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sabato 5 aprile 2025

SCRIVERE UNA LETTERA


 “Aiuta a migliorare la grammatica e il vocabolario”


Una scuola insegna a comporle e inviarle 

 

Siamo da anni presi da social e da tecnologie digitali tanto da, quasi, non avere mai occasione di scrivere a mano, con carta e penna. I più giovani, in effetti, non hanno mai scritto, ad esempio, una lettera a mano. Una scuola di Napoli ha organizzato dei corsi per insegnare a farlo.

Come riporta Ansa, il progetto ha coinvolto gli alunni di due classi – la IV A e IV U della primaria – che con il sostegno dei loro docenti hanno riscoperto il piacere di scrivere a mano su un foglio bianco “e di esprimere i propri pensieri ed emozioni in modo più profondo e riflessivo rispetto ai messaggi digitali”.

Gli alunni della scuola hanno risposto in maniera entusiastica. E così un team di docenti si è messo all’opera per accompagnare i ragazzi in ogni fase del progetto, dalla scrittura alla spedizione delle lettere (trovare i francobolli e la buca più vicina alla scuola) e poi alla successiva analisi dei testi. A ricevere le lettere sono gli stessi ragazzi.

Gli obiettivi

Anche il tempo dell’attesa della consegna della missiva è stato un elemento valorizzato perché “inviare e ricevere lettere crea un legame speciale tra le persone, rafforzando le relazioni e coltivando l’empatia. Scrivere una lettera richiede di organizzare le idee, scegliere le parole giuste e dare forma a un racconto personale”, spiegano le docenti che hanno accompagnato i ragazzi.

“La scrittura di lettere aiuta a migliorare la grammatica, il vocabolario e la capacità di strutturare un testo in modo coerente”, aggiungono, ritenendo che “le lettere sono tesori tangibili che possono essere conservati per anni, diventando preziosi ricordi del passato”. L’obiettivo è chiaro: incoraggiare i bambini a scrivere lettere, sia a coetanei che a familiari perché “è un modo per arricchire la loro vita e preservare un’arte preziosa”.

Il corso per imparare a scrivere a macchina

Qualche settimana fa abbiamo parlato di un’altra iniziativa che ha obiettivi simili: in una scuola della provincia di Latina è stato organizzato un corso in cui si insegna ai ragazzi a scrivere a macchina.

Come riporta Il Corriere della Sera, per gli studenti dell’istituto comprensivo in questione si tratta di uno strumento praticamente sconosciuto. “Per i giovani la macchina per scrivere è come un tapis roulant della mente. Stiamo verificando sul campo che si può arrivare a un corretto equilibrio fra contenuti analogici e digitali, di cui fruiscono i ragazzi in fase di sviluppo, attraverso un’attività che sul piano formativo si sta rivelando efficace e anche molto divertente”, ha spiegato Enrico Sbandi, giornalista e collezionista che ha ideato e promosso le lezioni.

“A consuntivo del corso si valuteranno i risultati raggiunti con l’intento di ripetere ed estendere l’iniziativa anche ad altri istituti”, ha aggiunto. Gli iscritti al corso sono quattordici studenti della scuola secondaria di primo grado, coordinati dalla docente di Lettere.

L’obiettivo del corso (iniziato il 12 febbraio e che si concluderà ad aprile, articolato in venti ore) è quello di stimolare la creatività e potenziare il livello di apprendimento, ma anche prevenire gli abusi di smartphone e dispositivi digitali. Premere sui tasti della macchina da scrivere produce effetti positivi sul processo di formazione delle sinapsi neuronali, dal momento che vengono sollecitate le aree del cervello deputate alla lettura profonda.

Come dimostrato da diversi studi sviluppati negli Usa e in Giappone, la dattilografia fissa infatti nella memoria i contenuti digitati e aumenta il livello di concentrazione, dal momento che non consentendo il classico copia-incolla del pc, implica la necessità di non commettere errori. Inoltre, a differenza della tastiere dei computer, molto maneggevoli e facili da usare, impone l’impiego della forza fisica delle dita.

