Dopo
l’ennesimo naufragio nel Mediterraneo – quello di un barchino con a bordo 45
persone – , possiamo scegliere se continuare a far finta di niente oppure
fermarci un momento a riflettere su ciò che la realtà dei fatti sta cercando di
dirci sul problema delle migrazioni.
A
chi trova il “tempo interiore” – quello materiale, se siamo onesti, sappiamo
bene di averlo comunque – per seguire questa seconda via, dovrebbero apparire
chiare alcune cose, che provo qui a indicare.
La
prima è che non era vero quello che sosteneva il governo Meloni-Salvini quando
ha accusato le navi delle ONG di essere, con le loro navi, la vera causa delle
partenze dei migranti e della conseguente perdita di vite.
Dopo
il decreto-legge approvato il 28 dicembre del 2022, con cui si è voluto
limitare e rendere più difficile l’attività di soccorso di queste navi, il
flusso migratorio non solo non è diminuito, ma si è enormemente accresciuto.
Dall’inizio del 2023 i migranti giunti con gli sbarchi hanno superato i 40.000
– con un aumento del 94% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
E
del resto lo si sapeva perfettamente. Negli anni 2018–2022 i migranti approdati
con sbarchi autonomi erano stati in percentuale attorno all’84-88% a fronte di
quelli trasportati dalle navi delle ONG, che oscillavano tra il 12 e il 16%. Il
ruolo delle Organizzazioni non governative nel fenomeno migratorio era dunque
limitatissimo. Non stupisce che, anche dopo il suo drastico ridimensionamento,
le proporzioni di questo fenomeno siano praticamente raddoppiate.
Questo
non significa che il decreto, e la sua successiva conversione in legge da parte
del parlamento, non abbiano prodotto degli effetti. Già al momento della sua
approvazione, l’Alto commissario dei diritti umani delle Nazioni Unite aveva
detto senza mezzi termini che esso era «solamente il modo sbagliato per
affrontare una crisi umanitaria». Con la nuova normativa, aveva detto, «molte
più persone saranno in pericolo e molte più vite andranno perdute perché non ci
sarà il tempo per salvarle».
Ma
perché, allora, un provvedimento che non poteva bloccare le partenze, ma
rendeva solo più pericoloso il viaggio? Nella conferenza stampa che ha fatto
seguito al naufragio di Cutro lo ha detto, senza i giri di parole dei
diplomatici, il ministro dell’interno Piantedosi: «L’unica vera cosa che va
detta e affermata è: “Non devono partire”. [Non si può] immaginare che ci siano
alternative da mettere sullo stesso piano – salvare, non salvare…». I
salvataggi creano speranze che vanno spente sul nascere. I migranti devono
restare dove sono. Perciò bisogna far loro capire che la sola alternativa a
questo è la morte.
Loha
ripetuto in un tweet anche Vittorio Feltri, giornalista storico della destra,
commentando la tragedia di Cutro: «Agli extracomunitari ricordo un vecchio
detto italiano: partire è un po’ morire. State a casa vostra».
Una
linea che del resto rientrava nel programma con cui i partiti di destra si sono
presentati alle elezioni e le hanno vinte, che prevedeva la «difesa dei confini
nazionali ed europei» e il «blocco degli sbarchi». Siamo noi, gli italiani, che
abbiamo scelto di seguire questa politica e che continuiamo evidentemente a
volerla, come dimostra il consenso, nei sondaggi, al governo che la sta
perseguendo. Senza peraltro assumercene la responsabilità e consentendoci anche
il lusso di provare una forte e sincera commozione davanti a queste tragedie,
come è stato davanti a quella di Cutro.
Una
strategia fallimentare
Una
seconda cosa che appare chiara, al punto a cui siamo, è il fallimento della
strategia della Meloni per combattere il fenomeno migratorio. Davanti
all’incessante moltiplicarsi degli sbarchi, la destra al governo, che aveva
aspramente criticato quello precedente per la sua incapacità di fermarli –
dovuta, secondo le reiterate accuse di Matteo Salvini, all’inettitudine (o
addirittura della colpevole complicità) dell’allora ministro dell’interno
Lamorgese – , la nostra presidente del Consiglio ha dovuto cercare un altro
“colpevole” e l’ha additato negli scafisti.
«Andremo
a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terraqueo», ha promesso dopo la
tragedia di Cutro. E, anche dopo l’ultimo naufragio, dagli ambienti del governo
si scarica tutta la responsabilità di ciò che accade sui «trafficanti di carne
umana». Soluzione rassicurante per le nostre coscienze.
Il
guaio è che non è chiaro chi siano gli scafisti. Spesso sono stati individuati
come tali coloro che di fatto si trovano al timone delle barche e dei gommoni
che portano i migranti sulle nostre coste. La lotta contro questi soggetti è
già in corso da diversi anni – dal 2013 ben 2.500 persone sono state arrestate
su questa base – , ma con esiti praticamente nulli. Nella migliore delle
ipotesi, infatti, si colpiscono solo dei “pesci piccoli”, semplici esecutori di
ordini impartiti dai veri responsabili. E a questi ultimi la «stretta sugli
scafisti» decisa dal governo dopo Cutro non fa neppure il solletico.
Anche la Meloni se ne è resa conto, e ha sentito il bisogno di andare a bloccarli nelle basi di partenza dove effettivamente operano, puntando sulla collaborazione dei governi locali. Si inseriscono in questo progetto i due viaggi della premier in Tunisia, insieme al collega olandese Rutte e alla presidente della Commissione europea Ursula von Der Leyen, e la firma – esaltata dal governo e dagli organi di stampa ad esso vicini, come un decisivo successo – di un “Protocollo d’intesa su un partenariato strategico e globale”, sottoscritto il 16 luglio con il presidente tunisino Kais Saied, dopo venti giorni di negoziati.
