, quindi torturato, flagellato, financo incoronato di spine, si rivela quale unico e vero Re di tutto l’universo, con una gloria che nessuno può strappargli, la gloria di chi ama il mondo fino alla fine (cf. Gv 13,1), di chi sa dare la vita per gli uomini (cf. Gv 15,13), rimanendo nell’amore (cf. Gv 15,9): dunque, gloria dell’amore vissuto e dell’amore mai contraddetto.
Ma cerchiamo di leggere con obbedienza il racconto di questa scena, o meglio di questa “epifania”. La passione secondo Giovanni (cf. Gv 18,1-19,42), si compone di undici scene, ognuna situata in uno dei diversi luoghi in cui Gesù è stato trascinato dai suoi persecutori. Al centro sta la scena (la sesta) dell’incoronazione di spine, che nella passione giovannea è il vertice della rivelazione dell’identità di Gesù (cf. Gv 19,1-3). Gesù è stato flagellato come uno schiavo e i soldati si accaniscono contro di lui. Per smentire la sua pretesa regale, gli mettono sul capo una corona di spine, che lo trafiggono e lo sfigurano, e lo rivestono di un manto di porpora come quello dei re della terra. Questa intronizzazione prevede l’omaggio dei sudditi e i soldati dunque si prostrano a lui e gli fanno doni mentre, dandogli schiaffi, così lo salutano: “Salve, Re dei giudei!” (Gv 19,3). È una scena oggettivamente di derisione, una parodia, ma nel vangelo secondo Giovanni è vera epifania, perché in essa è rivelata la vera regalità di Gesù, servo del Signore e vittima innocente del male del mondo.
La scena-epifania descritta nella pericope odierna è precedente (la quarta), quando i capi dei giudei hanno ormai consegnato Gesù al procuratore romano, perché lo condanni a morte come malfattore. Pilato, che non vorrebbe interessarsi della sorte di questo giudeo, a causa della pressione degli accusatori entra nel pretorio, fa chiamare Gesù e lo interroga. Innanzitutto gli chiede ciò che più gli interessa: “Sei tu il Re dei giudei?”. Ovvero: “Tu vanti un potere politico su questa terra e su questa gente?”. Questo, infatti, può essere un attentato al potere imperiale romano, un’insidia per Cesare. Ma Gesù non gli risponde subito, ponendogli invece a sua volta una domanda: “Tu, che non sei ebreo, ma appartieni alle genti, ai gojim, mi fai questa domanda mosso da una ricerca personale o semplicemente perché sei istigato dai miei accusatori?”. Insomma, Pilato è manipolato dai capi dei giudei o la sua domanda nasce da una mozione interiore?
Pilato, però, non comprende e mostra anzi il profondo disprezzo verso i giudei e anche verso Gesù, un uomo legato, consegnato a lui, inerme e per nulla bellicoso. Ripete solo a Gesù che sono proprio i suoi connazionali, i capi religiosi dei giudei, ad averlo dato in balia del suo potere di procuratore romano a Gerusalemme. Segue dunque la domanda: “Che cosa hai fatto per poter essere da loro incolpato, quale delitto contro la legge hai commesso?”. Ed ecco che Gesù fa la rivelazione: “Il Regno, quello mio, non è di questo mondo”. Quello di Gesù non è un regno che si instaura con la violenza della spada, non ha soldati pronti alla guerra, non è un potere tra i poteri di questo mondo, in concorrenza tra loro. Non è possibile nessuna concorrenza, tanto meno una conciliazione tra il Regno che Gesù annuncia e i regni che sono sulla terra. Il Regno di Gesù è altro: non è dominio ma servizio, è portatore di vita non di morte, è pace, giustizia e non può essere neppure compreso a partire dall’esperienza dei poteri di questo mondo.
