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sabato 28 settembre 2024

LA CIVILTA' DELLA VITA

 


Due candidati 

a confronto

 




-         -di Giuseppe Savagnone*

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Ha destato sorpresa e sconcerto, in molti, ciò che papa Francesco ha detto nella conferenza stampa sul volo di ritorno da Singapore, a chi gli chiedeva quale consiglio dare a un elettore cattolico alla vigilia delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti: «Non si può decidere. Io non sono statunitense, non andrò a votare lì, ma sia chiaro: ambedue sono contro la vita, sia quello che butta via i migranti sia quello che uccide i bambini».

 E ha aggiunto: «Nella morale politica in genere si dice che non votare è brutto, si deve votare e si deve scegliere il male minore. E qual è il male minore? Quella signora o quel signore? Non so… Ognuno pensi con la propria coscienza».

 Parole che sono suonate dure, soprattutto alle orecchie di tanti – credenti e non credenti – che vedono nello scontro fra Trump e Kamala Harris quello tra un avventuriero senza scrupoli, disponibile a qualunque eccesso –  sia sul piano morale che su quello politico (perfino a un colpo di Stato), – e una persona che rientra pienamente nei quadri del politically correct e promette di restare fedele alla linea “liberal” che è stata di Obama e di Biden.

 Certo, bisogna tenere conto che il giudizio del papa è dato da un punto di vista rigorosamente etico e non pretende di includere una serie di aspetti – come, per esempio, quello economico, particolarmente dibattuto in questa campagna elettorale – che un elettore americano deve pure tenere in conto.

 Ma, anche sotto questi profili, il confronto tra il candidato antidemocratico e quella più vicina ai nostri criteri di civiltà non sembra necessariamente premiare la seconda.

 Secondo un recentissimo sondaggio della CNN, il 50% degli intervistati sostiene che Trump governerebbe l’economia meglio della Harris; soltanto il 39% pensa il contrario, gli altri non si esprimono.

 Senza dire che ultimamente anche la candidata democratica ha avuto delle uscite imbarazzanti per tutti coloro che, da noi, guardano a lei come all’emblema della civiltà.

 Come il severo monito rivolto ai migranti: «Non venite negli Stati Uniti, noi continueremo ad applicare le nostre leggi e a difendere i nostri confini. Se verrete, sarete respinti». O, ultimamente, la risposta data, nel corso di un trasmissione televisiva, a chi le chiedeva se possedesse un’arma: «Certo che posseggo un’arma. Ho una pistola e se qualcuno entra in casa mia, sono pronta a sparare».

 Si tenga conto che negli Stati Uniti il secondo emendamento – uno dei dieci noti nel loro insieme come «Carta dei Diritti degli Stati Uniti d’America» – è espressamente dedicato al «diritto dei cittadini di detenere e portare armi». E che, secondo un recente sondaggio, il 51% degli adulti statunitensi afferma che proteggere il diritto di possedere armi è più importante che controllarne il possesso.

 E che le lobbies che difendono questo diritto, come la «National Rifle Association of America» (NRA), sono potentissime. Tenace eredità di una cultura che si è costruita sugli individui e sulla loro capacità di difendere la loro proprietà.

C’è da stupirsi se una candidata, alla viglia delle elezioni, evidenzia la sua vicinanza alla sensibilità diffusa e ai poteri che la alimentano?

 Lo stesso vale per le politiche migratorie. L’elettorato di Trump non è fatto da pochi fanatici reazionari, ma raccoglie metà degli americani, scontenti e preoccupati per il moltiplicarsi di immigrati che invadono il mercato del lavoro facendo abbassare il livello dei salari.

 Se vuole essere competitiva nei confronti di questi ambienti, Kamala Harris non può seguire una linea politica troppo lontana da quella del suo rivale.

