della generazione in poesia
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di Giorgio Ghiotti
è come lo vuole la mia generazione".
(Tiziano
Rossi, da Il cominciamondo)
«La
poesia si è fatta generazionale», ho sentito dire – persuadendomene dopo un
primo rifiuto – da un giovane studioso di letteratura. Belli e perduti (?) i
tempi in cui le nuove voci della poesia cantavano nello stesso coro dei
fratelli maggiori, dei padri e delle madri, dei nonni e delle nonne persino. E
non è solo un fatto di compresenza, ma di contemporaneità: di ascolto. È un
fatto che, a esclusione delle antologie bisognose di mettere ordine attraverso
raggruppamenti e centurie, la poesia degli anni Ottanta ha raccolto in una
città come Roma non solo poeti, ma interlocutori veri come Dario Bellezza e
Amelia Rosselli, le più giovani (allora) Patrizia Cavalli e Biancamaria
Frabotta, Antonio Veneziani e Jolanda Insana, i maestri come Giorgio Caproni e
Attilio Bertolucci, Maria Luisa Spaziani e moltissimi, moltissimi altri. O, a
Milano, ha visto lavorare insieme (anche talvolta nella divergenza di idee)
Franco Fortini e Giovanni Raboni, Maurizio Cucchi e Milo De Angelis, Patrizia
Valduga e Vivian Lamarque…
A
quale vuoto risponde, di quale mancanza è effetto il bisogno identitario della
poesia d’oggi che va organizzandosi, dal web alle riviste all’accademia, in
gruppi generazionali che, sempre di più, producono personaggi più che poeti, e
discorsi critici autoriferiti più che poesia? Abbozzo qui due ipotesi che
lascio aperte: un vuoto editoriale, di cui hanno fatto le spese specialmente i
poeti nati negli anni Settanta/inizio Ottanta, gli stessi che, in assenza di
veri traumi collettivi, hanno però avuto a loro volta un nemico anche più
subdolo: il conformismo che ha informato e marchiato la loro epoca, obnubilando
le coscienze e narcotizzando, anziché uccidere; e un vuoto spirituale e
politico senza precedenti, sul quale il neo-conformismo berlusconiano ha
edificato il suo impero. I poeti della mia generazione (i nati negli anni
Novanta) hanno vissuto i primi trent’anni della loro vita sotto Berlusconi, con
la pervasività, in termini pubblici e privati, che questo ha significato. L’eredità
di oggi è se possibile ancor più confusa: dopo il monito di Dario Bellezza dal
Teatro d’Ostia antica nel ’94 («La poesia deve uccidere i Berlusconi del
pianeta»), preso atto del fallimento di quell’auspicio ma pure testimoni della
fine di un’era (morto il corpo, vacante il simbolo), reduci del mondo dei
cartoni che ci hanno nutriti nei dopopranzo su Italia 1 e Canale 5, chi è il
nuovo avversario? E senza un avversario contro il quale affilare la nostra
identità, come potremo tornare a pensarci non più orfani ma protagonisti – o
coprotagonisti, comparse almeno – della Storia che si farà, che già si sta
facendo?
Non
è questa la sede per analizzare le modalità di formazione di gruppi di qualsivoglia
genere; a me basta notare come, almeno in poesia, il gruppo che si viene
naturalmente a creare durante gli anni della giovinezza può avere come collante
una poetica a posteriori, solitamente ignota a chi vi aderisce nel momento in
cui scrive, e che solo nel tempo rivela i suoi caratteri, inclusivi e mobili; e
che i gruppi cui si aderisce da adulti pongono solitamente come sostrato comune
poetiche a priori, già posticce, cui ci si sforza finanche di aderire per
sentirsi parte di una comunità. Per non sentirsi orfani per sempre, insomma. E
qui penso, riassumendola in poche battute, alla riflessione di Merleau-Ponty:
davanti alla minaccia della fine, che può assumere eterogenei e multiformi
caratteri (la dispersione generazionale, l’oblio da parte della “società delle
Lettere”, il pericolo che la propria voce cada nel vuoto, il disinteresse
editoriale), l’individuo tende a svestire i panni individuali per entrare
all’interno di un gruppo, perché attraverso il gruppo la sua esperienza possa
proseguire. E questa è un’illusione tra le più dolci, di cui pare l’uomo non
sappia fare a meno. Inoltre, il gruppo – questo tipo particolare di cui vado
scrivendo, almeno – garantisce, oltre a una legittimazione dei singoli
componenti, anche la difesa rispetto a critiche provenienti dall’esterno, che
vengono lette sotto forma di attacchi e assedi irricevibili. Va da sé che, se
le critiche giunte dall’esterno vengono trasformate alchemicamente in attacchi,
e dunque tutto ciò che si posiziona all’esterno del gruppo prende i connotati
del “nemico” anziché dell’avversario, c’è il rischio che i componenti del
gruppo modellino la propria identità sul profilo della vittima. Il vittimismo
percepito non ha nulla a che fare né con le vere vittime della storia (o di un
sistema culturale) né, tantomeno, con la poesia.