Ma Pilato non riesce a reggere questa risposta di Gesù, non riesce a sintonizzarsi sulle sue parole. Non può fare altro che dirgli: “Dunque tu sei re?”, cioè pretendi – condannato come sei, in mio potere, ridotto a “cosa”, consegnato a me dai capi dei giudei e da me consegnabile alla morte – di essere re? Gesù allora replica: “Tu lo dici: io sono Re. Per essere Re sono nato e sono venuto in questo mondo, con una missione che mi chiede semplicemente di essere testimone della verità: testimone della verità sull’uomo che è chiamato a essere figlio di Dio; testimone della verità che deve essere ‘fatta’, realizzata da ogni uomo e da ogni donna; testimone della verità di un Dio, mio Padre, che ha tanto amato l’umanità da darle suo Figlio (cf. Gv 3,16)”. Stiamo attenti: la verità non è una realtà astratta, non è neppure riducibile a una dottrina o a un’etica, ma è innanzitutto una “vita”, la vita di Gesù, la vita di un uomo conforme alla volontà di Dio, la vita di un uomo che dona se stesso amando fino alla morte, dunque la vita di Dio stesso che Gesù vive in sé e narra umanamente a tutti quelli che lo incontrano, lo vedono, lo ascoltano.
In questa risposta a Pilato, dunque in questa epifania, Gesù è Re più che mai, Re dell’universo, Re di tutta l’umanità, perché è lui l’umanità autentica come Dio l’ha pensata, voluta e creata. Qui Gesù si mostra Re più che mai, perché non ha nessuna paura, perché regna su tutto ciò che lo attornia e su tutto ciò che accade; domina gli eventi, resta libero e parla, agisce solo per amore: regna con la stessa regalità con la quale regna Dio! Se c’è un’ora in cui il Regno di Dio è venuto, è stato in mezzo a noi e si è rivelato, è stato narrato, questa è l’ora della passione e della croce. Comprendiamo allora perché l’evangelista subito dopo annota che Pilato, rivolgendosi alla folla e ai capi dei giudei, proclama per due volte che Gesù è innocente, che non c’è in lui alcuna colpa secondo il diritto romano (cf. Gv 18,38; 19,4; e ancora in 19,6); poi, dopo averlo fatto flagellare (cf. Gv 19,1), lo presenta a tutti con le parole: “Ecco l’uomo!” (Gv 19,5). Pilato però – ci rivela sempre l’evangelista – durante quell’interrogatorio ha paura, e quando sente che, secondo l’accusa, Gesù si è fatto Figlio di Dio, “ha ancor più paura” (cf. Gv 19,7-8). I poteri di questo mondo possono non avere paura l’uno dell’altro, e per questo si fanno guerra; ma di fronte a Gesù “hanno paura”, perché Gesù indifeso, inerme, mite, povero, innocente, regna veramente ed è lui il Re e il Giudice di tutto l’universo.
Questo titolo di Re di Israele, di Re dei giudei, nel vangelo secondo Giovanni è decisivo riguardo all’identità di Gesù. Fin dall’inizio del vangelo risuona sulle labbra di Natanaele, nell’ora della sua vocazione e del suo primo incontro con Gesù (cf. Gv 1,49): confessione di fede che riconosce il Messia, discendente di David, Re-Figlio di Dio, colui che adempie la promessa di Dio per il suo popolo e porta la liberazione, la giustizia e la pace. Proprio nell’attesa del compimento di questa promessa, la speranza messianica era viva al tempo di Gesù ma si era caricata di attesa politica, di desiderio di sovranità mondana! Per questo, quando le folle avevano visto il segno della moltiplicazione dei pani, volevano prendere Gesù per farlo re (cf. Gv 6,14), ma non vi riuscirono perché egli fuggì da loro ritirandosi nella solitudine della montagna (cf. Gv 6,15). Ma anche quando Gesù entra in Gerusalemme per la sua ultima Pasqua, la folla gli va incontro con rami di palma, acclamandolo “Re d’Israele veniente, benedetto nel nome del Signore (Gv 12,13). Eppure anche quell’evento non viene capito nel suo significato, nemmeno dai suoi discepoli (cf. Gv 12,16).
Solo ora, nella passione, la regalità di Gesù è svelata ed è significativamente rifiutata da quelli che gridano la bestemmia: “Non abbiamo altro re all’infuori di Cesare” (Gv 19,15), del potere mondano. Tuttavia quando Gesù sarà in croce, il cartello voluto da Pilato nelle tre lingue dell’ecumene – ebraico, greco e latino – proclamerà la verità: “Gesù Nazoreo è il re dei giudei” (Gv 19,19). Sì, “ogni lingua confessa che Gesù è Signore” (Fil 2,11), Kýrios, a partire dalla croce!
Ecco dunque il fondamento della celebrazione di questa festa di Cristo Re, che è stata ricompresa dalla riforma liturgica del Vaticano II, grazie alla scelta delle letture evangeliche che presentano Gesù quale Re nella passione (il testo odierno nell’annata B e Lc 23,35-43 nell’annata C) e quale Giudice veniente nella misericordia (Mt 25,31-46 nell’annata A).
p. Enzo Bianchi 