 È vero anche il reciproco. Sul tema dell’aborto Trump – che almeno pubblicamente, aveva assunto una posizione restrittiva, attirandosi la simpatia dei cattolici e di tutti gli antiabortisti – ha ora dichiarato di non volere un bando nazionale di questa pratica e di preferire che siano i singoli Stati a decidere.

 Una scelta evidentemente dettata dalle preferenze di larga parte dell’opinione pubblica americana, ma anche dall’influenza della potente «Planned Parenthood» (“Genitorialità pianificata”), l’organizzazione ramificata in tutto il paese che sostiene le politiche abortiste.

 La sostanziale convergenza sulla guerra di Gaza

Qualcosa del genere si può riscontrare anche sui temi di politica estera. Nella guerra condotta da Israele a Gaza, Trump e i repubblicani sono stati decisamente favorevoli allo Stato ebraico e hanno minimizzato i costi umani spaventosi che le operazioni militari hanno comportato per i palestinesi.

 Apparentemente molto diversa la posizione del democratico Biden e della Harris, che più volte hanno espresso la loro riprovazione per la violazione dei diritti umani da parte dell’esercito di Tel Aviv e che si sono spasmodicamente impegnati, negli ultimi mesi, per un “cessate il fuoco” che facesse cessare i massacri di civili – con un’altissima percentuale di donne e bambini – e permettesse di far fronte alla terribile crisi umanitaria in corso.

 Se si guarda, però, ai fatti, non si può non restare sorpresi per ciò che è accaduto in questi ultimi mesi. Il premer israeliano Netanyahu si è potuto permettere di ignorare o contraddire esplicitamente gli appelli accorati di Biden, facendo sistematicamente l’opposto di ciò che, in alcuni momenti cruciali, questi gli chiedeva per favorire i negoziati di pace.

 Il primo ministro di uno Stato di dieci milioni di abitanti ha irriso, senza neppure curarsi di nasconderlo, le pressioni assillanti del presidente dello Stato più potente del mondo. E continua a farlo estendendo il conflitto, che lo vedeva impegnato prima solo contro Hamas, anche verso il Libano, accentuando enormemente il rischio di quella escalation che Biden sin dall’inizio lo aveva supplicato di evitare.

Non sappiamo come gli storici giudicheranno l’attuale inquilino della Casa Bianca. Una cosa non potranno tacere: che mai come sotto la sua presidenza gli Stati Uniti, un tempo arbitri della politica internazionale, sono apparsi impotenti agli occhi dell’opinione pubblica mondiale.

 Il paradosso, però, è che tutto questo Israele ha potuto farlo solo grazie alle continue e ingenti forniture di armi e alla protezione politico-militare dello Stato che umiliavano. Non si può riversare per dieci mesi – prima solo sulla Striscia, ora anche sul Libano – quasi centomila tonnellate di bombe attingendo solo ai propri arsenali.

 E del resto sono stati dei comunicati ufficiali  e le inchieste della CNN e del New York Times a confermare che il massacro della popolazione civile a Gaza – e ora a che in Libano – è stato effettuato con armi date a Israele dall’America. Proprio mentre Biden insisteva per sospenderlo.

 Assurdo? Solo in apparenza. Ancora una volta si deve tener conto della realtà della società statunitense, dove il potere delle lobbies ebraiche, schierate decisamente dalla parte di Israele, è evidentemente così grande da costringere anche il presidente a subire una umiliazione senza precedenti.

 Il risultato è stato che, in fin dei conti, il democratico Biden ha fatto esattamente ciò che avrebbe fatto, al posto suo, il repubblicano Trump, con la sola differenza che quest’ultimo lo avrebbe detto chiaramente.

 Il sistema funziona, ma …

La verità è che, quale che sia il livello di contrapposizione tra le due bandiere, repubblicani e democratici, anche ai livelli più alti, devono entrambi adeguarsi alla realtà della società americana.