Mi
si potrà obiettare, rispetto a quanto scritto fin qui e a quanto segue, che i
miei siano ragionamenti astratti, perché privi di esempi – cioè di nomi e
cognomi. Ma io non ho interesse nel nutrire la morbosità e il pettegolezzo che
caratterizza un certo mondo della poesia, ritenendo molto più prezioso e
urgente, se mai, tentare di fare un po’ di luce su un metodo più che su singoli
casi. Prima di passare a qualche considerazione sulla poesia scritta dai miei
compagni di generazione, esprimo la speranza che questo mio contributo possa
creare un dibattito reale, anche nella divergenza di opinioni, e non una
sequela di abbai da chi, sentendosi nel mirino o notando una scintilla sulla
propria coda, sentisse la tentazione di fare la parte dei cani di Pavlov.
La
mia generazione poetica è atipica, anomala, a tratti imprendibile. Molto più
che in passato, è formata da studiosi che a loro volta insegnano, o frequentano
l’accademia per via di dottorati, di assegni di ricerca, di gruppi di lavoro.
Sono mediamente giovani anche più preparati di quanto lo fossero gli autori di
una o due generazioni precedenti. Conoscono una quantità straordinaria di
poeti, anche minori, per lungo tempo dimenticati; si adoperano per organizzare
incontri ed eventi (ma, il più delle volte, solo con chi può restituire loro
una certa idea di poesia, cui corrono dietro). Equipaggiati nel magma
dell’editoria poetica, vincono premi e sanno rendersi ben visibili grazie
all’uso sapiente dei mezzi digitali. Li ascolto con grande interesse formulare
teorie critiche che intersecano i saperi e le arti. Sono colti, scaltri. Ma in
tutto lo sfavillante arredo poetico installato in una casa dove difficilmente
ci si riesce a sentire qualcosa più che ospiti, mi fermo spesso sorpreso a
domandarmi dov’è la poesia di cui pure tanto si parla.
Che
l’animo si metta leopardianamente in entusiasmo, ecco cosa chiedo a un libro di
poesia, ecco con quale speranza apro ogni volta che posso i libri dei miei
coetanei. Ma sempre meno spesso questa speranza viene attesa. Ottimi eruditi,
siamo bravi a lavorare versi che possano destare interesse e ammirazione in chi
legge. Ma il risultato, salvo alcune eccezioni, è una poesia incline
all’esercizio della maniera anziché alla grazia dello stile. Più si crede di
poter supplire al talento naturale con lo studio, più (ci) si inganna. La mia è
una generazione che sulla pagina inganna molto, perché sa come farlo.
Su
un punto non si può però ingannare: una vera poesia è una poesia nella quale si
avverte, leggendola, insieme una tradizione e un futuro. Ricordo benissimo la
prima volta che lessi le poesie d’esordio di Gabriele Galloni; in lui la
tradizione cantava producendo, rielaborata dal suo talento innato di poeta, un
futuro. Un gran coro di voci, da Gozzano a Penna, da Caproni a Toulet, da
Salvia a Scartaghiande s’alza nelle sue poesie, ed è una tradizione che non ha
nulla a che vedere con l’erudizione. È una sorta di “sfiatatoio amoroso” che,
all’insaputa del poeta, soffia questo venticello leggero e fresco e costante
sulla pagina. E, soffiando, ci investe e ci supera. Poesie come le sue non
hanno la febbre, ma misurano la febbre del mondo, essendo insieme antiche e
nuovissime. Non è una generazione generosa, la mia, e l’invidia per il successo
di un giovanissimo poeta come Galloni è costata a lui non poco dolore.