LE SCUOLE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE - Concorso nazionale per gli studenti

In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne 2018, che si celebrerà domani domenica 25 novembre, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha lanciato il concorso nazionale “Nuovi finali – le scuole contro la violenza sulle donne”, rivolto agli studenti delle scuole secondarie di I e II grado.
Con una circolare inviata a tutti gli istituti coinvolti, il MIUR invita studentesse e studenti ad analizzare gli stereotipi di genere contenuti in opere letterarie e di animazione, fumetti, film, pubblicità, videogiochi e programmi televisivi. Dopo averli individuati e analizzati, i ragazzi dovranno mettere in scena la situazione approfondita e proporre la versione originale e una con un finale differente. Il tutto, secondo quanto richiesto dal bando del concorso, dovrà essere ripreso e montato in un video della durata massima di 1 minuto. Le due scene dovranno avere la durata massima di 30 secondi ciascuna. I video prodotti dovranno essere accompagnati da una relazione del lavoro svolto che dovrà contenere il nominativo e i riferimenti del docente referente, l’elenco dei materiali analizzati e le metodologie utilizzate. Le scuole, che potranno partecipare anche con più di un video, avranno tempo per caricare i materiali realizzati dal 15 dicembre 2018 al 28 febbraio 2019. Una commissione appositamente costituita valuterà e selezionerà i progetti migliori che verranno premiati nel corso di un evento nazionale sul tema, che avrà luogo in occasione del 25 novembre 2019.
Nella stessa circolare, il Ministero invita tutte le istituzioni scolastiche ad approfondire con i propri studenti i temi correlati all’eliminazione della violenza contro le donne per sensibilizzare, prevenire e contrastare ogni forma di violenza e discriminazione.


venerdì 23 novembre 2018

SCUOLA. INSEGNARE COSE ALTE

Insegnare “cose alte” 
partendo dalle relazioni

Ormai sono anni che la scuola è sotto accusa, non solo in Italia. Il disagio giovanile sembra avere nella scuola una propria immagine speculare in una sorta di corsa al ribasso. Eppure la scuola continua a essere una grande opportunità di crescita. In un contesto come quello attuale, ma in parte è sempre stato così, molto dipende dalla fortuna di incontrarsi con i professori giusti. A volte ne basta anche solo uno, che sappia entrare in relazione, che conosca la chiave per suscitare interesse, attenzione. Chiave che, oggi come sempre, è il potere affabulatorio che nasce dal racconto. 
Da quel dire e ascoltare storie che resta il modo più vero ed efficace per entrare in relazione e creare quel “rapporto nella verità” che consente al docente di trasmettere il proprio sapere. In questo libro di Andrea Monda, molti fra i più pessimisti potranno scoprire che insegnare “cose alte” ed educare allo spirito critico nella scuola di oggi è ancora possibile. Monda è dal 2000 un insegnante di religione nelle scuole superiori. Nel settore è abbastanza noto per la trasmissione Buongiorno professore che conduce su Tv2000, per molte collaborazione su giornali, fra i quali Avvenire e per alcuni libri. Tutti luoghi mediatici in cui racconta le sue esperienze di educatore come, appunto, anche in questo suo ultimo testo: Raccontare Dio oggi. 
Entrare in relazione per raccontare, raccontare per entrare in relazione. Questa è la strada di Monda: «Contro l’indifferenza questo è il possibile rimedio, tessere relazioni... I ragazzi lo sanno sulla loro pelle già ferita anche se giovane: oggi la cosa più difficile è la “manutenzione” delle relazioni. Non hanno fiducia nelle relazioni perché ne conoscono tutta la fragilità»: l’hanno vista nelle loro famiglie, nelle scelte di adulti che sembrano bambini, rilanciata in maniera estenuante da tutti i media, la vivono tutti i giorni nella “liquidità” delle loro amicizie, nella banalità relazionale dei social. 
Eppure «la relazione è l’unico antidoto a quell’inaridimento che porta all’indifferenza generalizzata verso tutto e tutti, al vuoto che nasce dall’estraneità e conduce alla banalizzazione di ogni fatto della vita». È per scardinare questa sfiducia, questo pessimismo esistenziale che l’arma del racconto diventa fondamentale per un insegnante, soprattutto se insegna religione, l’unica materia non obbligatoria, l’unica che si propone in una sola ora a settimana parlando di qualcosa che appare sempre più lontano dalla vita quotidiana.
Un’arma che bisogna saper usare con quell’inventiva che serve a stupire, a spiazzare, a far crescere l’urgenza di avere risposte. Perché il racconto giusto può nascere, per esempio, da un film che i tuoi interlocutori hanno visto da bambini.
Molto istruttive, in questo senso, sono le pagine dedicate a film di animazione come Il re leone, Kung Fu Panda, Ratatouille, Monster & Co... La logica di osservazione e analisi è quella collaudata di: racconto, verità, libertà. Da lì si può poi passare a Tolkien, a Chesterton, a Cormac McCarthy, al Grande Inquisitore dei Karamazov e, perché no, alla Bibbia.