 Personalmente considero Trump il peggio possibile e, se fossi americano, voterei per la Harris. Ma è chiaro che il problema non sono le persone, ma il sistema e la cultura su cui si regge, e che perciò nessuno dei due candidati alla Casa Bianca sarà in grado di cambiare il volto di questa società, ma ne sarà, in modi diversi, lo specchio.

 Recentemente, sul «Corriere della Sera», Aldo Cazzullo sottolineava la complessità e la problematicità della realtà americana, facendo riferimento a un ulteriore elemento problematico, la mancanza di un’assistenza sanitaria pubblica, in piena coerenza con la logica neo-capitalista. Ma concludeva: «È un sistema che ha aspetti terribili, che seleziona e scarta, che considera la salute non un diritto ma un bene da comprare e da vendere, come il cibo e la casa. Ma è un sistema che funziona».

 Sì, il sistema funziona. Ma, al di là degli slogan che lo esaltano come il baluardo della civiltà, al di là delle diverse interpretazioni che i diversi presidenti possono darne, contiene in sé delle logiche di violenza che l’appello alla libertà di Kamala Harris (non a caso polarizzato sul “diritto di aborto”) e le promesse di Trump di gettar fuori gli immigrati si limitano a tradurre in modi diversi ma in ultima istanza corrispondenti.

 Si capiscono le amare parole di papa Francesco. Il modello americano è sicuramente un baluardo che ci difende da forme ancora più perverse di totalitarismo e di oppressione, ma non è la civiltà della vita.

 Non è ad esso che – credenti o no – possiamo guardare come alla risposta alle esigenze umane più profonde di giustizia e di fraternità. Anche a questo livello più complessivo, oltre che nella scelta del futuro presidente, dobbiamo rassegnarci al “male minore”? Lo stesso pontefice non lo sta facendo.

 Lo testimoniano documenti come la «Laudato si’» e la «Fratelli tutti», che non sono affatto piaciuti sull’altra sponda dell’Atlantico e hanno portato molti ambienti americani a finanziare generosamente le spinte contrarie a papa Francesco.

 Pur con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, con gli abusi sessuali e i compromessi di ogni genere, la Chiesa rimane portatrice di una visione alternativa, di cui tutti gli uomini e le donne scontenti delle logiche dell’individualismo possessivo sono chiamati a farsi sostenitori (anche dall’interno degli stessi Stati Uniti).

 Non possiamo accettare di dovere scegliere tra Putin o Xi Jinping e il neocapitalismo.

 La “terza via” proposta dalla Chiesa cattolica nel suo insegnamento sociale a molti può apparire un’utopia, ma rimane una prospettiva di speranza, per chi pensa valga la pena di lavorare alla costruzione di un’alternativa finalmente umana.

 *Scrittore ed editorialista. Pastorale delle Cultura – Arcidiocesi di Palermo

www.tuttavia.eu



sabato 21 novembre 2020

PAPA FRANCESCO E L'ECONOMIA. UN EVENTO MONDIALE CHE CI INTERROGA

 Troppo occupati dalle tragiche vicende della pandemia e dalla prospettiva poco allegra di una Natale senza festeggiamenti, i giornali hanno riservato ben poca attenzione al convegno The Economy of Francesco, che si è aperto giovedì 19 novembre, nel pomeriggio, e che raduna – alcuni in presenza , la maggior parte in diretta streaming – 2000 giovani economisti e imprenditori di 120 paesi di tutto il mondo, tutti under 35, 56% uomini e 44 % donne.

             di Giuseppe Savagnone *


Da marzo ad oggi l’evento, fortemente voluto da papa Francesco, è stato attivamente preparato da centinaia di questi giovani, che hanno dato vita, già nella fase precongressuale, a un vero e proprio movimento di cui il convegno vero e proprio è il coronamento. «Questo», ha detto l’economista Luigino Bruni, che ne è il coordinatore scientifico, «è già il primo grande e importante risultato di The Economy of Francesco».

