Parla
il vincitore della medaglia SINe 2024 e fondatore della neuroetica, la
disciplina nata nei primi anni 2000 dalla stretta collaborazione tra
neuroscienze e filosofia.
«Contro
la disinformazione offrire argomentazioni e prove non è sufficiente
Dobbiamo
superare la profonda sfiducia che caratterizza le nostre società»
-
di SOFIA BONICALZI e ANDREA LAVAZZA
Libertà
umana e l’assenso a false credenze: temi chiave che non possono più essere
affrontati soltanto da pensatori “in poltrona”. Ma il rapporto tra filosofia e
scienze empiriche non è sempre idilliaco. “Nei secoli passati – spiega il
filosofo Neil Levy, uno dei più prolifici e versatili nell’ambito analitico, in
Italia in questi giorni –, la filosofia ha intrattenuto un serio dialogo con le
scienze e alcuni filosofi erano a loro volta scienziati di spicco (si pensi, ad
esempio, a Cartesio). Nel XX secolo, e soprattutto dopo la Seconda Guerra
Mondiale, la filosofia ha cominciato a distaccarsi dalle scienze. Sebbene un
certo grado di indipendenza sia probabilmente necessario (i metodi della
filosofia non sono identici a quelli della scienza), molti filosofi ora credono
che questo divorzio abbia rappresentato un passo falso. Io appartengo a coloro
che pensano che, su molte questioni, la possibilità di progresso richieda
l’apporto delle discipline scientifiche”.
Studioso
dalle molteplici linee di ricerca, Levy ha legato precocemente il suo nome alla
neuroetica, disciplina che nasce negli Stati Uniti nei primi anni 2000: «Nel
2007 ho pubblicato il libro Neuroetica (tradotto anche in italiano) e nel 2008
ho lanciato la rivista “Neuroethics”. La neuroetica nasce dalla stretta
collaborazione tra neuroscienze e filosofia. Ha due focus differenti. In primo
luogo, si occupa delle questioni etiche che emergono all’interno delle
neuroscienze. Pensiamo alle preoccupazioni relative all’invasione della privacy
che potrebbero derivare dalla nostra crescente capacità di “leggere” le menti
con la tecnologia di scansione cerebrale. In secondo luogo, la neuroetica si
occupa di come le scienze della mente possano aiutarci a rispondere alle
tradizionali questioni filosofiche. Si pensi che molti problemi filosofici
sorgono perché abbiamo due convinzioni in conflitto. Per esempio, molte persone
trovano difficile rinunciare alla convinzione che gli esseri umani abbiano il
libero arbitrio, ma trovano anche molto convincente l’idea che ogni azione sia
determinata dalle leggi della natura. Le scienze della mente potrebbero aiutare
a dimostrare che una di queste convinzioni è un pregiudizio psicologico non
affidabile. Ad esempio, alcuni filosofi hanno argomentato che la credenza nel
libero arbitrio deriva dalla forte emozione che proviamo quando contempliamo
azioni ritenute sbagliate che hanno conseguenze rilevanti. Questo argomento è
di matrice neuroetica nel momento in cui un filosofo utilizza metodi
psicologici per sostenere la propria tesi (altri filosofi peraltro hanno
utilizzato gli stessi metodi per sostenere la tesi opposta)». Fra le varie
discipline che si intersecano con la neuroetica, Levy è interessato in
particolare alla psicologia e a come questa può spiegare il fenomeno della
disinformazione: «Lavoro sulle false credenze. Perché le persone convivono con
la disinformazione? Ad esempio, perché così tante persone sono restie ad
accettare i risultati e i metodi della scienza? In molti Paesi, abbiamo visto
importanti forme di disinformazione affermarsi durante la pandemia di Covid-19,
e le persone sono morte a causa di false credenze. Questo non è un fenomeno
nuovo. Il tasso di vaccinazione tra i bambini era diminuito già molto prima della
pandemia, e la disinformazione ne era una delle cause. Inoltre, la nostra
incapacità di affrontare la crisi climatica è in parte derivata dal rifiuto
della scienza. Che cosa spiega questi fenomeni? Il motivo per cui le persone
accettano la disinformazione è oggetto di un vivace dibattito in psicologia».