Andrea Monda, RACCONTARE DIO OGGI, Città Nuova. Pagine 157. Euro 16,00



giovedì 22 novembre 2018

DIRITTI DEI BAMBINI: SPECIALE DOVERE PER LA COMUNITA'

Diritti bambini: Commissione bilaterale delegazioni Gran Rabbinato d’Israele e 
Santa Sede, “speciale dovere verso i membri più deboli delle nostre comunità”

“La Commissione ha apprezzato i significativi progressi nella società moderna riguardo al tema dei diritti umani, che hanno trovato espressione nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e, in particolare, nella Convenzione del 1989 sui Diritti del Bambino. 
Tali principi di inviolabilità della vita umana e dell’inalienabile dignità umana della persona trovano piena espressione nella relazione tra l’individuo e il Divino e tra l’individuo e il suo prossimo, il che implica il dovere di realizzare questa relazione nella dimensione sociale. 
Abbiamo uno speciale dovere verso i membri più deboli delle nostre comunità, e in particolare verso i bambini, garanti delle future generazioni, che non sono ancora in grado di esprimere tutte le loro potenzialità e di difendersi da soli”. 
È quanto si legge nella dichiarazione congiunta firmata dalla Commissione bilaterale delle Delegazioni del Gran Rabbinato d’Israele e della Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’Ebraismo, al termine della riunione che si è tenuta a Roma dal 18 al 20 novembre. 
I partecipanti, che il 19 novembre sono stati ricevuti da Papa Francesco, hanno osservato che “il rispetto della dignità personale dei bambini deve inoltre esprimersi con l’offrire loro un’ampia serie di stimoli e strumenti per sviluppare le loro capacità di riflessione e di azione. 
È necessario che i bambini non soltanto si sentano oggetto di attenzione appropriata e amorevole, ma altresì che essi vengano impegnati attivamente, in modo tale che le loro potenzialità cognitive e pratiche siano sviluppate. 
Affinché ciò si realizzi in armonia con i principi sopra menzionati, occorre coltivare relazioni d’amore autentico e stabile, e garantire nutrimento adatto, salute e protezione, così pure la necessaria educazione religiosa e scolastica, l’insegnamento informale e la coltivazione della creatività”.




EDUCAZIONE DIGITALE E DEMOCRAZIA

WEB - CI VUOLE PIU' EDUCAZIONE
Un saggio dello studioso Bartlett spiega come le tecnologie, soprattutto i social network, abbiano portato sulla scena nuove folle digitali che spesso costituiscono una seria minaccia per le istituzioni
Rischiano di venir meno una cittadinanza attiva e dotata di autonomia intellettuale, una cultura condivisa, elezioni libere e corrette... Ma il migliore antidoto è la formazione, sia per arginare la manipolazione sia la passiva accettazione della disinformazione