Non è un incontro accademico

Un risultato destinato in questi giorni a dilatarsi e rafforzarsi perché, nelle rispettive nazioni di appartenenza, sono nati degli Hubs, delle vere e proprie strutture per seguire l’evento insieme (compatibilmente con le normative covid locali) con lo scopo di coinvolgere altri giovani e intere comunità, per fare un’esperienza condivisa di confronto e di approfondimento anche oltre le ore del programma online.

Non siamo davanti a un appuntamento accademico. I nomi dei relatori sono famosi – c’è anche un premio Nobel – ma quello che si è creato è un grande laboratorio in cui risulta decisivo l’apporto dei partecipanti e la ricaduta sui loro rispettivi ambienti di lavoro e di vita. Non a caso si è posto come limite di età quello dei 35 anni: si vuole scommettere sulla creatività e sull’inventiva dei giovani, sfidando luoghi comuni e schemi precostituiti dell’economia neocapitalista oggi imperante.

Obiettivo dell’iniziativa è infatti quello di progettare e costruire un mondo più umano, dunque più equo e sostenibile, di quello esistente. I testi di riferimento sono le due ultime encicliche di papa Bergoglio, Laudato si’ Fratelli tutti.

Il retroterra dottrinale: l’«ecologia integrale»

C’è in gioco la crisi ecologica, ma non nel senso ristretto in cui spesso viene intesa da molti movimenti di “verdi”, che guardano quasi esclusivamente al rispetto dell’ambiente naturale. Come si dice nella Laudato si’, «non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura» (LS n. 39). ). E’ questa che il papa chiama «ecologia integrale».

Il grande scandalo del mondo contemporaneo non sono solo l’inquinamento e il riscaldamento globale, ma – inscindibilmente connesso con questi fenomeni –il fatto che «mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati» (FT n.22).

«Per poter parlare di autentico sviluppo, occorrerà verificare che si produca un miglioramento integrale nella qualità della vita umana» (LS n.147). «Ma così non avviene, perché a garantire questa qualità, attraverso il perseguimento del bene comune, dovrebbe essere la politica e, nel sistema attuale, la politica è sottomessa ad un’economia che «assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto», perché a sua volta è dominata da una finanza che «soffoca l’economia reale» (LS n.109).

L’accusa di Francesco al neocapitalismo

Il pontefice, su questo punto, non usa perifrasi e chiama le cose con il loro nome: «Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura. La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo» (LS n.189).

Da qui i diversivi che fanno credere al grosso pubblico che il problema sia una eccessiva natalità: «Incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi» (LS n.50).

Sotto accusa è anche la globalizzazione, il cui esito, nelle forme attuali, è di «imporre un modello culturale unico. Tale cultura unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli” (Benedetto XVI, Caritas in veritate )» (LS n.12).

«Alcuni Paesi forti dal punto di vista economico vengono presentati come modelli culturali per i Paesi poco sviluppati, invece di fare in modo che ognuno cresca con lo stile che gli è peculiare, sviluppando le proprie capacità di innovare a partire dai valori della propria cultura» (FT n.51).

Il discorso di apertura del card. Turkson

Nel discorso con cui ha inaugurato i lavori del convegno The Economy of Francesco il card. Turkson, prefetto del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, è partito da queste premesse per sottolineare l’assoluta necessità di «generare una nuova economia», e, più precisamente, di «passare da un’economia liquida a un’economia sociale», e cioè da un’economia «indirizzata al profitto che deriva dalla speculazione e dal prestare con alti interessi», a un’economia «sociale che investa nelle persone creando posti di lavoro e garantendo formazione».

Il fatto che al simposio siano stati invitati e partecipino con entusiasmo dei giovani studiosi e operatori economici esclude che queste parole rimangano nobili esortazioni. Siamo davanti, piuttosto, a linee guida per l’elaborazione di una prospettiva irriducibile a quella oggi ritenuta ovvia.

