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di Giuseppe Savagnone*
Per una volta tutti gli osservatori concordano su
un dato di fatto che appare indiscutibile: la vincitrice di queste elezioni
europee, in Italia – e non solo in Italia – è Giorgia Meloni.
Ha impostato la campagna elettorale come un
referendum, non tanto sul modello di Europa, quanto sulla sua persona –
«scrivete Giorgia» – , e l’ha avuto: 2 mln e mezzo di voti, un trionfo.
Voleva un referendum sul suo partito, Fdi, e c’è
stato: il 26% delle politiche, indicato alla vigilia come il risultato da
confermare, è stato ampiamente superato da un risultato che si avvicina al 29%,
il triplo dei voti degli alleati di Forza Italia (9,7%) e Lega (9,1%).
Voleva un referendum sul governo, a più di un anno
e mezzo dalla sua entrata in carica, e tutti e tre i partiti che lo compongono
escono rafforzati, in percentuale, rispetto alle politiche, dalla tornata
elettorale.
Il successo della Meloni è reso più clamoroso se lo
si colloca in un quadro europeo che ha visto tutti i partiti di governo più o
meno pesantemente sconfitti e che consente perciò alla nostra premier di
presentarsi alla guida del G7 come l’unica “anatra saltellante” – come ha
scritto Paolo Garimberti – in un consesso di “anatre zoppe”.
L’astensionismo
Eppure, non mancano, in questo quadro radioso,
delle ombre. Per la prima volta, alle elezioni europee è andato a votare meno
di un italiano su due degli aventi diritto. La partecipazione si è attestata al
49,7%, cinque punti percentuali in meno rispetto alla precedente tornata
elettorale del 2019, quando avevano votato il 54,5%.
È il punto
più basso una linea in continua discesa. Nel 1979, prima elezione a suffragio
universale dell’europarlamento, aveva votato oltre l’85% degli italiani. Da
allora l’affluenza alle urne ha subito un calo continuo e inesorabile. Il più
vistoso è stato quello che dall’81,07% del 1989 – ancora nel quadro della Prima
Repubblica – la fece precipitare al 73,60% del 1994, quando si era da poco
insediato il primo governo di Silvio Berlusconi. Per scendere poi al 71,02% del
2004, al 65,05% del 2009, al 57,02% del 2014 e al 54,05% del 2019. E ora siamo
al 49,69%.
Un calo che corrisponde, del resto, a quello
registrato alle politiche che, il 25 settembre 2022, hanno visto un’affluenza
alle urne pari al 63,9%, anche in questo caso il dato più basso di sempre,
nettamente in diminuzione anche rispetto al 2018, quando ai seggi elettorali si
è recato il 72,93% degli aventi diritto al voto.
Per avere un’idea delle proporzioni del fenomeno,
si pensi che fino al 1979 la percentuale dei votanti non era mai scesa sotto il
90% e ancora nel 2001era stata dell’81,35%. A quanto pare, la Seconda
Repubblica – nata, alla fine del secolo scorso, con la “discesa in campo” di
Berlusconi, sull’onda di una reazione nei confronti della Prima e della “casta”
che la governava – , ha dato luogo, invece che a un rafforzamento della
partecipazione democratica, a un crescente distacco della gente dalla politica.
Qualcuno obietterà che quello dell’8 e 9 giugno è
il risultato di elezioni europee, tradizionalmente meno sentite
dall’elettorato. Ma proprio queste ultime, come abbiamo prima notato, sono
state interpretate in chiave quasi esclusivamente nazionale.
Basti ricordare che il voto alla Meloni era chiesto
non per farla andare al Parlamento europeo
– ovviamente impensabile, dato il suo ruolo – ma per esprimere il consenso alla sua linea
politica in Italia.
Le percentuali e i numeri reali
È la riduzione di votanti causata
dall’astensionismo a spiegare come mai i tre partiti che compongono la
maggioranza di governo, pur mantenendo alte percentuali relative, abbiano in
realtà raccolto, in questa tornata elettorale, circa 11 milioni di voti,
rispetto ai 13,2 milioni delle precedenti elezioni europee del 2019 (quando non
erano tutti e tre insieme al governo), perdendo ben 2,2 milioni di voti. Che
non è poco. Col risultato che l’attuale coalizione di governo che, dopo le
politiche rappresentava il 24,7% del corpo elettorale, ora è scesa addirittura
al 22,7%.
