lascia o cambia
gli studi universitari
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Il
16% di ragazzi che decidono di lasciare o cambiare indirizzo e un dato che
sancisce il fallimento dell’orientamento nella scuola superiore
- di Camillo Bartolini
Ha
fatto una certa impressione, a fine maggio, leggere di un aumento considerevole
dell’abbandono universitario nel primo anno di corso. Le cifre ufficiali
pubblicate dal Miur parlano infatti di una crescita netta del fenomeno dell’1%
nel decennio che va dal 2012 al 2022: siamo passati dal 6,3% di dieci anni fa
al 7,3% odierno, col dato che sembra destinato a crescere inesorabile.
Quello
che però colpisce maggiormente è un altro dato che si tende a considerare di
meno, ovvero quello riferito al cambio di facoltà o corso di laurea dopo il
primo anno. La tendenza, indice di una certa confusione e fragilità, è in forte
aumento ma non è possibile recuperare, in questo caso, numeri ufficiali.
Persino il portale ufficiale del Mur, Ustat, che si occupa di monitorare i
numeri degli atenei italiani, non mi ha aiutato in questo senso. L’ultimo dato
risale al 2019, quando risultava una percentuale dell’8,4% di ragazzi che
decideva di cambiare percorso dopo un solo anno. Il numero è con ogni
probabilità cresciuto a braccetto con quello degli abbandoni, sfiorando (o
forse superandolo?) così quasi il 16% di ragazzi che, terminato l’anno da
matricola, decidono di lasciare o cambiare indirizzo. Un numero ingente, con
conseguenze di varia natura.
Come
si sta pensando di rispondere al problema? Il ministero ha stanziato tra il
2021 e il 2022, circa 300 milioni di euro per incentivare attività di
orientamento universitario, molti dei quali (circa 250) attinti dai fondi del
Pnrr.
Inoltre,
una riforma prevede che dall’anno scolastico 2023-2024 vengano introdotte per le scuole secondarie di primo grado e per
il primo biennio delle secondarie di secondo grado, per ogni anno
scolastico, 30 ore di orientamento,
anche extra-curriculari; per l’ultimo triennio delle secondarie di secondo
grado 30 ore curriculari per ogni anno scolastico.
È
l’approccio giusto? Da Roma pare arrivare il messaggio che bisogna affrontare
di più l’argomento, parlarne di più, metterlo a tema. Con la tendenza,
ultimamente inarrestabile, di quasi “appaltare” certi temi delicati
nell’educazione dei ragazzi soltanto al mondo scuola. È giusto? O più se ne
discute, almeno in certi termini, più si crea confusione? La domanda è davvero
aperta con complesse sfaccettature.
Quando
si deve accompagnare qualcuno a una scelta di vita, come può essere quella della
facoltà, è necessario partire dalla situazione oggettiva di partenza. Ad oggi,
quello che spesso caratterizza un maturando al momento del passaggio
all’università è una gran paura di sbagliare la scelta e l’ansia di ritrovarsi
solo nel nuovo contesto. Non sono dati da sottovalutare, perché incidono ogni
anno di più e spesso offuscano la lucidità di una decisione.
Come
si può aiutare questo passaggio?
Anzitutto
svincolare l’orientamento dalla sola scelta universitaria. Ovviamente
orientare porta a scegliere, ma non si può ridurre un lavoro così grande di
conoscenza di sé solo alla scelta della facoltà. L’orientamento rischia di
perdere di respiro. Appiattire tutto a un problema di scelta accademica o
professionale può essere controproducente. Lo scopo di un eventuale percorso
orientativo deve essere, in primis, nello spirito, quello di una conoscenza più
approfondita delle proprie qualità, limiti, passioni e inclinazioni. Non giova
legare immediatamente l’orientamento neppure a una futura professione, visto il
panorama lavorativo in continua evoluzione e le innumerevoli scoperte
professionali che cinque, o più, anni di università possono regalare.
In
secondo luogo, occorre ricordare e ricordarsi che l’orientamento è qualcosa che
richiede tempo. Qualcosa che inganna gli studenti è l’idea di dover fare la
scelta azzeccata entro una data di scadenza incombente. In realtà la scelta
della facoltà va vista come un punto di inizio e non, come spesso accade, di
arrivo. Gli anni dell’università continuano a essere orientativi e diventano
occasione di ulteriore verifica della scelta. Spesso occorre anche l’intero
corso triennale per avere piena consapevolezza delle proprie decisioni. Il
tempo universitario sia periodo di conferme e verifiche contestuali.
Aiuterebbe
anche, inoltre, non trattare l’orientamento soltanto come un problema. Tutto
ciò non aiuta. Effettivamente è qualcosa di delicato e di serio, ma si tende a
dimenticare quanto possa essere al tempo stesso appassionante. Orientarsi
significa anzitutto conoscersi. Può portare a scoprire ambizioni, passioni e
aspetti di sé magari mai neppure intuiti. Insomma, è un lavoro impegnativo, ma
con grandi motivi di gioia e persino divertimento. Incentivare l’entusiasmo
della scoperta può ovviare a tante ansie e remore.
In
sintesi, bisogna cercare di smettere di concepire l’orientamento come un
settore a sé stante, un compartimento stagno rispetto alle attività di tutti i
giorni. Così rischiamo di appesantire il lavoro per ognuno di noi e, cosa
ancora più grave, ridurre l’orientamento a un’attività per soli esperti. È
necessario assolutamente ricordare che questo è e deve rimanere un lavoro di
tutti e di tutti i giorni.
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