giovedì 3 agosto 2023

IL SOGNO DI PAPA FRANCESCO

 


I confini non devono essere barriere

- di Giuseppe Savagnone *

Nel suo primo discorso in Portogallo, dove si è recato per la Giornata Mondiale della Gioventù, papa Francesco ha confermato di essere il più grande, forse l’unico, disturbatore della quiete pubblica oggi in circolazione nel nostro pianeta.

In un mondo che sta assistendo al più grande movimento di chiusura delle frontiere (di quelle geografiche, ma soprattutto di quelle umane) dal tempo della guerra fredda e che, dopo decenni di relativa distensione – in cui sembravano possibili, in nome della globalizzazione, forme sempre più strette di cooperazione non solo economica, ma anche politica e culturale – , sta ormai ritornando alla logica dello scontro frontale tra i blocchi, della reciproca demonizzazione e del rifiuto dell’ “altro”, il capo della Chiesa cattolica rimane forse la sola voce coraggiosamente controcorrente.

 «Bisogna ripensare i confini come “zone di confronto” e non di separazione ed egoismi che portano inevitabilmente a conflitti», ha detto nel suo discorso il papa. Non si tratta di misconoscere o addirittura abolire le identità nazionali, politiche, culturali e religiose.

 I confini sono essenziali per definire le diversità e sfuggire alla minaccia dell’omologazione, tanto più forte, oggi, in una civiltà della comunicazione illimitata delle notizie, degli esseri umani e delle merci. Ma non devono diventare dei muri, come accade quando si parla della loro “difesa” contro chi sta dall’altra parte, additato come un nemico che si può solo combattere e cercare di vincere.

 La guerra in Ucraina e la sua metamorfosi

Il più immediato riferimento delle parole di Francesco è alla guerra in Ucraina che da più di un anno sta spaccando il mondo. È cominciata con una assurda aggressione della Federazione Russa ai danni di un popolo già in passato oggetto di inaudite violenze da parte del vecchio regime sovietico e che sta oggi evidenziando, con la sua disperata resistenza, la sua volontà di non ricadere sotto il dominio della Russia di Putin.

 Da qui la giusta indignazione e la solidarietà subito mostrata verso le vittime dalla maggior parte dei paesi, anche in considerazione dei metodi disumani con cui l’invasione è stata condotta, deportando bambini, torturano civili, distruggendo indiscriminatamente centri abitati.

 Ma quasi subito lo scenario è cambiato, allargandosi e assumendo una fisionomia ben più ampia di quella di un conflitto locale, per quanto drammatico, di cui cercare a tutti i costi, a livello internazionale, una rapida soluzione. È emerso sempre più chiaramente che la posta in gioco non era la libertà del popolo ucraino, ma lo scontro – puramente di potere (l’ideologia non c’entra più, dopo la fine del socialismo) tra la Nato, guidata dagli Stati Uniti, e la Russia.

 Uno scontro di cui sicuramente la seconda è direttamente responsabile – sono i russi ad aver scatenato la guerra! – , ma che la prima non ha fatto nulla per evitare, perseguendo negli ultimi anni una politica di espansione che contrastava con gli accordi verbali presi alla caduta del muro di Berlino tra Bush senior e Gorbaciov e consentendo che il governo di Kiev non applicasse mai gli accordi di Minsk, presi a tutela delle minoranze russofone del Donbass. Uno scontro, dunque, che gli Stati Uniti avevano messo nel conto come possibile, tanto che stavano da tempo preparando ad esso gli ucraini.

 Da qui anche il silenzio alla vigilia dell’attacco che, unici in tutto il mondo, solo i servizi segreti americani avevano dato per sicuro. Non sappiamo cosa sarebbe accaduto se Biden avesse detto una parola – una sola – per garantire la neutralità di Kiev. Forse le cose sarebbero andate allo stesso modo, perché da parte sua Putin aveva un piano preciso. Ma è certo che non l’ha detta.

 Non è così che si costruisce la pace

Fin dall’inizio è stato chiaro che la pace non la voleva nessuno. Il modo di condurre la guerra da parte di Putin è stato criminale, meritando giustamente una incriminazione da parte del tribunale dell’Aia. Ma dall’altra parte non c’è stato altro linguaggio che quello dell’intransigenza più radicale, ai limiti dell’odio, demonizzando l’intero popolo russo.

 Il Comitato Olimpico Internazionale ha «vivamente raccomandato» a tutte le federazioni mondiali di «non invitare atleti russi e bielorussi» nelle competizioni sportive internazionali. Non solo come rappresentanza nazionale, ma come singoli – prescindendo dalle loro posizioni politiche – i russi sono stati esclusi dalle paraolimpiadi invernali di Pechino, dalle competizioni internazionali di tutti i tipi, dall’hockey su ghiaccio alla dama, dal torneo di tennis di Wimbledon. La Russia è stata esclusa dai mondiali di calcio in Qatar. Sono state sospese le rappresentazioni teatrali di opere di autori russi.

