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- di Giuseppe Savagnone
Una credente critica
Nella grande eco suscitata dalla morte di Michela
Murgia non è mancato il riferimento alla sua fede cattolica. Una fede
tutt’altro che tradizionalista e abitudinaria, come quella di tanti “fedeli
della domenica”, e che ha profondamente permeato e orientato la sua storia.
Responsabile del settore giovanile dell’Azione cattolica in Sardegna, laureata
in teologia, aveva anche insegnato religione nelle scuole. Insomma, una
cattolica “impegnata”.
Pur critica verso una istituzione che lei accusava
(non senza buone ragioni) di essere «strutturalmente patriarcale», la Murgia se
ne è tuttavia sentita parte integrante fino alla fine, come ha sottolineato con
la sua volontà di avere dei funerali religiosi.
Era convinta che si dovesse restare nella Chiesa per
operare dall’interno il cambiamento, non già sparare a zero contro di essa
dalla facile posizione di fuoriuscita. Come ha scritto Gennaro Ferrara su
«Avvenire», «Michela è stata un’intellettuale credente che ha provato sempre,
nella sua coscienza come nelle pagine scritte, a far dialogare la cultura e le
istanze del nostro tempo con il Vangelo, con tutta la fatica e le incongruenze
che questo comporta».
E per la verità di incongruenze – non solo con le
posizioni ufficiali della Chiesa istituzionale, ma con la tradizione cristiana
– probabilmente ce ne sono state nelle sue battaglie a favore del diritto
all’aborto, dell’eutanasia, dell’omogenitorialità, espresse anche nella
scrittura con l’uso della schwa, la “e” capovolta che, al termine di una
parola, indica l’indifferenza di genere. Fino al rifiuto della visione
tradizionale della famiglia, in favore di una, allargata e fondata sul
superamento della differenza di genere (famiglia queer).
«Tutto questo», ha scritto Francesco Ognibene – sullo
stesso quotidiano cattolico -, «ha fatto della Murgia l’icona di
un’antropologia centrata sulla volontà personale, ispirata a una libertà di
scelta insindacabile e a un’autodeterminazione assoluta, che vede nel soggetto
il solo arbitro di sé stesso, senza riferimenti ad alcuna istanza oggettiva che
lo precede e che condivide con tutti gli esseri umani». Senza, però,
dimenticare che l’intento di fondo è sempre stato quello della difesa dei più
fragili e degli emarginati, per cui la scrittrice sarda si è sempre prodigata
senza riserve e a tutti i livelli. Anche se gli strumenti concettuali di cui si
è servita sono stati quelli della cultura radicale oggi dominante.
Due temi esorcizzati dalla nostra cultura
Era inevitabile che fossero proprio questi aspetti del
suo pensiero e del suo impegno ad essere messi in primo piano e celebrati in
occasione della sua morte. Eppure, c’è stato anche un altro punto del messaggio
di Michela Murgia che ha avuto una notevole risonanza e che sicuramente
corrisponde alla più profonda ispirazione evangelica, ed è stata la sua
personale testimonianza sul significato della malattia e della morte.
Sono due temi oggi lasciati largamente in ombra dalla
cultura ufficiale del politically correct, che invece ha la sua bandiera in
quelli del gender e della bioetica. Ed essi non si collocano all’interno del
grande scenario delle battaglie ideologiche fra “destra” e “sinistra”, ma,
ponendosi alla radice dell’esistenza umana, evidenziano la relatività di tutto
il resto, anche di queste stesse battaglie.
Per questo nella nostra società la malattia e la morte
vengono abitualmente esorcizzate. I malati vengono accuratamente isolati negli
ospedali, lontano dalla vista, e per ricordarsi che esistono bisogna andarli a
“trovare”. Una necessità medica, certamente, ma che ha anche il vantaggio di
esonerare i sani dall’accompagnarli nel cammino verso la loro morte. E se per
caso accade che questa si verifichi in casa, si mandano i bambini lontano, dai
parenti, perché non siano turbati da quello che sta accadendo.