Leggendo molte delle riflessioni condotte sul potere pervasivo delle fake news, si può avere la sensazione di un déjà-vu. E si può finire col ritrovare nella vecchia Psicologia delle folle di Gustave Le Bon una formidabile anticipazione di quella sorta di vertigine che sperimentiamo oggi. «Mentre le nostre antiche credenze vacillano e dispaiono, mentre le vecchie colonne della società crollano una dopo l’altra», scriveva Le Bon nell’incipit del suo pamphlet più celebre, «l’azione delle folle è l’unica forza che nulla minaccia e il cui prestigio cresce sempre». Ma l’«era delle folle» era soprattutto l’annuncio di un imminente cataclisma, destinato a dissolvere le basi stesse dell’ordine sociale. «Quando l’edificio di una società è tarlato», osservava Le Bon, «le folle ne determinano il crollo». Se cioè le orde dei barbari avevano dissolto la civiltà dell’impero romano, le nuove folle potevano solo distruggere la società esistente, senza essere in grado di costruire nulla di solido.
Anche Jamie Bartlett, direttore del Centro per l’analisi dei social media del think-tank Demos, nel suo libro The People Vs Tech. How the internet is killing democracy (and how we save it) (Ebury Press, pagine 242), sostiene che la rivoluzione comunicativa dell’ultimo ventennio abbia portato sulla scena la potenza distruttiva di nuove folle digitali. La visione di Bartlett - lo si intuisce già dal titolo del suo testo - è agevolmente ascrivibile alla schiera dei “tecno- pessimisti”, che vedono nello sviluppo tecnologico una seria minaccia alle istituzioni democratiche. Molto probabilmente, sostiene infatti, nei prossimi anni verranno progressivamente erosi tutti quei pilastri su cui si è retto l’edificio della democrazia rappresentativa: una cittadinanza attiva e dotata di autonomia intellettuale, una cultura condivisa, elezioni libere e corrette, un’ampia classe media, un’economia competitiva, una società civile indipendente dallo Stato e una diffusa fiducia nei confronti dell’autorità. Per motivi in gran parte (anche se non solo) connessi con le trasformazioni tecnologiche, tutti questi “pilastri” sono però già oggi minacciati da processi di logoramento sempre più visibili. Innanzitutto, la “datizzazione” e le tecniche predittive basate sugli algoritmi, oltre a rappresentare un rischio per la nostra privacy, profilano un tipo di scelta affidata alle macchine e sottratta agli individui. Il punto è che potremmo convincerci (più rapidamente di quanto pensiamo) che le decisioni assunte dagli algoritmi siano più efficaci, più oggettive e più “giuste” di quelle che adotterebbero degli esseri umani. E che siano dunque più efficaci di quelle adottate a seguito di processi di discussione democratica. L’economia del futuro potrebbe inoltre aumentare ancora di più le diseguaglianze, in particolare riducendo l’ampiezza della classe media. I grandi giganti del web potrebbero estendere ancora di più le reti del loro controllo sui diversi settori produttivi, avvicinandosi a costituire veri e propri monopoli e aumentando così la loro influenza sulla società. E la stessa autorità dello Stato potrebbe alla fine collassare.
Tra le tendenze destinate secondo Bartlett a mettere in crisi l’edificio della democrazia rappresentativa, la più suggestiva riconduce però probabilmente proprio alla vecchia immagine delle folle distruttive evocata da Le Bon. Fino a un decennio fa, molti guardavano a internet come a una grande agorà virtuale, in cui si sarebbe realizzata una nuova democrazia diretta. Le cose sono andate molto diversamente. E in particolare, i social media, invece di diventare uno strumento di discussione e confronto, si sono rivelati un formidabile canale di polarizzazione. In altre parole, invece di attenuare le differenze, le nuove tecnologie comunicative hanno esasperato le distanze. Bartlett ritrova nella crescita della polarizzazione una conferma della vecchia previsione di Marshall McLuhan, secondo cui il villaggio globale avrebbe prodotto una nuova ondata di “ri-tribalizzazione”. La comunicazione digitale sembra in effetti favorire l’“omofi-lia”, ossia la tendenza a rivolgersi e a scambiare opinioni con persone che condividono le medesime preferenze. Una conseguenza è, dunque, la formazione di “tribù” sempre più convinte delle loro opinioni e insofferenti nei confronti degli avversari. Ma un’altra dalle implicazioni cruciali per le sorti della democrazia è lo sgretolamento di quella cultura condivisa in grado di attenuare i conflitti e di trasformare dunque i “nemici politici” in avversari con cui è possibile discutere e trovare un compromesso.
Naturalmente il pessimismo di Bartlett lascia più di qualche spazio per immaginare il futuro in modo meno cupo. Ma, a ben vedere, non tutte le venti «idee per salvare la democrazia», con cui si conclude il volume, sembrano agevolmente realizzabili. Un punto centrale rimane senza dubbio la necessità di aggiornare le leggi che regolamentano le campagne elettorali, tenendo conto di come sono cambiate le tecniche di mobilitazione negli ultimi dieci anni. Non è comunque sorprendente che le contromisure forse più importanti ma tutt’altro che semplici da realizzare - riguardino lo stesso atteggiamento dei cittadini nei confronti delle tecnologie, dalla tendenza a delegare alle macchine la responsabilità delle nostre scelte, alla dipendenza compulsiva da internet, alla passiva accettazione della disinformazione. Naturalmente sul futuro dei nostri sistemi politici pesano molte altre incognite, alcune delle quali legate anche a dinamiche “strutturali”. Ma è davvero probabile che la salvaguardia dei “pilastri” dell’edificio democratico passi anche dalla conquista di una maggiore consapevolezza sui rischi di manipolazione delle nuove tecnologie. Perché proprio una simile “educazione digitale” può consentire all’homo democraticus di non cedere all’abbraccio seduttivo delle nuove folle.