Più comprensibile, ma non meno preclusivo di ogni possibilità di dialogo, l’atteggiamento nei confronti del governo di Mosca. Una raffica di sanzioni ha colpito la Russia in tutti i settori della sua economia, portando all’abbandono del paese da parte delle multinazionali.

 A livello politico, l’Assemblea generale dell’ONU l’ha sospesa dal Consiglio dei diritti umani. La Federazione russa è stata sospesa dall’UNESCO, dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Lo scopo dichiarato, secondo le parole del presidente Biden, è stato di «isolare la Russia dal palcoscenico internazionale», riducendola al ruolo di «paria».

 Reazioni in sé giustificate dal gravissimo atto di violenza perpetrato dal governo russo, ma che non erano state mai neppure in minima parte prese in considerazione in occasione di altri clamorosi casi di aggressione militare, come ad esempio quella, non meno devastante e gratuita (anche se a lungo giustificata con la produzione di prove rivelatesi poi false), degli Stati Uniti di Bush junior nei confronti dell’Iraq.

 La sola risposta a cui si è fatto ricorso è stata, oltre all’isolamento economico e politico, quella delle armi. Gli Stati Uniti e gli altri paesi della Nato hanno investito somme enormi – solo l’America, 40 miliardi di dollari – per fornire all’Ucraina gli armamenti che il presidente Zelensky fin dall’inizio ha continuamente richiesto e ottenuto in misura sempre crescente. Al punto da evocare l’dea, spesso tornata sui media, di un “guerra per procura” combattuta dalla Nato contro la Russia per il tramite del popolo ucraino.

 Non c’era bisogno di essere profeti per rendersi conto che in questo modo ci si poneva in una posizione che escludeva ogni possibilità di dialogo, e che alla fine, pur essendo “dalla parte della ragione”, era perfettamente simmetrica a quella di Putin nel voler perpetuare la guerra.

 Più di un anno fa, il 22 aprile 2022, in questa rubrica il sottoscritto, senza avvalersi di alcuna illuminazione divinatoria, pubblicava un chiaroscuro intitolato «Non è così che si costruisce la pace».

 Di pace, per la verità, si è continuato, di tanto in tanto, a parlare, ma sempre subordinandola alla vittoria e alla resa della Russia (magari con la destituzione di Putin). Un esito fatto balenare fin dall’inizio come imminente – dopo le sanzioni e le prime vittorie su un esercito russo apparso inefficiente e vulnerabile – , ma che poi è sembrato allontanarsi sempre di più e che oggi sembra sostituito dalla prospettiva di una guerra infinita e di un «nuovo ordine mondiale», assolutamente conflittuale, di cui la Nato costituirebbe un polo e i paesi alleati della Russia l’altro. I confini che diventano barriere.

 La crisi dell’Europa

A questo quadro ci stiamo tutti abituando. Papa Francesco ha avuto ragione nel dire, a Lisbona, che in questo momento mancano «rotte coraggiose di pace». Il pontefice si è rivolto in particolare all’Europa: «Verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo?».

 L’Europa è stata la vera grande sconfitta di questa guerra, comunque essa finisca. Negli ultimi decenni aveva costruito sulla collaborazione economica con la Russia – in particolare al livello della politica energetica – la sua prosperità. E c’era chi auspicava che questo avvicinamento si trasformasse gradualmente in una collaborazione anche politica, in grado di dar vita a un “terzo polo” tra Stati Uniti e Cina.

 La guerra di Ucraina ha distrutto queste prospettive e ha consegnato il continente a una totale dipendenza sia economica che politica dall’America. L’Europa è diventata una sezione della Nato, ormai elevata a vera protagonista del “nuovo ordine”. In compenso si sono rafforzate le tendenze nazionaliste, che hanno portato la Germania, la principale vittima di questa crisi, ad attuare per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale un imponente riarmo del proprio esercito, mentre il partito neonazista tedesco guadagna sempre più terreno nei sondaggi.

 Perché i soli a fare festa, in questa situazione, sono i fabbricanti di armi. «Preoccupa», ha detto Francesco, «quando si legge che in tanti luoghi si investono continuamente fondi sulle armi anziché sul futuro dei figli. Io sogno un’Europa, cuore d’Occidente, che metta a frutto il suo ingegno per spegnere focolai di guerra».

 I sogni di un papa sono fragili, come quelli di qualunque altro essere umano. E nulla, in questo momento, sembrerebbe avvalorare la realizzabilità di quello di Francesco. Ma la debolezza è nella natura del Vangelo e dei suoi profeti disarmati. È già importante che, in un mondo rassegnato alla logica della violenza e del calcolo della politica, una voce si levi a gridare la sua protesta e segni così la differenza tra l’umano e il disumano.

 *Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura della Diocesi di Palermo 

 

www.tuttavia.eu

 

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