I
confini non devono essere barriere
- di Giuseppe Savagnone *
Nel
suo primo discorso in Portogallo, dove si è recato per la Giornata Mondiale
della Gioventù, papa Francesco ha confermato di essere il più grande, forse
l’unico, disturbatore della quiete pubblica oggi in circolazione nel nostro
pianeta.
In
un mondo che sta assistendo al più grande movimento di chiusura delle frontiere
(di quelle geografiche, ma soprattutto di quelle umane) dal tempo della guerra
fredda e che, dopo decenni di relativa distensione – in cui sembravano possibili,
in nome della globalizzazione, forme sempre più strette di cooperazione non
solo economica, ma anche politica e culturale – , sta ormai ritornando alla
logica dello scontro frontale tra i blocchi, della reciproca demonizzazione e
del rifiuto dell’ “altro”, il capo della Chiesa cattolica rimane forse la sola
voce coraggiosamente controcorrente.
«Bisogna
ripensare i confini come “zone di confronto” e non di separazione ed egoismi
che portano inevitabilmente a conflitti», ha detto nel suo discorso il papa.
Non si tratta di misconoscere o addirittura abolire le identità nazionali,
politiche, culturali e religiose.
I
confini sono essenziali per definire le diversità e sfuggire alla minaccia
dell’omologazione, tanto più forte, oggi, in una civiltà della comunicazione
illimitata delle notizie, degli esseri umani e delle merci. Ma non devono
diventare dei muri, come accade quando si parla della loro “difesa” contro chi
sta dall’altra parte, additato come un nemico che si può solo combattere e
cercare di vincere.
La
guerra in Ucraina e la sua metamorfosi
Il
più immediato riferimento delle parole di Francesco è alla guerra in Ucraina
che da più di un anno sta spaccando il mondo. È cominciata con una assurda
aggressione della Federazione Russa ai danni di un popolo già in passato
oggetto di inaudite violenze da parte del vecchio regime sovietico e che sta
oggi evidenziando, con la sua disperata resistenza, la sua volontà di non
ricadere sotto il dominio della Russia di Putin.
Da
qui la giusta indignazione e la solidarietà subito mostrata verso le vittime
dalla maggior parte dei paesi, anche in considerazione dei metodi disumani con
cui l’invasione è stata condotta, deportando bambini, torturano civili,
distruggendo indiscriminatamente centri abitati.
Ma
quasi subito lo scenario è cambiato, allargandosi e assumendo una fisionomia
ben più ampia di quella di un conflitto locale, per quanto drammatico, di cui
cercare a tutti i costi, a livello internazionale, una rapida soluzione. È
emerso sempre più chiaramente che la posta in gioco non era la libertà del
popolo ucraino, ma lo scontro – puramente di potere (l’ideologia non c’entra
più, dopo la fine del socialismo) tra la Nato, guidata dagli Stati Uniti, e la
Russia.
Uno
scontro di cui sicuramente la seconda è direttamente responsabile – sono i
russi ad aver scatenato la guerra! – , ma che la prima non ha fatto nulla per
evitare, perseguendo negli ultimi anni una politica di espansione che
contrastava con gli accordi verbali presi alla caduta del muro di Berlino tra
Bush senior e Gorbaciov e consentendo che il governo di Kiev non applicasse mai
gli accordi di Minsk, presi a tutela delle minoranze russofone del Donbass. Uno
scontro, dunque, che gli Stati Uniti avevano messo nel conto come possibile,
tanto che stavano da tempo preparando ad esso gli ucraini.
Da
qui anche il silenzio alla vigilia dell’attacco che, unici in tutto il mondo,
solo i servizi segreti americani avevano dato per sicuro. Non sappiamo cosa
sarebbe accaduto se Biden avesse detto una parola – una sola – per garantire la
neutralità di Kiev. Forse le cose sarebbero andate allo stesso modo, perché da
parte sua Putin aveva un piano preciso. Ma è certo che non l’ha detta.
Non
è così che si costruisce la pace
Fin
dall’inizio è stato chiaro che la pace non la voleva nessuno. Il modo di
condurre la guerra da parte di Putin è stato criminale, meritando giustamente
una incriminazione da parte del tribunale dell’Aia. Ma dall’altra parte non c’è
stato altro linguaggio che quello dell’intransigenza più radicale, ai limiti
dell’odio, demonizzando l’intero popolo russo.
Il
Comitato Olimpico Internazionale ha «vivamente raccomandato» a tutte le
federazioni mondiali di «non invitare atleti russi e bielorussi» nelle
competizioni sportive internazionali. Non solo come rappresentanza nazionale,
ma come singoli – prescindendo dalle loro posizioni politiche – i russi sono
stati esclusi dalle paraolimpiadi invernali di Pechino, dalle competizioni
internazionali di tutti i tipi, dall’hockey su ghiaccio alla dama, dal torneo
di tennis di Wimbledon. La Russia è stata esclusa dai mondiali di calcio in
Qatar. Sono state sospese le rappresentazioni teatrali di opere di autori
russi.