sabato 17 novembre 2018

E IL FIGLIO DELL’UOMO CI VIENE A CERCARE - Domenica 18 novembre

Mc 13, 24-32 
Dal Vangelo secondo Marco
24In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà,la luna non darà più la sua luce, 25le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.   26Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. 27Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.  28Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina.   29Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è Vicino, è alle porte.30In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga.    31Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.32Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre.

Commento di don Fabio Rosini, biblista

L’anno liturgico volge al termine e la liturgia ci regala una parte del capitolo 13 del Vangelo di Marco dove si spazia dal parlare della fine dei tempi alla profezia sulla distruzione di Gerusalemme del 70 dopo Cristo. Ma qual è l’argomento? La fine di tutto o “solo” di Gerusalemme? Le lingue ebraico-aramaiche tendono alla “polisemia”. Vuol dire che una sola parola ha sempre tanti sensi: “poli”, molteplice, “semia”, significato.
Come mai questa pedante spiegazione? Perché il testo di questa domenica non può essere letto senza tener conto di questa caratteristica della mentalità semitica, e se descrive qualcosa di storico, in realtà include anche qualcosa di meta-storico, la fine delle cose. E non solo – che è poi l’aspetto più importante.
Cosa dice della fine? Che è il tempo in cui il sole e la luna si oscurano e le stelle cadono dal firmamento. È il rovesciamento del quarto giorno della creazione, il crollo dell’ordine stabilito. Ma è in quel momento che il Figlio dell’uomo arriva, come una seconda creazione, ed è l’occasione in cui gli angeli vanno a radunare gli eletti.
La natura, che segnala i suoi cambiamenti di stagione, funge da paradigma: se per vedere che l’estate è vicina si guarda all’evoluzione dell’albero di fico, allora per capire che il Figlio dell’uomo sta arrivando bisogna guardare a quei segnali cosmici di sconvolgimento.
E poi c’è la più sibillina delle frasi: «Non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga»… e allora Gesù parlava solo a quelli che lo ascoltavano? Per chi è dunque questo discorso? Sia per la fine dei tempi che per la distruzione di Gerusalemme del 70 dopo Cristo, ma anche per quelli che lo ascoltavano. Infatti nella passione e morte di Cristo il sole si oscura e la creazione è sconvolta. E al terzo giorno il Figlio dell’uomo si mostra ai suoi risorto e inaugura una vita che non è secondo questo mondo, quella che il Battesimo offre.

CONVERSIONI AUTENTICHE.
Ma questo non è neanche solo per quella generazione: è anche per la nostra.
Perché succede proprio questo nella storia di ogni conversione autentica e nei salti di qualità della fede: le potenze celesti che non funzionano più sono i nostri punti di riferimento che crollano, quando il nostro pantheon personale ci delude e la luce in cui abbiamo confidato si rivela fasulla. Quello è il momento del Figlio dell’uomo.
Certe crisi personali sono molto più che benedette. Certe delusioni che abbattono le colonne della nostra esistenza sono una visita di Dio. Il giorno del Signore è quel momento in cui subiamo un azzeramento, e capiamo di vivere di stupidaggini. Una malattia lo fa, ti fa crollare il sole e le stelle. Un cambiamento repentino può relativizzare tutto. Allora il Figlio dell’uomo manda a cercare il nostro cuore, e setaccia i suoi eletti, cerca la verità che è in noi. E chi lo accoglie si scrolla di dosso tanta spazzatura.
In greco crisis vuol dire valutazione, discrimine, chiarimento, giudizio. Benedette le crisi. In esse il Figlio dell’uomo ci viene a cercare.