Il magistero della Chiesa e il capitalismo

Il magistero della Chiesa non ha mai avallato il capitalismo e, anche quando il crollo del marxismo ha dato l’impressione che esso non avesse alternative, Giovanni Paolo II ha avuto cura di sottolineare la differenza tra un’economia di mercato – che i fatti confermavano essere l’unica possibile – e l’interpretazione che di essa dà il neocapitalismo, assolutizzando la logica del profitto.

Si è trattato però, finora, a parte dei predecessori di Francesco, di pese di posizione dottrinali – importanti sul piano teorico, ma poco incisive su quello pratico. Ora, invece, il papa non si limita più a scrivere encicliche, ma si impegna a tradurle in un linguaggio che consente ai princìpi di incarnarsi in precise formulazioni operative.

Di più: dà vita a un movimento di pensiero, in grado di coinvolgere il mondo accademico e quello produttivo, che, partendo dalle evidenti contraddizioni del sistema dominante, non lo attacca – come fu nel Sessantotto – a colpi di slogan e di rumorose contestazioni di piazza, ma elaborando costruttivamente soluzioni alternative.

Due “teologie della liberazione”

Molti hanno notato, in questi anni, l’influsso che la teologia della liberazione ha avuto nella formazione di papa Bergoglio. Alcuni ne hanno fatto un capo d’accusa, definendolo addirittura “comunista”.

Alla base c’è la convinzione che la teologia della liberazione sia una deviazione dottrinale condannata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, in una Istruzione sulla libertà cristiana e la liberazione del 1986. Pochi sanno che, in un altro documento della stessa Congregazione, la Libertatis Nuntius (6 agosto 1984), dopo aver criticato alcune distorte interpretazioni di questa corrente teologica, si dice: «Questo richiamo non deve in alcun modo essere interpretato come una condanna di tutti coloro che vogliono rispondere con generosità e con autentico spirito evangelico alla “opzione preferenziale per i poveri”. Essa non dovrebbe affatto servire da pretesto a tutti coloro che si trincerano in un atteggiamento di neutralità e di indifferenza di fronte ai tragici e pressanti problemi della miseria e dell’ingiustizia».

«Lo scandalo delle palesi disuguaglianze tra ricchi e poveri – si tratti di disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri oppure di disuguaglianze tra ceti sociali nell’ambito dello stesso territorio nazionale – non è più tollerato».

Da questo punto di vista, dice il documento, «l’espressione “teologia della liberazione” designa innanzi tutto una preoccupazione privilegiata, generatrice di impegno per la giustizia, rivolta ai poveri e alle vittime dell’oppressione».

Papa Francesco e la teologia della liberazione

Non è Bergoglio a parlare, ma l’ex Sant’Uffizio, e a capo di esso c’era il card. Joseph Ratzinger. Vi è dunque una teologia della liberazione pienamente in linea con la tradizione della Chiesa, anche se i riflettori si sono più spesso puntati su quei filoni di essa che non lo sono. È appena il caso di dire che papa Francesco si fa coerente portavoce delle istanze che sono alla base della prima e che non solo sono compatibili col Vangelo, ma ne esprimono l’appello a non scambiare il cristianesimo con «un atteggiamento di neutralità e di indifferenza di fronte ai tragici e pressanti problemi della miseria e dell’ingiustizia».

Non sappiamo quali saranno gli esiti a lungo termine del convegno The Economy of Francesco. Posiamo fin da ora prevedere che gli attacchi contro il papa da parte di Viganò, di Bannon, di altri più o meno manifestamente collegati alla destra statunitense, si moltiplicheranno. Ma personalmente sono fiero che la Chiesa di cui faccio parte sia, finalmente, attaccata non perché sta dalla parte dei ricchi, ma perché si è schierata con i poveri.