Ma
vi sono anche poeti la cui poesia è stata già riconosciuta da indiscussi
maestri, valorizzata con premi prestigiosi, che vengono tuttavia
deliberatamente rimossi dal panorama generazionale, a favore di altri di dubbio
e scarso valore. Si potrà dire che il valore pertiene a un giudizio personale,
insindacabile, e qui rilevo il grande scarto con quanto accadeva non più di
dieci, quindici anni fa: l’investitura di un giovane poeta da parte di un
grande nome della poesia non avrebbe potuto passare inosservata, tantomeno
ignorata. Una recensione a pieni voti da parte di Franco Loi, per esempio, avrebbe
assicurato fino a pochi anni fa un’attenzione della critica e dei propri
coetanei su quanto si andava scrivendo. Oggi è venuta meno l’idea stessa di
autorevolezza. E infatti alcuni autori della mia generazione stanno eleggendo a
maestri poeti poco più grandi di loro, con una produzione ridotta, ancora in
formazione, il cui operato non ha il peso necessario a farne, a oggi, figure di
riferimento. Più che maestri, sembrano somigliare a dei guru della poesia, a
dei santoni. E fuori dai radar (di questa nuova affollatissima schiera di
poeti-critici autobattezzatisi) restano, inascoltati e rimossi, operanti nella
quasi indifferenza generale («L’indifferenza è inferno senza fiamme» –
Spaziani) non solo quelli di noi che pure stanno consegnando alcune tra le prove
più solide di questi ultimi anni, ma anche dei nomi che per cinquant’anni hanno
lavorato per la poesia, la propria e quella degli altri (penso all’esclusione
dall’ultima discussissima antologia di Tommaso Di Dio di poeti come Anna
Cascella Luciani, Gabriella Sica, Roberto Deidier, Antonio Veneziani, Tiziano
Rossi, Elio Pecora, Alberto Toni: non una selezione, ma una vera e propria
deliberata rimozione di cui sarebbe in qualunque caso franoso giustificarne il
senso critico). La figura del poeta-critico, rara e novecentesca, di cui fanno
parte due poeti di prim’ordine come Biancamaria Frabotta e Roberto Deidier, o
anche Enrico Testa, pende sempre più verso il “critico” accademico che,
all’interno del suo circolo di interlocutori (a loro volta tutti poeti di
mestiere più che di nascita), non chiede che d’essere riconosciuto anche come
autore. E la patente di poeta, ormai, non si rifiuta (disgraziatamente) a
nessuno.
Abbiamo la possibilità di sottrarci al circolo vizioso – imparato bene dall’editoria in prosa e riproposto con ancora maggior puntiglio – della pubblicazione, della recensione come merce di scambio, dei festival curati da chi ospita sempre gli stessi nomi come favore a questo o a quell’editore, dei premi elargiti al compagno di scuderia, o al marchio più potente. Abbiamo questa possibilità: la sottrazione. Bisogna avere coraggio e tentare, in questa direzione, il primo vero gesto collettivo e generazionale in grado di fare la differenza.
3.
Reputo
tra le voci più limpide e solide della mia generazione poetica quelle di Rudy
Toffanetti e di Ivonne Mussoni. Nella loro poesia avverto chiare tutte le spie
che mi suggeriscono di trovarmi di fronte a due poeti veri, di chiaro valore e
soprattutto di lungo respiro – entrambi hanno già all’attivo due raccolte, e
stanno lavorando alle nuove.
