PAURA
di Marco Ferrando e Matteo Liut
Il
mondo mette paura, ma «non ci possiamo rassegnare».
Con
il coraggio del futuro, con la forza della speranza, con tutti quegli sforzi di
«mediazione al rialzo» che questo momento storico esige, e a cui la Chiesa è
pronta a contribuire «non contrapponendosi ai processi culturali ma cogliendo
la domanda umana e spirituale» che portano con sé. In un’intervista in uscita
domani su Avvenire, il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e
presidente della Conferenza episcopale italiana affronta tutti i grandi temi,
dalle guerre ai migranti, fino all’agenda d’autunno che attende l’Italia: la
tenuta sociale del Paese, le riforme, lo stato di salute e il contributo che
può dare la Chiesa. Ecco in anticipazione alcuni estratti.
«Siamo
dentro la pandemia della guerra, che proietta ombre pericolose su tutti.
Qualche
volta mi sembra che stia vincendo la paura della vita, tanto che cerchiamo
prima tutte le risposte e sicurezze per scegliere e pensiamo di avere sempre
tempo», dice Zuppi.
«Non
ci possiamo rassegnare. È proprio vero,
ma lo crediamo poco: nessuno si salva da solo.
Coltivo
il sogno ingenuo che anche in Italia sia possibile mettere da parte le
ideologie - ma non gli ideali, la conoscenza, la passione – per evitare una
politica ridotta a rissa e polarizzazione.
Coltivo
il sogno che sia ancora possibile su temi fondamentali per la nostra convivenza
ricercare un consenso ampio, il più ampio possibile».
Il
Papa ha rilanciato mercoledì il suo grido di dolore e speranza per i migranti:
questione di regole e di atteggiamento con cui si guarda loro.
Da
dove partire?
Salvare
chi è in pericolo è un dovere gravissimo, primario.
Il
Papa invita sempre a un approccio integrale del fenomeno dell’immigrazione (i
famosi quattro verbi: proteggere, accogliere, integrale e promuovere) e a una
collaborazione globale (delle istituzioni e dei governi, come delle comunità e
delle famiglie.
È
un approccio, ripeto, di grande realismo sul quale speriamo l’Europa si decida
a un approccio comune e a non lasciare solo il nostro Paese.
Che
cosa pensa del nuovo dibattito sullo ius scholae?
Quando
un problema umanitario e per certi versi tecnico diventa un problema di scontro
politico non si capisce più chi ha ragione e chi no.
Aprendo
una sessione del Consiglio Permanente della Cei già nel luglio del 2022
osservavo che concedere la cittadinanza italiana ai bambini che seguono il
corso di studi con i nostri ragazzi, il cosiddetto Ius Scholae, costituisce uno
strumento importante di inclusione delle persone ed è un “tema di cultura”. E si trattava di una istanza da tempo ribadita
dalla Cei.
Dibattito
aperto e acceso anche sull’Autonomia differenziata, un processo che affonda in
realtà le sue radici nella riforma del titolo V della Costituzione.
Ne
siamo ben coscienti.
Per
questo, la Nota approvata dal Consiglio Episcopale Permanente nel mese di
maggio richiamava i principi di solidarietà e sussidiarietà a livello
nazionale.
Preoccupati
che possa venir meno il vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, abbiamo
auspicato un «patto sociale e culturale» (Evangelii gaudium, 239) perché si
incrementino meccanismi di sviluppo, controllo e giustizia sociale per tutti e
per ciascuno.
Come
sono i rapporti con il governo Meloni?
Con
questo Governo, così come avvenuto con quelli passati, c’è una buona
interlocuzione e su certi temi una ottima collaborazione.
Se
la Chiesa esprime un’opinione non è per entrare nel dibattito politico, o per
dare indicazioni socio-politiche specifiche, che competono alle forze politiche
e sociali, ma solo per promuovere la persona e senza interessi di parte.
E
questa è proprio la libertà della Chiesa.
Cosa
è lecito aspettarsi dall’Europa, spesso così afona?...
Speriamo
che la prossima Commissione scelga di difendere le radici più profonde e vere
dell’Europa che significano anche il ripudio della guerra e la scelta di
trovare vie di soluzione alternative ai conflitti.
Continuo
a pensare che è necessaria una “Camaldoli per l’Europa”.
Che
ruolo punta ad avere la Chiesa nella società italiana, al centro di un processo
di secolarizzazione che sta accelerando?
Il
ruolo della Chiesa non è tanto quello di contrapporsi ai processi culturali, ma
di sapere cogliere in questi la domanda umana e spirituale.
La
secolarizzazione spegne il desiderio, la sete, la nostalgia?
Non
è una domanda di maggiore prossimità?
La
Settimana sociale di Trieste ha mostrato incoraggianti segnali di vivacità e
passione civile: come li legge?
La
Settimana Sociale è stata un dono di grazia.
Mi
hanno colpito tanti credenti, anche giovani, che nel nostro Paese non si
rassegnano alla crisi della democrazia.
Mai
come in questo momento avvertiamo il terreno fertile per superare steccati e
per offrire atteggiamenti costruttivi.
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