 

*Pastorale Cultura, Diocesi Palermo

www.tuttavia.eu 

 

sabato 30 maggio 2020

GRANDI SFIDE PER L'OCCIDENTE


- Segnali inquietanti 
da Minneapolis - 

Giuseppe Savagnone

L’ultimo episodio di violenza razziale, a Minneapolis, negli Stati Uniti, agli occhi di molti non fa altro che confermare i tanti segnali inquietanti che ormai da tempo giungono dal Paese in cui il mondo occidentale, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, si è riconosciuto, accettandone l’egemonia non solo economica e politica, ma anche, in larga misura, culturale.
I fatti
I fatti sono noti: un afroamericano di 46 anni, George Floyd, è morto dopo essere stato fermato da un agente di polizia bianco, che lo ha fatto scendere dalla sua auto «perché sembrava drogato», lo ha immobilizzato e per nove minuti gli ha tenuto il ginocchio pressato sul collo, ignorando le disperate invocazioni dell’uomo: «Non riesco a respirare!».
La polizia di Minneapolis ha archiviato il decesso parlando di un «incidente medico», ma un video aveva registrato tutta la scena e, immesso nella rete, è diventato virale. Qualche ora dopo, il capo della polizia della città ha comunicato il licenziamento dei quattro agenti che avevano partecipato all’arresto. Ma intanto migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro un omicidio il cui significato razzista è stato subito evidente. Lo stesso sindaco di Minneapolis, Jacob Frey, sui suoi profili ha scritto che «essere nero negli Stati Uniti non dovrebbe equivalere a una sentenza di morte».
La rabbia degli afroamericani
Non si tratta, infatti, di un caso isolato. Nel 2014 un altro afroamericano, il diciottenne Michael Brown, era stato ucciso da alcuni colpi di pistola sparati da un agente della polizia di Ferguson in Missouri, dopo aver commesso una rapina, pur non essendo armato. Nello stesso anno, in circostanze molto simili a quelle di Floyd, Eric Garner, anche lui afroamericano,  rimase soffocato durante un tentativo di arresto da parte della polizia di New York.
Anche il coronavirus ha evidenziato il permanere negli Usa di disuguaglianze economiche e sociali che hanno reso più fragili latinos e afroamericani rispetto ai bianchi e li ha esposti a percentuali di mortalità decisamente superiori.
Non stupisce l’esplosione di rabbia della comunità afroamericana di fronte a questo nuovo atto di discriminazione e di violenza. Il commissariato di Minneapolis è stato incendiato, molti negozi sono stati assaltati e saccheggiati, per fronteggiare i disordini è stato necessario a un certo punto mobilitare la Guardia nazionale.
Il permanere delle disuguaglianze
L’immagine oleografica, spesso circolata, di un Paese che è riuscito ad armonizzare felicemente le differenti etnie presenti sul suo territorio, esce profondamente scossa. E la memoria va alle dure lotte sostenute da uomini come Martin Luther King – che ne hanno pagato il prezzo sulla loro pelle – per giungere a una reale uguaglianza tra bianchi e neri. Le conquiste ci sono state – anche se è stato necessario attendere il 1964 perché una legge dichiarasse illegali le disparità di registrazione nelle elezioni e la segregazione razziale nelle scuole, sul posto di lavoro e nelle strutture pubbliche in generale –, ma evidentemente non sono venute meno le resistenze a livello culturale. Soprattutto in alcuni Stati del Middle West – quelli in cui i bianchi frustrati e impoveriti hanno votato in massa per Trump – la mentalità liberal, aliena dal razzismo, stenta ad attecchire.
Una cattiva alternativa
Anche perché essa stessa, per altri versi, presta il fianco all’accusa di essere  collegata alla cinica logica neocapitalista, che sacrifica le persone alla finanza e avalla un individualismo basato unilateralmente sui diritti, senza tenere conto della solidarietà verso i più deboli (non si dimentichi che l’alternativa a Trump, nelle elezioni del 2016, era Hillary Cinton, grande sostenitrice degli interessi delle banche e promotrice entusiasta di “Planned Parenthood”, l’organizzazione che raccoglie le cliniche abortiste degli Usa).
