-di Alessandro D’Avenia
Ho
preferito andare a intervistarlo per averne un ritratto diverso dalle figure
marmoree a cui siamo abituati. Per vie che potevo solo immaginare, sono
arrivato nella sua casa in un’isoletta dell’Egeo quando il Sole cominciava già
a decomporsi in scaglie di luce e profumi di macchia mediterranea. Mi ha
accolto alla sua maniera: “Kalimera (Buongiorno, letteralmente Belgiorno),
mortale”, il modo migliore di dire: “Ricordati di vivere”. E poi abbiamo
cominciato a parlare.
«Se
potessi conferirle il Nobel per la letteratura, lo farei con questa
motivazione: “Si è distinto per aver saputo cogliere che, come le viti fanno
l’uva e le api il miele, così i prodotti dell’uomo sono la guerra e il viaggio.
Il secondo è l’esito dell’inutilità della prima, un faticoso ritorno a casa
dopo aver perso tutto. Una lezione oggi inascoltata”. Che ne pensa?».
«Più
che inascoltata direi inaudita perché, come accade alla mia Cassandra, la Musa
dice cose mai sentite, cose che ancora non sentiamo e cose che non vogliamo
proprio sentire».
«Non
mi sono ritirato, ma radicato e approfondito, come uno dei suoi ulivi. E poi il
mare collega tutto, nella mia lingua lo chiamiamo anche pontos, ponte: le
isole, come gli uomini, in realtà sono arcipelaghi, per questo nel secondo
libro che ho ricevuto, Odissea, si viaggia tra tante isole solo apparentemente
scollegate… Affido alle parole il compito di viaggiare, sono alate: hanno ali
d’uccello e ali di freccia, per arrivare ovunque e ferire il cuore con la
verità».
«Se
vincesse realmente il premio più importante della letteratura che farebbe?».
«Me
lo farei spedire. Il premio per me è nel favore della Musa».
«Non
la trovo. La ricevo: lì» risponde, indicandomi la sedia a sdraio che guarda
l’orizzonte sulla terrazza che ospita le nostre parole. «Da lì guardo o meglio
ascolto qualcosa a lungo, per esempio il mare».
«E
l’ispirazione?».
«Non
sono io che invento. L’ispirazione viene da ogni cosa a cui presto veramente
attenzione, sarà quella cosa a porgermi la verità. Basta fissare o ascoltare il
mare per scorgere, in quell’infaticabile divino e liquido lavorio, un uomo che
cerca la via di casa, di ritorno da una guerra a cui non voleva partecipare. È
già tutto scritto nelle cose, basta frequentarle con pazienza e affetto, rigore
e tenerezza».
«E
in questo caso qual è la verità?».
«Che
metà della vita serve a tornare a casa da guerre non nostre e liberarsi,
naufragando, di tutte le illusioni di destino a cui ci aggrappiamo pur di
esistere un poco. E l’altra metà della vita serve a trovare se stessi negli
occhi e nelle mani di chi ci riconosce quando siamo nessuno. Sono due movimenti
continuamente intrecciati che ho disposto in sequenza per renderli più
evidenti, ma sono entrambi necessari per affrontare la morte: ritorno e
riconoscimento».
«L’ho
raccontato nel primo libro che ho ricevuto, Iliade: la guerra è il modo in cui
gli uomini danno senso alla vita quando non ne trovano uno. Fa la guerra chi
teme di non esistere».
«Ma
a volte la guerra è necessaria: in fondo nel suo libro scoppia per salvare una
donna».