Dai primi risultati del progetto è emerso che gli studenti hanno acquisito una maggiore indipendenza nella scrittura, hanno spesso superato la timidezza, si sentono più motivati nello svolgere i compiti e acquisiscono una maggiore consapevolezza delle loro espressioni. Hanno migliorato poi l’utilizzo dei vocaboli, la capacità di comprensione nella lettura e anche l’ortografia.

 

Tecnica della scuola

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mercoledì 30 agosto 2023

LA SOLITUDINE DI STUDENTI, INSEGNANTI E FAMIGLIE


La lettera sulla scuola


“La solitudine di ragazze e ragazzi è evidente, ma diventa ancor più grave perché è incastonata tra altre due solitudini: quella delle famiglie e quella degli insegnanti”. Su ilLibraio.it la lettera sulla scuola scritta da Franco Lorenzoni, maestro elementare e fondatore del centro di sperimentazione educativa Casa-laboratorio di Cenci, dal nuovo numero della rivista “Sotto il vulcano”: “Fuori dalle classi i meccanismi di esclusione sono ancora più spietati…”

 

-di Franco Lorenzoni *

 Un gruppo di studenti di un liceo di Terni, rispondendo all’invito della preside di indicare possibili miglioramenti per la loro scuola, ha proposto di istituire uno psicologo bidello. Uno psicologo sempre presente, in corridoio, che si possa interpellare al momento del bisogno senza passare al vaglio di insegnanti o genitori.

 Tra bidelle e bidelli, come gli studenti chiamano il personale Ata, ci sono talvolta figure che incarnano un’attenzione curiosa verso la vita di ragazze e ragazzi e che sanno entrare in relazione con loro al di là degli esiti scolastici.

 Proviamo a prendere sul serio questa espressione ingenua di un bisogno.

 Un numero sempre più ampio di studentesse e studenti ha un evidente bisogno di aiuto. Se ascolto una ragazza di seconda media che dice “mi taglio le braccia per soffrire meno”, se assistiamo a una moltiplicazione geometrica di casi gravi che si presentano alle Asl e ai centri di igiene mentale, se crescono a dismisura disturbi dell’alimentazione e forme di autolesionismo o di isolamento e chiusura totale, non possiamo non pensare che ci sia qualcosa da ripensare con radicalità e urgenza nella scuola, perché la scuola è il principale e spesso unico luogo pubblico di incontro tra le generazioni.

 Il decennio della cura

 Nei mesi che seguirono la fase più acuta della pandemia ci siamo trovati a ragionare sulla necessità di inaugurare un decennio da dedicare alla cura.

 Cura delle persone, a partire dai più giovani, che avevano subito l’isolamento domestico ed erano stati costretti a considerare il contatto come contagio con conseguente avvilimento del corpo, in una età in cui il corpo è primario ed essenziale luogo di conoscenza e desiderio. Intorno al corpo e alla percezione di sé, tra l’altro, si stanno giocando negli ultimi anni sommovimenti profondi nelle nuove generazioni, i cui sintomi vanno dall’esplosione delle tematiche di genere a nuove inibizioni che accompagnano relazioni vissute frequentemente solo a distanza.

 Il paradigma della cura non riguarda tuttavia solo il corpo e la salute dei singoli, ma la relazione con l’intero pianeta ferito, i cui equilibri sono a rischio per via dei cambiamenti climatici, avvertiti dalle nuove generazioni con maggiore sensibilità.

 Quello che, nelle prime settimane della pandemia, in cui sembrava prevalere la solidarietà, era apparso come un momento di svolta e di presa di coscienza dell’insostenibilità dei nostri modi di vivere e abitare la terra, si è dissolto velocemente.