In
esso, l’Unione europea si è impegnata a fornire un sostegno finanziario a
Tunisi per fermare la partenza dei migranti, in cambio di cooperazione
economica e di finanziamento degli apparati di polizia marittima.
Sfortunatamente,
i dati resi noti dal ministero dell’Interno, Dipartimento per le libertà civili
e l’immigrazione, ci dicono che, a quasi un mese dalla firma dell’accordo,
nulla è cambiato. Solo nei primi sette giorni di agosto gli sbarchi sono stati
4.527, quasi 650 persone in media al giorno. Anche i 41 morti dell’ultimo naufragio
provenivano da Sfax, sulla costa tunisina.
Qualcuno
dirà che bisogna avere pazienza e che i risultati vanno visti alla distanza. Il
problema, purtroppo, è più radicale. La Tunisia sta vivendo una profonda crisi
democratica. Il presidente Saied ha accentrato tutti i poteri, il dissenso e la
protesta sono criminalizzati con arresti, intimidazioni e repressione, il
nazionalismo e il razzismo dilagano.
In
particolare, Amnesty International ha denunziato la campagna di odio razzista
scatenata da Saied contro i migranti neri sub-sahariani emigrati in questi anni
in Tunisia, aizzando la popolazione alla violenza nei loro confronti.
A
questo punto, è evidente che la fuga dal paese è provocata soprattutto da
questa situazione drammatica e non dalle organizzazioni criminali che lo
sfruttano per i loro squallidi interessi. La figura e la politica del dittatore
tunisino, che Meloni ha creduto una cura, sono in realtà la malattia.
Ma
questo è vero anche più in generale. Non sono gli scafisti a creare le
emergenze da cui nascono le migrazioni, ma queste emergenze a creare gli
scafisti. Il caso della Tunisia è solo un esempio. Basta pensare ai migranti
che fuggono dalla Libia, per scampare a una situazione di cui la presidente
internazionale di “Medici senza frontiere” ha detto, in un’intervista al
«Correre della sera»: «Nei miei ventidue anni in Medici Senza Frontiere non
avevo mai incontrato un’incarnazione così estrema della crudeltà umana».
Anche in questo caso, la Meloni ha stretto nel marzo scorso un accordo col governo libico per bloccare le partenze. Senza però rendersi conto che gli autori delle angherie e delle torture da cui i migranti fuggono sono spesso gli stessi membri della Guardia costiera libica a cui lei ha appena fornito cinque nuovissime motovedette perché impediscano le partenze.
La
logica è sempre la stessa e appare chiaramente suicida: ci si accorda con
regimi disumani per ottenere da essi il blocco di quelle migrazioni che in
realtà sono essi stessi a provocare, o almeno a favorire. Anche in questo caso,
come in quello del decreto contro le ONG, lo slogan «aiutiamoli a casa loro» è
servito in realtà non per eliminare le ragioni delle partenze, ma per renderle
più pericolose o impedirle con la violenza, puntando su soluzioni che non solo
non possono eliminare l’emergenza, ma la esasperano o addirittura ne sono la
causa.
Aiutiamo
loro e noi stessi a casa nostra
La
terza evidenza che si impone, alla luce di quanto detto, è che lo slogan in
questione, pur essendo astrattamente ragionevole, è di fatto svuotato dalle
condizioni in cui versano i paesi dell’Africa e del vicino Oriente. Dittature,
regimi politici instabili, situazioni di guerra, da un lato determinano le
condizioni che determinano il flusso migratorio, dall’altro impediscono di
crearne di nuove, che permettano a chi lo vuole di realizzarsi a casa propria.
Bisogna
trovare il modo di «aiutarli a casa nostra», inventando forme di accoglienza
che siano convenienti a noi e a loro. Forme che finora, paradossalmente,
nessuno ha cercato di realizzare, nemmeno la “sinistra”, che, quando era al governo,
ha fatto politiche molto simili a quelle della destra che ora critica.
Non
si tratta di praticare un’apertura indiscriminata, che sarebbe insostenibile,
ma di potenziare quei corridoi umanitari del cui ampliamento si parla tanto
senza mai passare alle misure concrete. Né è sufficiente lasciar entrare le
persone straniere: bisogna aiutarle concretamente ad integrarsi, rispettandone
la cultura, ma evitando il pericolo di ghettizzarle.
L’esperienza
– suffragata dai numeri – dice che, quando ciò accade, gli immigrati diventano
una preziosa risorsa anche per la nostra economia. E sono gli stessi
imprenditori italiani a chiedere con insistenza che aumenti il flusso dei
lavoratori stranieri per colmare i vuoti creati dal calo demografico. Sarebbe ora
che il governo prendesse finalmente atto delle conseguenze disastrose delle sue
“cure”. E che gli italiani che lo hanno voluto e continuano a sostenerlo gli
chiedessero questo cambio di rotta. Per il bene di tutti.
*Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura
della Diocesi di Palermo
analisi puntuale e tempestiva, come la linea politica suggerita, che è nota da tempo anche se difficile da attuare, per pregiudizi, mancanza di risorse umane ed economiche e soprattutto di idee progettuali da coltivare per valorizzare le poche risorse che ci sono, nella direzione giusta, sul piano nazionale ed europeo.
RispondiEliminaGrazie per il commento, frutto di saggezza ed esperienza.
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