La lettera sulla scuola
“La solitudine di ragazze e ragazzi è evidente, ma diventa ancor
più grave perché è incastonata tra altre due solitudini: quella delle famiglie
e quella degli insegnanti”. Su ilLibraio.it la lettera sulla scuola scritta da
Franco Lorenzoni, maestro elementare e fondatore del centro di sperimentazione
educativa Casa-laboratorio di Cenci, dal nuovo numero della rivista “Sotto il
vulcano”: “Fuori dalle classi i meccanismi di esclusione sono ancora più
spietati…”
-di
Franco Lorenzoni *
Un
gruppo di studenti di un liceo di Terni, rispondendo all’invito della preside
di indicare possibili miglioramenti per la loro scuola, ha proposto di
istituire uno psicologo bidello. Uno psicologo sempre presente, in corridoio,
che si possa interpellare al momento del bisogno senza passare al vaglio di
insegnanti o genitori.
Tra
bidelle e bidelli, come gli studenti chiamano il personale Ata, ci sono
talvolta figure che incarnano un’attenzione curiosa verso la vita di ragazze e
ragazzi e che sanno entrare in relazione con loro al di là degli esiti
scolastici.
Proviamo
a prendere sul serio questa espressione ingenua di un bisogno.
Un
numero sempre più ampio di studentesse e studenti ha un evidente bisogno di
aiuto. Se ascolto una ragazza di seconda media che dice “mi taglio le braccia
per soffrire meno”, se assistiamo a una moltiplicazione geometrica di casi
gravi che si presentano alle Asl e ai centri di igiene mentale, se crescono a
dismisura disturbi dell’alimentazione e forme di autolesionismo o di isolamento
e chiusura totale, non possiamo non pensare che ci sia qualcosa da ripensare
con radicalità e urgenza nella scuola, perché la scuola è il principale e
spesso unico luogo pubblico di incontro tra le generazioni.
Il
decennio della cura
Nei
mesi che seguirono la fase più acuta della pandemia ci siamo trovati a
ragionare sulla necessità di inaugurare un decennio da dedicare alla cura.
Cura
delle persone, a partire dai più giovani, che avevano subito l’isolamento
domestico ed erano stati costretti a considerare il contatto come contagio con
conseguente avvilimento del corpo, in una età in cui il corpo è primario ed
essenziale luogo di conoscenza e desiderio. Intorno al corpo e alla percezione
di sé, tra l’altro, si stanno giocando negli ultimi anni sommovimenti profondi
nelle nuove generazioni, i cui sintomi vanno dall’esplosione delle tematiche di
genere a nuove inibizioni che accompagnano relazioni vissute frequentemente
solo a distanza.
Il
paradigma della cura non riguarda tuttavia solo il corpo e la salute dei
singoli, ma la relazione con l’intero pianeta ferito, i cui equilibri sono a
rischio per via dei cambiamenti climatici, avvertiti dalle nuove generazioni
con maggiore sensibilità.
Quello
che, nelle prime settimane della pandemia, in cui sembrava prevalere la
solidarietà, era apparso come un momento di svolta e di presa di coscienza
dell’insostenibilità dei nostri modi di vivere e abitare la terra, si è
dissolto velocemente.
Non
appena ci siamo liberati dalle mascherine c’è stata una rimozione collettiva
pressoché assoluta di ciò che era accaduto, mentre a livello individuale
ragazze e ragazzi e bambine e bambini anche piccoli, si sono trovati a dovere
affrontare in solitudine le conseguenze profonde di quel trauma.
A
tutto questo si è aggiunta una guerra percepita come vicina, dal momento in cui
la Russia di Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina: un bambino, che vede alla
televisione le conseguenze di un bombardamento scoprendo che non è finzione,
non può non esserne colpito e offeso.
La
distanza tra generazioni
La
solitudine di ragazze e ragazzi è evidente, ma diventa ancor più grave perché è
incastonata tra altre due solitudini: quella delle famiglie e quella degli
insegnanti.
Già
in un articolo sul “Giornale dei genitori” del 1962 Ada Gobetti descrive
“genitori che si mostrano e si dichiarano il più delle volte smarriti,
impotenti, sprovveduti, […] che ancora conservano, pur senza rendersene conto,
molte caratteristiche dell’adolescenza: incerti, instabili, disorientati essi
stessi, quale sicurezza possono dare ai loro figli?”. Aggiungendo poi: “Non
sanno offrire modelli a cui i figli possano ispirarsi o contro cui possano
polemicamente ribellarsi; troppo assorti nei propri problemi, difficilmente
sanno uscire da se stessi per dare ai figli quell’amore completo e
disinteressato capace di colmare da solo ogni lacuna di preparazione culturale
e pedagogica”.
L’analfabetismo
che allarmava Ada Gobetti oltre sessanta anni fa non riguardava tanto la
preparazione culturale, quanto l’incapacità di “uscire da se stessi”, che è
base imprescindibile per costruire un confronto positivo con figlie e figli,
sapendo accogliere il fatto che possano incarnare punti di vista diversi dal
nostro.
Le
relazioni sono rese ancora più difficili da una distanza tra le generazioni che
si è enormemente ampliata per la costante dipendenza che tutti abbiamo verso
strumenti di comunicazione, informazione, gioco e distrazione permanentemente
accesi.
Questa
distanza è alimentata ulteriormente dall’ossimoro che caratterizza il
comportamento di molti genitori: un bisogno di controllo sempre più accentuato
unito a una presenza incostante e intermittente.
Questo
vuoto, questa difficoltà di relazioni nelle famiglie, viene talvolta
compensata, paradossalmente, da una difesa a oltranza di qualsiasi
comportamento anche improprio di figlie e figli nella scuola. Da cui una
sfiducia diffusa, che a volte sfocia in aggressività e violenza verso gli
insegnanti e il loro ruolo educativo.
