Chi mantiene la facoltà di vedere la bellezza
non invecchia
-
-di Alessandro
D’Avenia
La vita offre spesso gli
indizi per risolvere un po' del suo mistero. La scorsa settimana ne ho ricevuti
alcuni che forse fanno una prova.
1. Ho visto un bambino
gattonare da solo. Avanzava, si fermava, si voltava a guardare il padre dietro
di lui, e poi riprendeva senza paura. Così, diverse volte, fino ad allontanarsi
tanto che molti erano in apprensione, ma non lui né il padre.
2. Ho incontrato i
ragazzi di alcune scuole. I loro insegnanti mi avevano mandato in anticipo le
domande suscitate dalla lettura di un libro, 50 domande tra cui questa: «Quale
consiglio può dare a noi giovani affinché non ci lasciamo bloccare dalla paura
di fallire?».
3. Una studentessa alle
prese con un tema di preparazione alla maturità, commentando i versi di una
poetessa, scriveva: «La poesia non è un'arte elitaria destinata a qualche
eletto, ma è prima di tutto un atteggiamento mentale che consta dell'amore per
la bellezza del quotidiano”.
4. Oggi è il centenario
della morte di Franz Kafka, uno degli autori che ho incontrato proprio
nell'anno della maturità e che da allora non ho smesso di frequentare. Ispirato
dall'anniversario ho letto Conversazioni con Kafka dello scrittore Gustav Janouch
che, da adolescente, poiché il padre lavorava nella stessa compagnia
assicurativa di Kafka, lo conobbe ed ebbe come amico e mentore. Che cosa hanno
in comune fatti così diversi?
I quattro indizi provano che la vita è un'esplorazione, spesso paurosa e faticosa, che può avvenire solo nella misura in cui apparteniamo a qualcuno. Che si tratti di un genitore, di un mentore, di un amore, di un autore conosciuto direttamente o attraverso i suoi scritti, per venire al mondo abbiamo bisogno, come nelle traversate difficili in montagna, di una corda, cioè di appartenenza, che non è certo vincolo e possesso, ma legame che rende stabili e permette di avanzare. In fondo la maturità (non l'esame) è diventare capaci, attraverso la cultura, di scoprire che niente e nessuno ci è estraneo, che la vita cresce per legami, dalle molecole alle grandi civiltà.
Questo soggettivamente accade solo se diventiamo consapevoli di quando e quanto «apparteniamo»: che cosa mi rende vivo, cioè che cosa mi lega profondamente e stabilmente alla vita, tanto da essere libero poi di avanzare? Essere vivi e non solo viventi è infatti essere in comunione. La cultura del farsi da soli genera individualisti in guerra con il mondo, e invece la vita fiorisce quando partecipiamo (ne siamo parte e facciamo la nostra parte) alla sua trama come uno dei suoi nodi. Kafka aveva la ferita dell'inappartenenza, come scrive nei suoi Diari: «La mia educazione ha fatto più guasti di quanto riesca a comprendere...
Questa imperfezione non è
innata e perciò è tanto più doloroso sopportarla. Anch’io infatti come
qualunque altro ho in me fin dalla nascita il centro di gravità che neanche la
più pazza educazione è riuscita a spostare. Ce l’ho ancora questo buon centro
di gravità, ma in certo qual modo non ho il corpo adatto. E un centro di
gravità che non lavori diventa piombo ed è fitto nel corpo come una pallottola»
(1910). Da questa ferita ogni sua riga sgorga come sangue: «Non c’è nessuno che
abbia comprensione di me nel mio complesso. Oh, possedere qualcuno che abbia
questa comprensione, vorrebbe dire essere sostenuto in ogni parte, avere Dio»
(1915). Per questo era attentissimo alle relazioni, come racconta Janouch
ricordando la propria adolescenza e riassumendo il ruolo di ogni mentore:
«Franz Kafka fu la prima persona a prendere sul serio la mia vita interiore, a
parlare con me come con un adulto, rafforzando la mia coscienza di me stesso.
Il suo interesse nei miei confronti era un regalo».