Secondo
Levy, la teoria più diffusa è forse quella secondo cui le persone si comportano
così a causa dei loro pregiudizi cognitivi o di qualche altra forma di
fallimento della razionalità. «Ma la mia prospettiva è molto diversa - spiega
-. Mi baso sugli studi relativi all’evoluzione culturale. Questi sottolineano
che siamo essenzialmente animali sociali. Gran parte delle nostre conoscenze
sono sociali: le generiamo insieme, e la capacità individuale di comprenderle
autonomamente è spesso molto limitata. Poiché la conoscenza sociale è così
importante per noi e per la nostra sopravvivenza, ci siamo evoluti per essere
sensibili alle testimonianze: se qualcuno sembra più esperto di noi, o se
sembra rappresentare il consenso su un certo tema, prendiamo molto sul serio
ciò che dice. Allo stesso tempo, siamo sensibili alla possibilità di essere
ingannati, quindi preferiamo le testimonianze di persone che condividono i
nostri valori. Chi non li condivide potrebbe ingannarci o semplicemente non
preoccuparsi di ciò che dobbiamo sapere. Ci sono abbondanti prove del fatto che
abbiamo questo tipo di sensibilità, e personalmente sostengo che questo
atteggiamento sia razionale».
Ma
– se ci si riflette - è anche tutto ciò di cui abbiamo bisogno per spiegare
perché le persone accettano la disinformazione. «La accettiamo – afferma Levy –
quando proviene da persone che pensiamo siano dalla nostra parte, ma che sono
più esperte di noi. Questo non è irrazionale (le persone accettano le
informazioni corrette esattamente per gli stessi motivi), né deriva dai limiti
di coloro fra noi che esperti non sono. Tutti accettano le informazioni sulla
stessa base, anche gli esperti, perché nessuno è esperto in più di un’area
molto limitata. Qualcuno potrebbe essere un esperto in un particolare settore
della chimica, della sociologia o della teologia, ma sono nella stessa
posizione di tutti gli altri riguardo a ogni altra area di indagine».
Le
prospettive non sembrano molto rosee: «La mia idea, secondo cui gli esseri
umani sono dopotutto animali razionali - continua Levy - è ottimistica sotto
alcuni aspetti. Tutti rispondiamo alle prove e agli argomenti. Ma questi non
sono indipendenti dalla posizione sociale e politica di chi li sostiene.
Quando, ad esempio, uno scienziato del clima presenta dati che mostrano che gli
aumenti di temperatura sono causati dalle emissioni di carbonio, alcune persone
potrebbero razionalmente respingere le prove offerte. Questo non perché non le
capiscano (probabilmente no, ma neanche la maggior parte di coloro che le
accettano le capiscono davvero), ma perché la loro fiducia nei dati e nelle
conclusioni è razionalmente sensibile a quella che ritengono sia l’identità
politica dello scienziato e alla loro valutazione della probabilità della
conclusione. Siamo animali razionali, ma non dovremmo concludere da ciò che, se
solo insegnassimo il pensiero critico nelle scuole o garantissimo che tutti
siano esposti a informazioni affidabili, tutti sarebbero d’accordo sui fatti.
Non possiamo cancellare le nostre identità politiche e sociali, e gli agenti
razionali rispondono alle prove e agli argomenti in modi che sono plasmati da
queste identità». Come si può, dunque, pensare di combattere la
disinformazione? «Per fare progressi – conclude Levy - su alcuni dei nostri
problemi più difficili offrire più argomentazioni e prove non è sufficiente.
Dobbiamo superare la profonda sfiducia che caratterizza le nostre società. E
questo è un progetto essenzialmente politico. Dobbiamo riconoscere che questa
sfiducia è troppo spesso giustificata: per esempio, le persone possono
accettare certe teorie complottiste non fidandosi delle fonti ufficiali, e
questo accade perché le istituzioni non hanno saputo rendere credibili quelle
fonti. Superare la sfiducia richiede di offrire motivi per fidarsi, e ciò
richiede un vero cambiamento politico».
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