Teniamo
presente anche il fatto che ormai più della metà dei bambini sono figli unici e
non conoscono dunque il salutare allenamento alla condivisione di spazi e
oggetti che aiuta a ridimensionare l’espansione illimitata delle proprie
esigenze.
La
terza solitudine riguarda noi insegnanti, in grande difficoltà nel costruire
regole condivise con ragazze e ragazzi che incorporano esperienze segnate dalla
difficoltà adulta di assumersi le proprie responsabilità nello stabilire
confini sensati, nella vicinanza.
Si
arriva così a un altro paradosso. Ragazze e ragazzi pensano a volte di poter
fare ogni cosa pur sapendo, con maggiore o minore consapevolezza, che li
aspetta un mondo dominato da vecchi spesso incattiviti, che stanno sottraendo
loro libertà e futuro, perché rimandare ogni scelta sul clima o minare le
fondamenta del welfare riguarda molto concretamente la qualità della vita che
li aspetta.
Pronto
soccorso culturale
Molti
anni fa Felice Pignataro, geniale artefice di interventi artistici e laboratori
proposti nelle periferie di Napoli, invocava la necessità di un pronto soccorso
culturale, più che mai necessario oggi.
E
allora una domanda che dovremmo porci con rigore e radicalità riguarda il ruolo
giocato dalla scuola in questi decenni, in cui evidentemente noi che
insegnavamo e provavamo ad educare non siamo stati in grado di elaborare un
controcanto convincente, capace di criticare e contrastare ciò che stava
accadendo nelle famiglie e nella società riguardo al disprezzo per la cultura e
a una sfiducia crescente verso il sapere come terreno per la realizzazione di
una vita migliore.
La
peggiore offesa all’infanzia sta nel costringere bambine e bambini e
adolescenti a trascorrere ore e ore a scuola insieme ad adulti pigri,
demotivati e frustrati, a insegnanti che hanno smesso di ricercare e credere
nella cultura come luogo di conoscenza di sé e leva di trasformazione
individuale e collettiva.
Ma
noi sappiamo che fuori dalla scuola i meccanismi di esclusione e
discriminazione sono ancora più spietati, perché chi è ricco di parole,
curiosità e domande potrà utilizzare al meglio le potenzialità della rete e di
future “intelligenze” artificiali, mentre chi è più povero di riferimenti
culturali e desideri di conoscenza si troverà relegato alla mercé di un mercato
che non privilegia certo la qualità.
Tra
chi prova a fatica ad affrontare la dispersione scolastica e le crescenti
povertà educative si sta sviluppando una discussione di cui tenere conto.
Dobbiamo puntare a un ampliamento del tempo della scuola o dobbiamo immaginare
e finanziare altri apporti educativi da parte del volontariato sociale, del
terzo settore in collaborazione con le istituzioni locali, moltiplicando
progetti capaci di dare vita a comunità educanti aperti al contributo delle
famiglie?
Alcuni
tentativi di costruzione di comunità educanti locali stanno dando risultati
interessanti.
In
altre situazioni, invece, il finanziamento di progetti educativi nati fuori
dalla scuola sta alimentando diffidenze tra insegnanti e famiglie, che a volte
sono invadenti, o tra scuola e terzo settore.
Tra
scuola e territorio
Personalmente
penso che chiunque lavori per migliorare la qualità culturale del territorio
sia un alleato indispensabile per chi nella scuola non rinuncia a battersi
contro ogni forma di discriminazione.
Penso
tuttavia che la scuola debba mantenere le sue peculiarità e sforzarsi di essere
un luogo di costruzione culturale lenta. E che dunque noi docenti non possiamo
sottrarci al tentativo di intrecciare sempre il ruolo di insegnanti a quello di
educatrici ed educatori, sapendo trasformare l’incontro con arte, scienza,
letteratura e bellezza come luoghi possibili di quel bisogno di cura di cui
siamo noi i responsabili.
Il
cuore dell’educazione attiva sta nel costruire strumenti per arricchire le
qualità e potenzialità di ciascuno alimentando la fiducia in sé stessi. Al
tempo stesso il nostro ruolo sta nella capacità di seminare inquietudine,
cercando ogni modo per moltiplicare le domande.
Seminare
inquietudine dovrebbe essere un anelito costante in chi educa, con la
consapevolezza che a scuola stiamo svolgendo una funzione politica nel senso
più ampio e autentico del termine, cioè di allenamento all’arte del convivere e
di cura del bene comune.
La
mezza verità
Mario
Lodi, nel più noto dei suoi diari didattici che intitolò Il paese sbagliato,
fa un’unica lunga citazione, tratta da un saggio dello psicologo e pedagogo
svizzero Jean Piaget: “Lo scopo dell’educazione intellettuale non è quello di
saper ripetere o conservare verità belle e fatte, perché una verità che viene
ripetuta non è che una mezza verità: ma è piuttosto quello di apprendere e
conquistare da se stessi il vero, a rischio di metterci molto tempo e di
passare per tutte le traversie che una attività reale richiede. Non è possibile
formare delle personalità autonome nel campo morale se l’individuo è sottoposto
a una costrizione intellettuale tale che egli debba limitarsi ad apprendere a
comando senza scoprire da se stesso la verità: se passivo intellettualmente non
saprà essere libero moralmente”.
Offrire
la possibilità di scoprire e costruire la propria verità imparando a ricercare
e a pensare insieme è una funzione sociale che la scuola deve fare propria con
convinzione, facendosi magari anche aiutare da altre figure professionali, ma
non delegandola a nessuno.
Il
libraio
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