 Non appena ci siamo liberati dalle mascherine c’è stata una rimozione collettiva pressoché assoluta di ciò che era accaduto, mentre a livello individuale ragazze e ragazzi e bambine e bambini anche piccoli, si sono trovati a dovere affrontare in solitudine le conseguenze profonde di quel trauma.

 A tutto questo si è aggiunta una guerra percepita come vicina, dal momento in cui la Russia di Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina: un bambino, che vede alla televisione le conseguenze di un bombardamento scoprendo che non è finzione, non può non esserne colpito e offeso.

 La distanza tra generazioni

 La solitudine di ragazze e ragazzi è evidente, ma diventa ancor più grave perché è incastonata tra altre due solitudini: quella delle famiglie e quella degli insegnanti.

 Già in un articolo sul “Giornale dei genitori” del 1962 Ada Gobetti descrive “genitori che si mostrano e si dichiarano il più delle volte smarriti, impotenti, sprovveduti, […] che ancora conservano, pur senza rendersene conto, molte caratteristiche dell’adolescenza: incerti, instabili, disorientati essi stessi, quale sicurezza possono dare ai loro figli?”. Aggiungendo poi: “Non sanno offrire modelli a cui i figli possano ispirarsi o contro cui possano polemicamente ribellarsi; troppo assorti nei propri problemi, difficilmente sanno uscire da se stessi per dare ai figli quell’amore completo e disinteressato capace di colmare da solo ogni lacuna di preparazione culturale e pedagogica”.

 L’analfabetismo che allarmava Ada Gobetti oltre sessanta anni fa non riguardava tanto la preparazione culturale, quanto l’incapacità di “uscire da se stessi”, che è base imprescindibile per costruire un confronto positivo con figlie e figli, sapendo accogliere il fatto che possano incarnare punti di vista diversi dal nostro.

 Le relazioni sono rese ancora più difficili da una distanza tra le generazioni che si è enormemente ampliata per la costante dipendenza che tutti abbiamo verso strumenti di comunicazione, informazione, gioco e distrazione permanentemente accesi.

 Questa distanza è alimentata ulteriormente dall’ossimoro che caratterizza il comportamento di molti genitori: un bisogno di controllo sempre più accentuato unito a una presenza incostante e intermittente.

 Questo vuoto, questa difficoltà di relazioni nelle famiglie, viene talvolta compensata, paradossalmente, da una difesa a oltranza di qualsiasi comportamento anche improprio di figlie e figli nella scuola. Da cui una sfiducia diffusa, che a volte sfocia in aggressività e violenza verso gli insegnanti e il loro ruolo educativo.

 Teniamo presente anche il fatto che ormai più della metà dei bambini sono figli unici e non conoscono dunque il salutare allenamento alla condivisione di spazi e oggetti che aiuta a ridimensionare l’espansione illimitata delle proprie esigenze.

 La terza solitudine riguarda noi insegnanti, in grande difficoltà nel costruire regole condivise con ragazze e ragazzi che incorporano esperienze segnate dalla difficoltà adulta di assumersi le proprie responsabilità nello stabilire confini sensati, nella vicinanza.

 Si arriva così a un altro paradosso. Ragazze e ragazzi pensano a volte di poter fare ogni cosa pur sapendo, con maggiore o minore consapevolezza, che li aspetta un mondo dominato da vecchi spesso incattiviti, che stanno sottraendo loro libertà e futuro, perché rimandare ogni scelta sul clima o minare le fondamenta del welfare riguarda molto concretamente la qualità della vita che li aspetta.

 Pronto soccorso culturale

 Molti anni fa Felice Pignataro, geniale artefice di interventi artistici e laboratori proposti nelle periferie di Napoli, invocava la necessità di un pronto soccorso culturale, più che mai necessario oggi.

 E allora una domanda che dovremmo porci con rigore e radicalità riguarda il ruolo giocato dalla scuola in questi decenni, in cui evidentemente noi che insegnavamo e provavamo ad educare non siamo stati in grado di elaborare un controcanto convincente, capace di criticare e contrastare ciò che stava accadendo nelle famiglie e nella società riguardo al disprezzo per la cultura e a una sfiducia crescente verso il sapere come terreno per la realizzazione di una vita migliore.