Non era così in un lontano passato, quando la famiglia
si radunava intorno al moribondo per stargli vicino e raccogliere le sue ultime
parole. La morte era integrata nella vita, come dimostrava del resto l’uso di
seppellire i defunti nel giardino delle chiese, prima che nel Settecento
l’editto di Saint-Cloud (quello che ha ispirato «I sepolcri» di Foscolo) –
peraltro per ragionevoli motivi igienici – confinasse le tombe in cimiteri
fuori delle mura della città.
Il tabù della malattia e della morte è del resto il
risvolto di una cultura che fa della salute, della bellezza, della “forma”
fisica il sostituto di altri valori che un tempo davano senso alla vita.
«L’importante è la salute», si sente dire spesso. E il moltiplicarsi delle
palestre, delle piscine, degli studi dei dietologi e del ricorso alla chirurgia
estetica, dimostra quanto questo detto venga preso sul serio. Così come lo
conferma l’ansia nevrotica causata da qualunque disturbo, nel terrore che sia
solo il sintomo di qualcosa di più grave. Nel venir meno dei grandi ideali, che
occupavano il cuore e la mente e per cui valeva la pena di sacrificare tutto,
anche la vita, è rimasto questo.
La caccia alla lepre
Ma il tentativo di “distrarsi” dal pensiero della
morte assume una forma ancora più radicale nello stile stesso del nostro
vivere. E non solo oggi. Nessuno lo ha evidenziato più efficacemente di Blaise
Pascal, un pensatore del Seicento che ha visto in questo sforzo di distrazione
– lui usa il termine divertissement “divertimento” (dal latino de-vertere,
“volgere altrove la propria attenzione”) – la vera ragione dell’accanimento con
cui gli esseri umani perseguono obiettivi che, a ben vedere, non sono così
decisivi per garantire loro una vera realizzazione
«Così si spiega» – scrive il filosofo – «perché sono
così ricercati il gioco, la conversazione delle donne, la guerra, le grandi
cariche. Non già che in queste cose ci sia effettivamente della felicità, né
che si pensi che la vera beatitudine consiste nel possedere il denaro che si
può guadagnare al gioco, oppure nell’inseguire una lepre; queste cose, se ci
fossero offerte, non le vorremmo.
Noi non cerchiamo (…) né i pericoli della guerra, né
la preoccupazione delle cariche, ma cerchiamo proprio il trambusto che ci
distoglie dal pensarci e ci diverte. Questa è la ragione per cui si gusta più
la caccia che la preda. Per questo gli uomini amano tanto il rumore e il
trambusto; per questo la prigione è un supplizio così orribile; per questo il
piacere della solitudine è una cosa incomprensibile (…).
Questo è tutto quello che gli uomini hanno potuto
inventare per diventare felici. E quelli che fanno i filosofi su questo e
credono che il mondo è troppo poco ragionevole nel passare tutto il giorno a
correre dietro a una lepre che non accetterebbero se comprata, non conoscono la
nostra natura. Quella lepre non ci garantirebbe dalla visione della morte e
delle miserie, ma la caccia, che ce ne distoglie, ci garantisce».
Sono parole che risuonano più che mai attuali nel
nostro tempo, caratterizzato da un attivismo frenetico e da un consumismo
insaziabile che coinvolgono tutti gli aspetti della nostra esistenza. Nelle
società evolute, piuttosto che lavorare per vivere, si vive per il lavoro. E
anche quelli dovrebbero essere i momenti di riposo vengono spesso scanditi –
nelle discoteche, nelle lunghe code delle vacanze, nelle spiagge affollate –
dagli stessi ritmi frenetici, magari ricorrendo all’alcol e alle droghe per
riuscire a reggerli fisicamente. «Questo è tutto quello che gli uomini hanno
potuto inventare per diventare felici».
