Le competenze non cognitive sono le competenze trasversali come la capacità di gestione dello stress, l'empatia, il problem solving, la motivazione e la proattività, non sono quindi le abilità linguistiche, logico-matematiche, scientifiche e tecnologiche.
Quali strade può ancora
scoprire e percorrere la scuola per migliorare la qualità della propria offerta
e dei propri risultati? Le competenze non cognitive come e perché possono
rappresentare una risorsa?
La scuola è
innegabilmente un agente di trasformazione sociale potente e incisivo, un
ambiente formativo che per un lungo periodo della nostra vita e in anni in cui
la sensibilità al cambiamento è maggiore contribuisce a farci crescere come
persone e come cittadini.
È proprio la
consapevolezza del valore di quello che accade tra le mura scolastiche ad
animare il desiderio e lo sforzo di riflettere e interrogarci su una realtà
che, per sua natura e in ragione della sua mission, è costantemente tesa al
miglioramento.
Questa dinamicità ci
rende attenti a osservare gli aspetti che suscitano allerta, ma anche a
scoprire opportunità che possono aprire a un positivo mutamento in vista del
conseguimento del successo formativo per tutti.
È un argomento del quale
abbiamo avuto occasione di parlare più volte, sulle pagine di INVALSIopen
e in molte altre occasioni in cui abbiamo incontrato in presenza o in rete
insegnanti, dirigenti scolastici e altri esperti che a vario titolo sono
interessati a comprendere e promuovere il sistema scolastico.
Con loro abbiamo
ragionato su quali possano essere le leve sulle quali agire per rendere
tangibile l’obiettivo posto dalle Nazioni Unite per il 2030, ormai piuttosto
vicino, di assicurare un’istruzione equa e inclusiva e promuovere opportunità
di apprendimento nel corso dell’intera vita per tutti. In pratica su come
rinnovare la scuola e migliorarne le qualità per rispondere alle sfide
socioculturali in atto e a quelle in arrivo.
Se guardiamo alle
Rilevazioni nazionali degli ultimi tre anni qualche motivo di perplessità e in
certa misura di preoccupazione sorge. I dati ci dicono infatti che nel nostro
Paese, come accade anche a livello internazionale, il titolo di studio dei genitori
è un fattore che pesa in misura ancora troppo rilevante sui risultati
conseguiti dai giovani e ciò indica che la scuola non riesce a ridurre
l’impatto della diversa provenienza socioculturale.
Si potrà dire forse che
sono cose note, questioni antiche già più volte discusse, ma se è così perché
allora non interrogarci su come reagire a questo stato di cose e sperimentare
ipotesi di intervento e piste di lavoro forse non ancora percorse in rapporto
ai problemi che i dati evidenziano? Quali possono essere le alternative per
sostenere i ragazzi e le ragazze laddove le famiglie fragili offrono minori
risorse a supporto dei percorsi scolastici dei figli?
La sensibilità
pedagogica, a livello di ricerca e di lavoro sul campo, è attenta da diverso
tempo alla necessità di promuovere negli studenti lo sviluppo delle competenze
non cognitive, un bagaglio al quale appartengono capacità come saper
comunicare, lavorare in gruppo, tenere testa allo stress, avere fiducia in se
stessi, delle quali si riconosce sempre più la rilevanza in ogni ambiente di
vita, a scuola come nel lavoro, per esercitare pienamente il diritto di
cittadinanza e godere delle opportunità che la società offre.
La risposta è semplice e
suffragata da esperienze condotte in Paesi nei quali l’attenzione a contrastare
possibili sprechi nell’offerta di opportunità formative, a vantaggio della
qualità del sistema scolastico, si è avviata prima che da noi: si inizia a
lavorare già dallo spazio educativo 0-6 anni, sul quale il PNRR ha concentrato
molta attenzione.
L’intervento precoce,
infatti, è molto probabilmente uno strumento in più per impedire l’accumularsi
di svantaggi che sarebbe sempre più difficile recuperare con l’avanzare
dell’età evolutiva e del percorso scolastico.
Questa consapevolezza
delle opportunità che le competenze non cognitive – in continuità con quelle
cognitive e non affatto disgiunte da queste – aprono per contrastare quelle
carenze formative che nel tempo si tradurrebbero con ogni probabilità in dispersione
scolastica, ci rimanda a un’altra necessità imprescindibile, quella di valutare
scientificamente l’impatto di progetti che oggi sono sperimentali e dai quali
devono derivare indicazioni metodologiche e didattiche da applicare su ampia
scala.
Si
tratta evidentemente di un percorso impegnativo e di una responsabilità che al
di là del valore scientifico rimanda al valore etico del fare scuola.
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