Nel
giorno in cui tutti ci affanniamo per fare qualcosa di divertente che ci faccia
sentire vivi e completi una riflessione sull’importanza di mantenere uno spazio
interiore che non è riempito da niente: è lì che nascono i desideri e la
creatività.
- di Vito Mancuso
Alcuni
tra i più grandi filosofi hanno sostenuto che l’inizio del pensiero umano
prenda origine dalla comparsa improvvisa e meravigliata nella mente di questa
domanda: «Perché c’è l’essere, e non il nulla?». Così affermarono Leibniz,
Schelling, Heidegger. In questa giornata di agosto, tutto solo nel mio
appartamento cittadino, con le strade deserte che regalano un irreale silenzio,
io sento sorgere nella mente, con altrettanta repentinità e meraviglia,
quest’altra domanda: perché c’è questo vuoto dentro di me?
Prendo
così a indagare la natura di questo mio vuoto interiore, rivolgendomi a esso
come se fosse una cosa viva dentro di me.
Caro
vuoto interiore, ti chiamo “vuoto”, e non “nulla”, perché tu non ti contrapponi
all’essere. Il nulla è non-essere, e se c’è lui è impossibile che vi sia
l’essere, come decretò Parmenide agli inizi del pensiero occidentale: «L’essere
è, e non può non essere; il non essere non è, e non può essere». Tu vuoto,
però, non coincidi con il nulla e significativamente i fisici per descrivere la
realtà primordiale parlano di “vuoto quantistico”, e dicono che, ben lungi
dall’equivalere al nulla che è privo di energia, tale vuoto quantistico
possiede una sua peculiare energia e lo descrivono come “stato di energia
minima”. Da esso, dicono, talora si producono delle fluttuazioni da cui
emergono particelle, e che fu proprio da una fluttuazione di questo tipo che
prese origine l’universo. Per cui tutto, caro vuoto, nasce da te.
Lo
stesso accade a me: quando sono pieno, non scaturisce nulla di nuovo in me,
solo ripetizione dell’identico, un “eterno ritorno dell’uguale”; è quando sono
vuoto, quando prendi il comando tu, che in me può nascere qualcosa di nuovo, di
creativo, di inatteso, di libero. Tu, vuoto, sei la condizione della mia creatività
e della mia libertà.
Attenzione
però: il più delle volte tu agisci come una specie di motore che genera una
spinta verso l’interno tendente a riportare tutto a te, sei un vortice che
produce un continuo risucchio, una cavità, talora una voragine, da cui promana
una tensione ininterrotta. Cosa sono quindi io che ti porto nel mio centro?
Ho
peculiarità di tipo fisico come la statura eretta, la neocorteccia, il codice
genetico; ne ho di tipo psichico come le emozioni, i sentimenti, le passioni;
ne ho di tipo intellettivo, come l’intelligenza analitica e la ragione
sintetica. Tutte queste caratteristiche, però, non sono tali da rinchiudermi in
una definizione esaustiva perché vi è in me qualcosa di ancora più essenziale:
ci sei tu. Presente nel mio fondo, a causa tua io risulto strutturalmente
non-finito, indefinito, imprevedibile e quindi creativo. Tu fai sì che la mia
peculiarità consista nella singolare possibilità di essere e, insieme, di non
essere il mio corpo, i miei sentimenti, il mio intelletto. Tu mi offri la
possibilità di identificarmi con le mie proprietà fondamentali oppure di
prenderne le distanze, così che posso risultare unificato oppure scisso,
sentirmi a casa dentro di me oppure viceversa in esilio.
Da
te, vuoto, procede la mia tensione psichica detta desiderio, generata da te per
il tuo bisogno strutturale di essere riempito. Spinoza identificava l’essenza
specifica degli esseri umani nel desiderio (“Cupiditas est ipsa hominis
essentia”), ma è chiaro che si può dare desiderio solo perché prima si sente il
bisogno di qualcosa, e se ne sente il bisogno perché se ne è privi. Quindi
all’origine c’è la privazione, la mancanza; ci sei tu, caro vuoto.