La libertà del neocapitalismo
Si inserisce in questo quadro inquietante l’ondata di risentite proteste che si sono svolte, con l’incoraggiamento del presidente Trump, in varie città degli Stati Uniti, contro le misure di confinamento decise dai governatori degli Stati più colpiti. Nel Michigan uomini armati hanno invaso il Parlamento locale per protestare contro il lockdown decretato dalla governatrice Gretchen Whitmer davanti al dato che il Michigan era il quarto Stato più colpito degli Stati Uniti.
La logica della protesta è che la libertà – in particolare quella economica – è una priorità anche rispetto alla vita fisica (soprattutto quella dei più deboli: si è già notato che a pagare in percentuale maggiore sono gli afroamericani e i latini). A rifiutare con più decisione ogni forma di chiusura a tutela della salute degli operai è stata l’industria delle armi, che negli Stati Uniti costituisce una lobby potentissima e che gode di un ampio sostegno non solo dal presidente, ma dall’opinione pubblica, restia ad ogni limitazione del libero commercio in questo ambito.
Frammenti di un quadro più complesso
Sono solo frammenti di un quadro complesso, che deve sicuramente tenere conto anche dei tanti aspetti positivi della società americana e che non può essere usato per avallare il facile anti-americanismo da sempre di moda in Italia. È vero però che essi costituiscono degli indizi di una fragilità sociale e culturale degli Stati Uniti, che in realtà è sempre esistita, ma che lo strapotere economico e tecnologico ha a lungo nascosto.
C’è bisogno di Europa già a livello politico
Prenderne atto, però, sarebbe sterile se non si accompagnasse alla presa di coscienza che l’Occidente ha bisogno, davanti alle grandi sfide già in corso (come quella con il mondo islamico) e a quelle che si profilano all’orizzonte (in primo piano quella con la Cina), di poter contare sull’Europa.
Questo è vero già sul piano politico. Il costante impegno di Trump di alimentare le divisioni interne del continente europeo per scoraggiarne l’unità politica, è da questo punto di vista assolutamente miope e dimostra solo l’inadeguatezza, in questo come in tanti altri casi, del moto «America first», “prima l’America”. Perché è vero che degli Stati Uniti d’Europa sarebbero per gli americani un partner di ben diverso peso e un concorrente anche economico assai più agguerrito, ma anche un alleato molto più capace di assumere le proprie responsabilità.
Al di là di una dipendenza
Le contraddizioni e le debolezze culturali degli Stati Uniti evocano però soprattutto l’esigenza di una rinascita della coscienza europea proprio su questo piano. Il declino politico ed economico dell’Europa l’ha portata per troppo tempo ad essere subalterna al suo “Grande Fratello” d’oltreoceano anche sul piano culturale. Lo stesso anti-americanismo a cui accennavo è in fondo un segno di questa dipendenza, simmetrico peraltro all’americanismo per altri versi imperante (si pensi al dominio culturale dell’inglese e al dilagare della terminologia di questa lingua anche nel nostro linguaggio corrente).
L’Europa alla ricerca di se stessa
L’Europa ha una civiltà che non va contrapposta a quella americana, ma che certamente ha radici assai più antiche e profonde. Deve però ritrovare la sua anima. Assistiamo in questi giorni, di fronte alla sfida della pandemia, a timidi tentativi di recuperare il senso di una solidarietà che in passato è stata sempre messa in ombra (si pensi al caso della crisi della Grecia). L’Europa è alla ricerca di se stessa. Ma questa ricerca non si può concretizzare solo nel dibattito sul recovery fund. Bisogna ritrovare un patrimonio di valori comuni, attingendo ad una tradizione ricchissima, che non può essere frettolosamente liquidata, ma che ha bisogno di essere riletta e reinterpretata creativamente. Per evitare che le contraddizioni degli Stati Uniti determinino il tramonto irreversibile dell’Occidente.