Un modo diverso di vivere la malattia e la
morte
Michela Murgia, colpita a cinquant’anni da una
malattia – il cancro – che più di ogni
altra simboleggia, nel nostro tempo, il
“male”, ha mostrato che è possibile dare un’altra lettura della morte e, per
ciò stesso, della vita. «La malattia non è una catastrofe, ma un pezzo della
mia vita che vale come gli altri e non voglio trattarla come un segreto oscuro
o una cosa di cui vergognarmi», ha scritto in un post destinato a spiegare la
sospensione delle sue attività pubbliche.
La scrittrice ha ripreso e approfondito questo
pensiero nell’ultima intervista, rilasciata ad Aldo Cazzullo sul «Corriere
della sera», dove ha parlato con grande serenità del male che l’aveva colpita e
della sua prossima fine. «Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono
(…). Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi,
non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della
mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare
guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare
per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno».
In questa prospettiva, neanche la morte appare una
catastrofe che travolge e rende insensata la vita, ma ne appare piuttosto il
sigillo, la conferma finale che è valsa la pena di viverla. All’intervistatore
che le chiedeva se la considerava un’ingiustizia, Michela Murgia ha risposto:
«No. Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la
stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non
sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi».
Un messaggio – radicato nella prospettiva cristiana,
che relativizza drasticamente la morte – veramente alternativo rispetto a una
società dominata dal clima del “divertimento” e, segretamente, dalla paura. E
in effetti esso ha colpito profondamente molti, anche se poi ha finito per
essere meno valorizzato degli altri – assai più vicini alla sensibilità dei
mass media e dell’opinione pubblica – che la scrittrice ha lanciato nel corso
della sua instancabile militanza culturale e politica. Anche se a noi piace
pensare che anche ai suoi occhi esso abbia rappresentato, alla fine,
l’essenziale.
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*Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo
Scrittore ed
Editorialista.
Ringrazio Giuseppe Savagnone per averci riportato alla memoria due autori importanti della nostra cultura liceale, commentando la fede paradossale e la serenità cristiana di fronte alla morte di Michela Murgia: il Foscolo dei "Sepolcri" che non rinuncia alla religione, che ha reso "sacro su le tombe degli ani il giuramento" e che ci libera dal nichilismo post mortem, perché valorizza la "corrispondenza di amorosi sensi" che rende possibile il dialogo fra i viventi e coloro che non sono più visibili, dopo la morte; e il Pascal, che vede nel "divertissement", anche nelle forme del chiasso, della caccia e della guerra, un tentativo di rimuovere la morte come sigillo che valorizza la nostra vita.
RispondiEliminaRingrazio padre Giuseppe Oddone per il nitido profilo che traccia di don Milani, nell'anno dedicato a rileggere il suo creativo, complesso, illuminante e scomodo magistero di fede cristiana, di Costituzione e di didattica inclusiva e creativa. Ricordo infine Ambrogio Ietto, da poco scomparso, che ho conosciuto e apprezzato come appassionato uomo di scuola e di cultura, come supervisore di tirocinio nell'Università di Salerno, come membro del Comitato scientifico della collana UCIIM-AIMC "Professione scuola", dell'Editore Armando, e come presidente dell'IRRSAE della Campania. In merito cito un episodio che lo ricorda come focoso e gentile. Dopo aver fatto un'aspra critica alla ministra Falcucci, che presiedeva la conferenza dei presidenti IRRSAE, fu da noi convinto che aveva
esagerato e allora, prima che la riunione finisse, le fece portare un mazzo di fiori, fra applausi generali. Ciao Ambrogio, indimenticabile amico. Luciano Corradini
Grazie di cuore per i commenti, sempre opportuni. La memoria, la chiarezza e la competenza sono doti che ti contraddistinguono e ci aiutano a comprendere il passato e andare verso il domani.
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