Come
ho detto, tu agisci in me come un motore tendente a riportare tutto a sé, e
quello che vale per me lo vedo all’opera anche nei miei simili, tutti più o
meno abitati da questa tensione che non li fa stare tranquilli con se stessi.
Osservava Pascal: «Ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da
una sola causa: dal non saper restarsene tranquilli, in una camera». Proseguiva
il matematico e filosofo francese: «Non si rendono conto della natura
insaziabile della loro cupidigia. Credono sinceramente di cercare il riposo, ma
cercano soltanto l’agitazione. C’è in loro un istinto segreto che li porta a
cercare fuori di sé la distrazione e l’occupazione».
Tutto
questo deriva da te, caro vuoto. Tu sei la trappola strutturale in cui siamo
nati e con cui dobbiamo convivere fino alla morte, dopo chissà. Per questo ti
voglio regalare una delle più belle definizioni di religione, opera del
matematico e filosofo inglese Alfred North Whitehead: «Religione è ciò che
l’individuo fa della propria solitudine». Solitudine è un altro nome per te,
caro vuoto, e in questo senso essere religiosi, ben lungi dal professare
dottrine stabilite anticamente da altri e dal partecipare a riti celebrati da
altri, significa viverti come sentimento di essere alla presenza di qualcosa o
qualcuno più importante di me. E significa capire ciò che afferma sant’Agostino
rivolto al suo Dio all’inizio delle Confessioni: «Ci hai fatti per te e il
nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».
In
questa silenziosa e vuota giornata di agosto di una città deserta, riflettendo
su di te, caro vuoto, ho capito che la verità di me dipende da te: da come ti
tengo pulito, da come ti curo e ti proteggo da tutti i ciarlatani che
continuamente mirano a riempirlo con mille seducenti, e per loro lucrose e
convenienti, suggestioni. Ti devo custodire dalle erbacce che sempre tendono a
insidiarsi in te come se tu fossi un giardino, anche perché tu per davvero sei
il mio giardino, il terreno da cui fuoriescono i miei fiori e i miei frutti,
cioè il mio pensiero e la mia volontà. Se saprò coltivarti, resistendo alla
tendenza a riempirti a tutti i costi pur di non sentire il tuo risucchio, avrò
ottenuto l’indipendenza spirituale. E come insegna Montaigne: «La più grande
cosa del mondo è saper essere per sé».
La
partita della vita si gioca dentro di me, alle prese con te, caro vuoto. Per
questo sempre Montaigne insegna: «Bisogna riservarsi un retrobottega tutto
nostro, del tutto indipendente, nel quale stabilire la nostra vera libertà, il
nostro principale ritiro e la nostra solitudine». Se ti manterrò pulito e
terso, tu cesserai di agire come un vortice da cui proviene un continuo
risucchio e diverrai il mio rifugio più sicuro. È l’insegnamento di tutte le
grandi tradizioni spirituali, induismo e buddhismo, confucianesimo e taoismo,
ebraismo, cristianesimo e islam, e ovviamente della grande filosofia classica
sintetizzata così da Marco Aurelio rivolto a se stesso: «Ricordati che il tuo
principio direttivo diventa invincibile quando, rinserrato in se stesso, si
contenta di sé e non fa niente che non voglia. La mente libera da passioni è
una fortezza: l’essere umano non ha niente di più forte dove rifugiarsi ed
essere sempre inespugnabile».
Acquisire
la pratica di convivere con te significa imparare a stare fermo sul mio abisso,
a guardare il cratere del mio vulcano interiore, a stare in ascolto, a zittire
la mente, a udire il suono del mio silenzio. È questo il lavoro giusto da fare.
A partire da questa giornata di agosto, con le strade deserte che quasi
sorridono per il loro surreale silenzio.
La Stampa
Nessun commento:
Posta un commento