 La peggiore offesa all’infanzia sta nel costringere bambine e bambini e adolescenti a trascorrere ore e ore a scuola insieme ad adulti pigri, demotivati e frustrati, a insegnanti che hanno smesso di ricercare e credere nella cultura come luogo di conoscenza di sé e leva di trasformazione individuale e collettiva.

 Ma noi sappiamo che fuori dalla scuola i meccanismi di esclusione e discriminazione sono ancora più spietati, perché chi è ricco di parole, curiosità e domande potrà utilizzare al meglio le potenzialità della rete e di future “intelligenze” artificiali, mentre chi è più povero di riferimenti culturali e desideri di conoscenza si troverà relegato alla mercé di un mercato che non privilegia certo la qualità.

 Tra chi prova a fatica ad affrontare la dispersione scolastica e le crescenti povertà educative si sta sviluppando una discussione di cui tenere conto. Dobbiamo puntare a un ampliamento del tempo della scuola o dobbiamo immaginare e finanziare altri apporti educativi da parte del volontariato sociale, del terzo settore in collaborazione con le istituzioni locali, moltiplicando progetti capaci di dare vita a comunità educanti aperti al contributo delle famiglie?

 Alcuni tentativi di costruzione di comunità educanti locali stanno dando risultati interessanti.

 In altre situazioni, invece, il finanziamento di progetti educativi nati fuori dalla scuola sta alimentando diffidenze tra insegnanti e famiglie, che a volte sono invadenti, o tra scuola e terzo settore.

 Tra scuola e territorio

 Personalmente penso che chiunque lavori per migliorare la qualità culturale del territorio sia un alleato indispensabile per chi nella scuola non rinuncia a battersi contro ogni forma di discriminazione.

 Penso tuttavia che la scuola debba mantenere le sue peculiarità e sforzarsi di essere un luogo di costruzione culturale lenta. E che dunque noi docenti non possiamo sottrarci al tentativo di intrecciare sempre il ruolo di insegnanti a quello di educatrici ed educatori, sapendo trasformare l’incontro con arte, scienza, letteratura e bellezza come luoghi possibili di quel bisogno di cura di cui siamo noi i responsabili.

 Il cuore dell’educazione attiva sta nel costruire strumenti per arricchire le qualità e potenzialità di ciascuno alimentando la fiducia in sé stessi. Al tempo stesso il nostro ruolo sta nella capacità di seminare inquietudine, cercando ogni modo per moltiplicare le domande.

 Seminare inquietudine dovrebbe essere un anelito costante in chi educa, con la consapevolezza che a scuola stiamo svolgendo una funzione politica nel senso più ampio e autentico del termine, cioè di allenamento all’arte del convivere e di cura del bene comune.

 La mezza verità

 Mario Lodi, nel più noto dei suoi diari didattici che intitolò Il paese sbagliato, fa un’unica lunga citazione, tratta da un saggio dello psicologo e pedagogo svizzero Jean Piaget: “Lo scopo dell’educazione intellettuale non è quello di saper ripetere o conservare verità belle e fatte, perché una verità che viene ripetuta non è che una mezza verità: ma è piuttosto quello di apprendere e conquistare da se stessi il vero, a rischio di metterci molto tempo e di passare per tutte le traversie che una attività reale richiede. Non è possibile formare delle personalità autonome nel campo morale se l’individuo è sottoposto a una costrizione intellettuale tale che egli debba limitarsi ad apprendere a comando senza scoprire da se stesso la verità: se passivo intellettualmente non saprà essere libero moralmente”.

 Offrire la possibilità di scoprire e costruire la propria verità imparando a ricercare e a pensare insieme è una funzione sociale che la scuola deve fare propria con convinzione, facendosi magari anche aiutare da altre figure professionali, ma non delegandola a nessuno.

 Il libraio