Uscito
a quattro anni di distanza dall’esordio con Sul confine, l’ultimo libro di
Toffanetti, La luce della luna (Aragno, 2020) è un perfetto esercizio di
osservazione e restituzione del mondo circostante («Il poeta percepisce il
dolore del nostro tempo senza esserne travolto» scrive Franco Loi nella
prefazione) e di intelligenza emotiva. Il mondo naturale, prima di tutto,
quello della campagna dove è cresciuto il poeta, vicino Milano, ma anche quello
della città in cui l’autore si è spostato. Il passaggio dalla campagna alla
città, questa sorta di “inurbamento poetico”, prende i toni di un’epopea
privata e comune: si affollano, direttamente o indirettamente, le voci di padri
e persone qualunque, e i silenzi di un amore colto subito prima del sonno sotto
la luce della luna. È un lavoro sull’identità di poeta e sulla propria voce nel
mondo, quello di Toffanetti. Si domanda in continuazione, anche senza
esplicitarlo, chi è mai quello che da uno specchio lo fissa, e la risposta è
enigmatica nella sua spiazzante semplicità: «ma dentro quel buio chi eravamo? /
tu eri il bimbo, io appena nessuno». È sulla soglia di ogni possibile
definizione che il poeta arresta la parola, lasciando che a cantare siano i
ricordi, buoni non solo per evocare il passato ma anche per suggerire quelli
che potremmo diventare. L’assenza totale di una ricerca spasmodica del colpo di
scena, della sperimentazione, di un lessico e di una forma artificiosi propri
di molti suoi coetanei (lui non scrive poesie col vocabolario alla mano) fanno
di Toffanetti un autore nato all’ombra degli alberi sacri ai poeti, sotto lo
stesso cielo stilistico di Attilio Bertolucci (del quale la poesia di Rudy
potrebbe far suoi i versi «Le strade indurite dall’autunno / mi riportano a te,
al tuo lontano / vivere ormai in giorni antichi /pieni di una luce che non
muta»). Né è assente in La luce della luna, e nella terza raccolta in cantiere,
un carattere per così dire di “mito minore e terrestre” che prende la forma di
una poesia-racconto cara al Pavese di Lavorare stanca e che si alimenta, senza
progetto ma per prossimità, delle lezioni di Ernesto De Martino. Il lessico
quotidiano, i paesaggi noti, magari dimenticati, ma intatti nella loro forza
sempiterna raccolgono la lezione di un autore amato da generazioni tra loro
lontane, quella di Tolkien. All’uscita della sua trilogia ambientata nella
Terra di Mezzo, alcuni critici non si risparmiarono in polemiche, additando
l’opera tolkieniana come poco attuale perché totalmente priva di quei rimandi
concreti all’esperienza della guerra dalla quale Tolkien partì per imbastire il
suo intramontabile racconto allegorico. Rispose l’autore che dei fucili, delle
lampadine, tra un secolo nessuno saprà più molto, forse nemmeno la forza e l’uso;
ma dei fulmini, delle nubi che oscure s’addensano sulla terra di Mordor, tutti
ancora potranno fare esperienza, perché la natura è qualcosa che esiste da
sempre e esisterà per sempre. Una materia connaturata all’uomo, come la poesia;
e quella di Rudy Toffanetti, mutatis mutandi, ha questa stessa ipotesi di
durata.
Ivonne
Mussoni, dopo La corrente delle cose ultime accolto con grande favore da, fra
gli altri, Vivian Lamarque e Daniele Mencarelli, è stata finalista col suo
secondo libro, Sirene (Perrone, 2022, prefazione di Dacia Maraini) al Premio
Carducci, sostenuta fra gli altri da Silvia Bre, sua ammiratrice di lungo
corso. La poesia di Mussoni si riallaccia tematicamente a una tradizione
classica, che spazia dai miti greci e dalle leggende norrene fino agli
oracolari poemetti di Rilke. Ma c’è anche spazio per piccole scene di vita
quotidiana, stanze dell’abbandono, oggetti e momenti di pura rivelazione («La
mia creazione risponde ad altra legge, / alla forza sotterranea che eccede alle
foreste»); a innalzare il tono della sua poesia non è tanto la scelta tematica,
quando una voce tesa e sapienziale, forte perché perduta in precedenza come
quella della Sirena, perché «tutto ciò / che ritorna dall’oblio ritorna / per
trovare una voce» (Louis Glück). Una voce che non può non creare eco con quella
abissale e inconfondibile di Maria Luisa Spaziani. C’è un che di curioso e
quasi inquietante: la scoperta di Spaziani è avvenuta per Mussoni più tardi
rispetto agli anni in cui ci si forma sulle letture che saranno per noi
fondamentali. Eppure, la Sibilla sembra essere la stessa, di ritorno sulla
terra poche volte in un secolo, in dialogo prima con i novant’anni di Spaziani,
poi con i trenta di Mussoni – e di certo un altro appuntamento è stato quello
con Bre. Come spiegare questa felice discronia amorosa?
Forse
la tradizione di uno studioso è qualcosa che si consolida prima della
scrittura, mentre quella di un poeta può anche essere inconsapevole,
embrionale, ma non per questo meno presente in ciò che scrive. È un coro di
voci che, pur non ancora lette, già abitano in un modo misterioso e autentico
la mente poetica. Per questo dico che poeti si nasce («Se bisogna fare uno
sforzo per essere poeta, meglio dedicarsi ad altro», Dario Bellezza). E ne
nascono così pochi («troppo pochi!» come scrive Biancamaria Frabotta) per ogni
generazione che non possiamo rischiare di perderli nel chiacchiericcio poetico
quotidiano.
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