Anche rispetto alle ultime elezioni politiche
Fratelli d’Italia, ha sì accresciuto la propria quota percentuale dal 25,98% al
28,81%, ma perdendo qualcosa come 600 mila voti: da 7,3 a 6,7 milioni.
Anche la Lega, pur crescendo dall’8,79% al 9%, ha
perso, rispetto alle politiche, 380 mila consensi: nonostante la valanga di 500
mila preferenze per il generale Vannacci. Unico partito nell’attuale
maggioranza a rimanere quasi stabile dal punto di vista numerico è Forza
Italia.
La fuga del Meridione
A questa flessione, mascherata dalle percentuali
(che tengono conto non degli aventi diritto ma solo degli effettivi votanti),
si aggiunge un altro motivo che dovrebbe far riflettere chi è al governo, ed è
il fatto che l’astensionismo si è verificato soprattutto al Sud.
In Sardegna e in Sicilia (circoscrizione Isole), ad esempio, si è registrato un tasso di partecipazione del 37,31% mentre nel resto dell’Italia meridionale (circoscrizione Sud) non è andato oltre il 43,73%. Insomma, mentre le altre tre circoscrizioni – quella Nord Occidentale, quella Nord Orientale e quella Centrale hanno superato ampiamente il 50% dei votanti, in queste il 60% degli elettori ha disertato le urne. La gente del Meridione abbandona la politica e lo Stato, da cui non sente rappresentata. E si capisce.
Ha commentato un noto economista, Emanuele Felice,
in un articolo intitolato «Il Sud tradito si vendica delle destre. I dubbi di
Meloni sull’autonomia»: «Il governo Meloni è uno dei più antimeridionali della
storia d’Italia e i cittadini del Sud se ne sono accorti. Hanno ormai capito,
innanzi tutto, che l’autonomia differenziata è stata un colpo mortale per il
Mezzogiorno. Senza risorse aggiuntive, che non ci sono né potranno esserci,
nelle regioni meridionali mancheranno presto i soldi per i servizi essenziali
ai cittadini, dai diritti fondamentali al funzionamento dell’amministrazione»
(«Domani» del 12/6/24).
Proprio in questi giorni il disegno di legge
sull’autonomia differenziata, che è già stato approvato al Senato, è in
discussione alla Camera, tra incidenti clamorosi e perfino violenze fisiche tra
maggioranza e opposizione. E passerà. Ma che cosa implica questo per il
rapporto del governo con il Sud?
Due riforme che si contraddicono
Forse la domanda potrebbe essere più radicale: che
cosa implica per il nostro paese? I vescovi italiani recentemente hanno messo
in guardia: «Il progetto di legge con cui vengono precisate le condizioni per
l’attivazione dell’autonomia differenziata rischia di minare le basi di quel
vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, che è presidio al principio di
unità della Repubblica».
È paradossale che la Meloni, formata a una
tradizione politica che sottolinea l’identità e l’unità della Nazione, si stia
assumendo la responsabilità storica di una riforma che, a detta di molti,
porterà inesorabilmente alla sua disintegrazione. I poteri assegnati alle
regioni autonome sono così ampi da renderle ben poco dipendenti dal governo
centrale. La nostra presidente del Consiglio insiste sulla necessità di un
premierato forte – la «madre di tutte le riforme» – , ma forse dovrebbe
chiedersi se questo progetto a lei così caro non sia in rotta di collisione con
quello che il suo governo sta di fatto varando, sotto impulso della Lega.
La verità è che nel programma elettorale della
destra le due spinte contraddittorie sono state entrambe accolte, allargando il
campo dei consensi e portando la coalizione alla vittoria. Ma ora i nodi
vengono al pettine. E ad avere la meglio sembra quella di Salvini e Calderoli,
realizzando l’originario sogno leghista di un Nord finalmente sganciato dalla
palla al piede del Sud e dalla dipendenza da “Roma ladrona”.
Ma così la Meloni rischia di diventare la premier
“forte” di un paese diviso tra un Nord che ormai, essendo autonomo, sarà poco
vincolato dalle sue decisioni, e un Sud sempre più immiserito e lontano dallo
Stato. Il suo sogno – una ragazza di borgata che alla fine diventa regina –
potrebbe allora trasformarsi nella triste scoperta di essere la regina del
nulla.
*Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura,
Arcidiocesi Palermo
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