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di Sabino Chialà*
Da
più parti, nella Scrittura e nella letteratura patristica, emerge la
convinzione che la coscienza costituisca un dono fatto alla nostra natura, ma
che, come tutti i doni, ha bisogno di cure da parte di colui che la riceve. Un
autore anonimo del xii secolo afferma: “La coscienza umana è la vigna del
Signore, che dev’essere coltivata” (1).
Si
tratta in primo luogo di un’istanza presente nell’essere umano, quale
“criterio”, “scintilla” o “germe”, secondo le immagini osservate nei padri. È
quell’istanza che emerge naturalmente nei progenitori cui si aprono gli occhi e
in Caino che avverte il male commesso e lo sente troppo grande. La coscienza,
dunque, abita nell’essere umano e precede ogni sua volontà: è il desiderio di
bene e di bellezza, o di felicità, posto in tutti indistintamente; in una
visione cristiana è riflesso dell’immagine di Dio, che il Creatore ha impresso
in ogni uomo e donna al momento della loro creazione. Ogni essere umano,
dunque, quale che sia il suo peccato e la sua alienazione, porta dentro di sé
tale aspirazione, spesso calpestata e sotterrata – per riprendere le immagini
di Doroteo di Gaza –, che è capacità di discernimento del bene dal male, del
bello dal brutto, di ciò che dà gioia da ciò che fa soffrire, anche allorché
deliberatamente egli decida di fare il male, come aveva detto Girolamo.
Tale
dono primordiale, come osservato nelle pagine della Genesi, è anche, però,
frutto di elaborazione. Cresce e si sviluppa attraverso quello che chiamerei un
“duplice dialogo”, come l’etimologia del termine greco synéidesis e del
corrispondente latino conscientia, suggeriscono. Ambedue i termini sono infatti
composti da un prefisso che indica “compagnia” (syn e con) e da un termine che
rimanda all’idea di “conoscenza”, che significativamente è ancora un composto.
Potremmo
dire che i due termini indicano un “conoscere insieme”, una “conoscenza frutto
di dialogo”, di cooperazione, appunto.
La
domanda che a questo punto si pone riguarda i soggetti di tale dialogo, e le
risposte possibili mi sembrano due: dialogo all’interno dell’uomo, tra le varie
voci e istanze in esso presenti; dialogo dell’uomo con altri soggetti a lui
esterni. Nel primo caso la conoscenza si forma attraverso un dialogo interiore,
la fatica del pensare, del fermarsi a riflettere. Nel secondo essa si articola
in forza di un confronto con l’altro essere umano o, in una dimensione di fede,
con Dio, l’Altro per eccellenza.
Il
dialogo interiore
La
coscienza necessita dunque in prima istanza di dialogo interiore, vale a dire
di elaborazione tramite il confronto dei tanti pensieri e inclinazioni che
abitano l’essere umano. Ciò richiede la fatica dell’habitare secum di
cui parlano i padri, di immergersi in sé e di dialogare con sé stessi.
Un
esercizio non facile, perché si scontra con la paura di visitare le proprie
profondità, dove abitano tratti dell’essere che spesso si preferisce ignorare.
Tuttavia, senza questo esercizio è impossibile coltivare la propria coscienza.
La
Scrittura offre alcune direttrici lungo le quali articolare tale pensiero, in
particolare le due domande che abbiamo visto emergere nelle prime pagine della
Bibbia: dove sono io e dov’è mio fratello. Mai l’una senza l’altra! La
coscienza cresce, attraverso il dialogo interiore, se si ha il coraggio di
abitare tali domande: dove sono io, dove colloco la mia umanità? E poi: dov’è
l’altro da me, che nella fattispecie è “mio fratello”? Ogni elaborazione di pensiero,
sia esso umano o teologico, che non tenga conto di questi due interrogativi
primordiali, è destinato a produrre una sottocultura, che con il tempo conduce
una chiesa o una società alla morte per asfissia.
A
queste due domande originarie se ne potrebbero aggiungere altre, che ne sono
una necessaria esplicitazione. Interrogativi quali: dove mi portano le mie
azioni? E prima ancora: dove mi portano i miei pensieri? Domande che
indirizzano verso l’altro dialogo necessario alla crescita della coscienza che è
il confronto con l’esterno: con Dio e con gli altri. Non basta riflettere in
sé, correndo il rischio di un ripiegamento insano nel proprio intimo e sui
propri punti di vista, poiché questo, anziché far crescere la coscienza, la
atrofizza. Essa cresce, invece, se ci si sporge anche al di fuori. È utile qui
ricordare ciò che Salomone chiede a Dio nel Primo libro dei Re 3,9: un “cuore
in ascolto”, vale a dire un’interiorità (cuore) aperta verso l’esterno (in
ascolto).
Il
dialogo con Dio
In
una dimensione di fede si tratta di dialogare con Dio, come abbiamo osservato
nel libro della Genesi, dove le domande del Creatore avevano aiutato Adamo e
poi Caino a far maturare quella coscienza emersa in modo confuso dal loro
intimo. Dialogo con Dio significa confronto costante con le Scritture, con le
parole di Gesù e con il suo esempio, indispensabile per la crescita di una
coscienza cristiana.
Di
pari passo è necessario il dialogo con gli altri. La coscienza si nutre di
confronto con l’altro, con il diverso da sé, con cui è necessario intessere un
dialogo autentico che trasforma e affina il proprio sguardo e le proprie
comprensioni. Di un altro concreto, visto e toccato, come mostrano tante
esperienze in cui la potenza di uno sguardo è capace di cogliere e trasformare
in profondità, risvegliando una coscienza assopita: gli occhi di un bambino, lo
sguardo sofferente di un malato, la carezza di un anziano fragile. Quante volte
sicurezze e pregiudizi, frutto di deduzioni astratte e teoriche, sono andati in
frantumi dinanzi a un volto reale, che ha saputo risvegliare la coscienza!
Anche
lo sguardo del nemico o di chi è ritenuto tale ha il potere di risvegliare la
coscienza, ragione per la quale l’inimicizia, per durare nel tempo, necessita
di distanza, di non-incontro tra vittima e carnefice, e del perpetuarsi di un
incontro irreale, che avviene solo in un pensiero che rimugina la propria
visione dell’altro, anziché la sua realtà.
Ogni
chiusura verso l’altro e il diverso comporta inevitabilmente una perdita di
coscienza, un impoverimento e un’atrofizzazione del proprio luogo interiore.
Ogni chiusura che all’inizio sembra difendere, con il tempo isola, impoverisce
e uccide nel profondo.
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