«Il
libro, che non è mio ma della Musa, narra piuttosto della sconfitta delle
parole nel regolare i rapporti umani e le ingiustizie. Vince infatti colui che
perde: Ettore, che prova a difendere la moglie e il figlio. Costretto a
difendere la città affronta lo scontro fatale, ma prima saluta i suoi. Il
figlio piccolo però non lo riconosce, si spaventa per l’elmo che porta indosso
e comincia a piangere. L’eroe deve allora spogliarsi dei segni militari, per
avvicinarsi e dargli l’ultima carezza, solo allora il bambino sorride: è tutta
lì la verità, sotto la corazza, una carezza. Nei legami. Ettore morirà e il
padre, Priamo, ne chiederà il corpo al nemico che l’ha macellato. A quel punto
Achille, l’eroe trionfante che ha infierito sul corpo di Ettore, appare vinto:
non è la fama ma l’amore a rendere immortali. Il libro non termina con la fine
della guerra ma con un padre che chiede il corpo del figlio. Questo è
l’essenziale: la vittoria della parola, delle relazioni, persino tra nemici. Le
guerre di oggi sono quelle di ieri: orfani, vedove, vendette, ferite
inguaribili… Ci diciamo più evoluti eppure mi sembra che a evolversi siano
state solo le armi».
«La
trama del primo libro ha sullo sfondo il rapimento di una donna che dà origine
a una guerra e comincia con il litigio di due capi per avere una donna in più
come schiava: le donne sono trofei o bottini. Nel secondo libro la
coprotagonista è una donna assediata da un centinaio di maschi che si
contendono il posto del marito e re assente da 20 anni. E lei riesce a tenerli
sotto scacco con la sua intelligenza e abilità. Senza lei non ci sarebbe alcun
ritorno dell’eroe. Le mie trame ruotano attorno a donne in un mondo di maschi
ossessionati da potere e possesso, cioè dalla paura di morire. Certe storie non
invecchiano mai».
«Per
me è contemporaneo solo ciò che è perenne, da trasformare in una parola sulla
vita di cui ci sarà sempre bisogno: il mare è contemporaneo, la guerra, gli
alberi, la nave, la paura, l’aldilà, i sogni, l’amore, gli dei…».
«A proposito di viaggio, in che senso la vita lo è?».
«Dire
che è un viaggio è scontato. Diverso è narrare che è un viaggio con biglietto
di solo ritorno. Perdiamo tempo a illuderci di dover andare da qualche parte e
inseguiamo segni e sogni di massa, che dipendono o da guerre non nostre o da
menzogne di destino. Per questo ho dedicato metà del secondo libro a narrare di
un re che, tornato a casa sua, è solo un povero mendicante che nessuno
riconosce. Per tornare se stesso ha bisogno dell’essenziale: cane, figlio,
amici, moglie, padre… Per tornare reali, cioè sia regali sia autentici,
dobbiamo essere riconosciuti proprio quando non possiamo dimostrare più nulla:
chi sono quando non posso dimostrare nulla? Chi mi ama quando sono nessuno?
Inoltre quel libro finisce con i patti di pace stabiliti dagli dei, perché gli
uomini non riescono a non ricadere nella guerra…».
«Il
secondo libro non comincia da Ulisse, ma dal figlio adolescente, Telemaco.
Senza di lui la trama non si metterebbe in moto. O torniamo a dare a questa età
della vita l’essenza eroica, progetti più che oggetti, o continueremo ad avere
bambini impauriti di tutto e in crisi perché non hanno mai abbastanza».
«È
l’altra faccia dell’uomo che fa la guerra. L’uomo tende a corrompere la sua
energia, trasformandola in violenza, la donna in manipolazione. In entrambi i
casi è ricerca di potere e di possesso, che distrugge la vita. Io racconto ciò
che distrugge l’uomo e ciò che lo salva, cioè che lo unifica in se stesso e lo
unisce agli altri».
Sollevando
gli occhi al cielo mi dice: «Mi sveglio presto e faccio una nuotata. Prego,
leggo, studio, suono, scrivo, mi prendo cura del giardino, taccio, osservo,
passo del tempo con i figli e i nipoti, cucino, piango, rido, parlo con mia
moglie».
«Sua
moglie?».
«Anche
se è morta, è più contemporanea di tutto e tutti».
«Qual
è il ricordo più caro che ne conserva?».
«Il
nostro letto. Lo avevo costruito con le mie mani levigando un antico ulivo…
Dormo ancora lì e da lì tutto ancora nasce».
Vado via, in silenzio, con il sole ormai disfatto in un mare colore del vino e nel cuore la gioia di essere un mortale.
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