Grazie a questo interesse
il diciassettenne Gustav maturò consapevolezza di se stesso e la sua vocazione
artistica. Sorprende il ritratto, non privo di idealizzazione, che Janouch
confeziona all'autore di storie come La metamorfosi, Il processo, Nella colonia
penale, Il castello... eppure la luce, implicita nella minacciosa ombra di
questi racconti che hanno richiesto l'invenzione dell'aggettivo «kafkiano»,
mostra una ricerca di legami, orizzontali e verticali, che è altrettanto
«kafkiana». In merito Janouch riporta le parole dell'addetta alle pulizie
dell'Assicurazione presso cui lavorava Kafka: «È completamente diverso dagli
altri. Lo si capisce da come ti offre le cose. Gli altri te le danno di
nascosto, quasi ti feriscono. Non danno qualcosa, ma umiliano. Il dottor Kafka
invece ha un modo di donarti le cose che fa veramente piacere. Non mi tratta
come una vecchia donna di servizio». Janouch conferma: «Possedeva l’arte del
donare. Non mi diceva mai: “Prenda, glielo regalo” ma sempre soltanto: “Non
occorre che me lo restituisca”». Un giorno Gustav tra le lacrime confidò allo
scrittore la separazione violenta dei genitori: «Ascoltò con calma il mio
racconto rotto dall’agitazione, poi si alzò e disse: “Andiamo a fare il giro
dell’antica capitale.
I passeggiatori che si
rispettano solitamente iniziano bevendo un bicchiere di vino o di cognac. Noi
però non ci accontentiamo di un’ebbrezza così modesta e abbiamo bisogno di
droghe più elaborate. Quindi andiamo da Andrée”». Questi era un libraio: «Il dottor
Kafka mi comprò il David Copperfield di Dickens, Prima e dopo di Gauguin e
Poesia e vita di Rimbaud».
I due passeggiarono a
lungo parlando di quei libri e, quando il ragazzo si fu rasserenato, Kafka
disse: «“La crisi che è scoppiata a casa sua non fa soffrire solo lei, ma
logora e ferisce ancor più i suoi genitori. Divenendo estranei l’uno all’altro,
perdono gran parte del bene più prezioso posseduto da noi uomini, gran parte
della vita e del suo senso. Così i suoi genitori, come la stragrande
maggioranza degli uomini del nostro tempo, sono in realtà mutilati nello
spirito... Perciò non deve respingerli, anzi, li deve guidare e sorreggere come
si fa con i ciechi e con gli invalidi”. “Come faccio?” chiesi disperato. “Con
il suo amore”. “Anche se mi danno addosso?”. “Proprio allora. Con la sua calma,
il suo riguardo, la sua pazienza - in poche parole, con il suo amore - deve
cercare di risvegliare nei suoi genitori ciò che in loro sta per morire”. Mi
accarezzò lievemente e di sfuggita la guancia. “Arrivederci, Gusti”. Si voltò e
scomparve dietro la porta di casa. Restai lì come paralizzato. Mi aveva chiamato
Gusti, come facevano i miei genitori».
Questa è cultura (dal
latino prendersi cura): curare la sofferenza, la fragilità, la ricerca, le
domande. Essere chiamati per nome fa sentire l'appartenenza che rende capaci,
come scriveva la mia studentessa, di amare la bellezza nel e del quotidiano, in
incontri che, coltivati, diventano legami, e quindi esplorazioni, come quella
del bambino che gattona. Un incontro mancato con la bellezza è un legame
mancato con la vita, e senza legami a poco a poco la vita diventa una minaccia,
come il ragazzo che chiede come «non essere paralizzati dalla paura».
Kafka lo spiega così a
Janouch che aveva definito pieno d'amore un suo racconto: «“L’amore non è nel
racconto, bensì nell’oggetto della narrazione, nella gioventù”, fece notare
Kafka serio. “Sono i giovani a essere pieni di sole e di amore. La gioventù è
felice, perché possiede la facoltà di vedere la bellezza.
Quando si perde questa
facoltà, comincia la vecchiaia, la decadenza, l’infelicità”. “La vecchiaia
esclude dunque ogni possibilità di essere felici?”. “No. È la felicità che
esclude la vecchiaia: chi mantiene la facoltà di vedere la bellezza non
invecchia”». Kafkiano.
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