È UNA RICCHEZZA,
NON LA SCUSA
PER IL DISIMPEGNO
-di LELLO PONTICELLI*
Più volte Papa Francesco
è tornato sul tema della fragilità, ricordando che «è la nostra vera ricchezza
– da rispettare, accogliere – e che, quando offerta a Dio, ci rende capaci di
tenerezza, misericordia ed amore». Nella lettera su S. Giuseppe (Patris Corde)
raccomandava di trattare le proprie fragilità con tenerezza, sia per non
prestare il fianco al tentatore che vuole scoraggiare, sia per imparare a non
puntare il dito contro le fragilità altrui. Il Papa, che conosce bene le
dinamiche del cuore, sa che in certe posture rigide e accusatorie, è spesso
all’opera la difesa della proiezione, la quale ci porta a vedere ed attaccare
nell’altro ciò che non accettiamo in noi stessi. Quanti atteggiamenti
intolleranti e censori sono frutto di simili dinamiche, talvolta inconsapevoli!
In questa riflessione, però, vorrei evidenziare il rischio di alcune distorsioni pedagogiche che si verificano quando l’invito ad accogliere e rispettare la fragilità viene equivocato: è possibile, infatti, che la fragilità diventi quasi un’ideologia, che se ne faccia un pretesto per non cambiare o una forma di ricatto vittimista e manipolatorio. In una corretta postura educativa, invece, le sue molteplici espressioni vanno, sì, accolte, ma anche affrontate e, per quanto possibile, risolte. Se sul piano educativo passa l’idea che l’accettazione di esse non solo è necessaria, ma addirittura sufficiente, la motivazione a fare qualcosa per non subirle ne riceve impulso o rischia di indebolirsi o non attivarsi affatto? Molti sono i segni con cui la fragilità si esprime, specie tra i ragazzi: bassa autostima, volontà debole, scarso controllo degli impulsi, eccessiva timidezza che ostacola la relazione con gli altri, etc... Ma anche sul piano morale la fragilità allunga i suoi tentacoli.
Dovrebbe far riflettere
il fatto che, per gestire le proprie fragilità, le persone – specialmente i
giovani–cercano spesso un’autocura, trovando, però, soluzioni autolesioniste
(vedi le varie dipendenze). Allora un genitore, un educatore, deve incoraggiare
a lottare per vincere e superare le fragilità ove possibile, altrimenti
imparare a conviverci in modo più maturo, oppure deve lasciar correre? A
rischio di favorire la confusione tra passività e accettazione?! Se accogliere
la fragilità e i suoi “segni” equivalesse ad un talvolta banalizzato «va bene
così come sei», che ne sarà della motivazione a prendere le redini in mano e a
fare qualcosa di più promettente?
Se sussiste il pericolo
di nuove forme di pelagianesimo – il Papa più volte l’ha segnalato – i
malintesi sulla fragilità non potrebbero indurre a un nuovo “quietismo”? Dove
si sminuisce l’importanza dell’impegno, della fortezza nella prova, della
reazione attiva agli ostacoli, l’attrazione esercitata dalle mete esigenti, pur
nella serena accettazione di sconfitte e fallimenti.
Non a caso Francesco
anche di recente, a Lisbona, ha invitato i giovani a non aver paura delle
proprie fragilità, ad osare, rischiare, mettersi in gioco con grinta, a
combattere per essere migliori, a rifiutare la logica dello scarto delle
persone fragili valorizzandole e aiutandole a rialzarsi, migliorando così il
mondo! Nel dire e nel fare del Papa, insomma, non si può equivocare: la
fragilità, che Dio stesso assume e redime, non è una scusa per il disimpegno,
il vittimismo e la manipolazione egoistica, ma un tesoro che ci rende più umani
e capaci di riumanizzare la realtà!
*Sacerdote,
psicologo
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