Più
comprensibile, ma non meno preclusivo di ogni possibilità di dialogo,
l’atteggiamento nei confronti del governo di Mosca. Una raffica di sanzioni ha
colpito la Russia in tutti i settori della sua economia, portando all’abbandono
del paese da parte delle multinazionali.
A
livello politico, l’Assemblea generale dell’ONU l’ha sospesa dal Consiglio dei
diritti umani. La Federazione russa è stata sospesa dall’UNESCO,
dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), dall’Organizzazione
Internazionale del Lavoro (OIL). Lo scopo dichiarato, secondo le parole del
presidente Biden, è stato di «isolare la Russia dal palcoscenico
internazionale», riducendola al ruolo di «paria».
Reazioni
in sé giustificate dal gravissimo atto di violenza perpetrato dal governo
russo, ma che non erano state mai neppure in minima parte prese in
considerazione in occasione di altri clamorosi casi di aggressione militare,
come ad esempio quella, non meno devastante e gratuita (anche se a lungo
giustificata con la produzione di prove rivelatesi poi false), degli Stati
Uniti di Bush junior nei confronti dell’Iraq.
La
sola risposta a cui si è fatto ricorso è stata, oltre all’isolamento economico
e politico, quella delle armi. Gli Stati Uniti e gli altri paesi della Nato
hanno investito somme enormi – solo l’America, 40 miliardi di dollari – per
fornire all’Ucraina gli armamenti che il presidente Zelensky fin dall’inizio ha
continuamente richiesto e ottenuto in misura sempre crescente. Al punto da
evocare l’dea, spesso tornata sui media, di un “guerra per procura” combattuta
dalla Nato contro la Russia per il tramite del popolo ucraino.
Non
c’era bisogno di essere profeti per rendersi conto che in questo modo ci si
poneva in una posizione che escludeva ogni possibilità di dialogo, e che alla
fine, pur essendo “dalla parte della ragione”, era perfettamente simmetrica a
quella di Putin nel voler perpetuare la guerra.
Più
di un anno fa, il 22 aprile 2022, in questa rubrica il sottoscritto, senza
avvalersi di alcuna illuminazione divinatoria, pubblicava un chiaroscuro
intitolato «Non è così che si costruisce la pace».
Di
pace, per la verità, si è continuato, di tanto in tanto, a parlare, ma sempre
subordinandola alla vittoria e alla resa della Russia (magari con la
destituzione di Putin). Un esito fatto balenare fin dall’inizio come imminente
– dopo le sanzioni e le prime vittorie su un esercito russo apparso
inefficiente e vulnerabile – , ma che poi è sembrato allontanarsi sempre di più
e che oggi sembra sostituito dalla prospettiva di una guerra infinita e di un
«nuovo ordine mondiale», assolutamente conflittuale, di cui la Nato
costituirebbe un polo e i paesi alleati della Russia l’altro. I confini che
diventano barriere.
La
crisi dell’Europa
A
questo quadro ci stiamo tutti abituando. Papa Francesco ha avuto ragione nel
dire, a Lisbona, che in questo momento mancano «rotte coraggiose di pace». Il
pontefice si è rivolto in particolare all’Europa: «Verso dove navighi, se non
offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai
tanti conflitti che insanguinano il mondo?».
L’Europa
è stata la vera grande sconfitta di questa guerra, comunque essa finisca. Negli
ultimi decenni aveva costruito sulla collaborazione economica con la Russia –
in particolare al livello della politica energetica – la sua prosperità. E
c’era chi auspicava che questo avvicinamento si trasformasse gradualmente in
una collaborazione anche politica, in grado di dar vita a un “terzo polo” tra
Stati Uniti e Cina.
La
guerra di Ucraina ha distrutto queste prospettive e ha consegnato il continente
a una totale dipendenza sia economica che politica dall’America. L’Europa è
diventata una sezione della Nato, ormai elevata a vera protagonista del “nuovo
ordine”. In compenso si sono rafforzate le tendenze nazionaliste, che hanno
portato la Germania, la principale vittima di questa crisi, ad attuare per la
prima volta dopo la seconda guerra mondiale un imponente riarmo del proprio
esercito, mentre il partito neonazista tedesco guadagna sempre più terreno nei
sondaggi.
Perché
i soli a fare festa, in questa situazione, sono i fabbricanti di armi.
«Preoccupa», ha detto Francesco, «quando si legge che in tanti luoghi si
investono continuamente fondi sulle armi anziché sul futuro dei figli. Io sogno
un’Europa, cuore d’Occidente, che metta a frutto il suo ingegno per spegnere
focolai di guerra».
I
sogni di un papa sono fragili, come quelli di qualunque altro essere umano. E
nulla, in questo momento, sembrerebbe avvalorare la realizzabilità di quello di
Francesco. Ma la debolezza è nella natura del Vangelo e dei suoi profeti
disarmati. È già importante che, in un mondo rassegnato alla logica della
violenza e del calcolo della politica, una voce si levi a gridare la sua
protesta e segni così la differenza tra l’umano e il disumano.
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale
della Cultura della Diocesi di Palermo
www.tuttavia.eu
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