riscopriamo
con il linguaggio
la bellezza del “cum”
Il latinista invita a una purificazione delle parole.
«Oggi sono social, che è il contrario di sociale.
Viviamo nell’isolamento, soprattutto i giovani,
che vanno affascinati
-
Prosegue
con l'intervista a Ivano Dionigi il dibattito
su cattolicesimo e cultura, avviato da PierAngelo Sequeri e Roberto
Righetto. Sono intervenuti Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro,
Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini, Cosentino, Zanchi,
Possenti, Alici, Ornaghi, Rondoni, Esposito, Sabatini, Cacciari, Nembrini,
Gabellini, Vigini, Timossi, Colombo, De Simone, Arnone, Bruni e Postorino.
«Dobbiamo
riscoprire le parole con il “cum”. Comunicare, che per noi vuol dire
altro, viene da cum-munus, è “mettere in comune i doni”, cum-testari,
contestare, non è andare in giro con i cartelli a fare casino, ma è
“testimoniare insieme”, cum-petere, competere, non è usare i
muscoli, ma “andare tutti insieme nella stessa direzione”. Abbiamo stuprato il
linguaggio». Ivano Dionigi, docente emerito di Letteratura latina
dell’Università di Bologna, di cui è stato rettore, in questi anni ha rivolto
la sua passione educativa soprattutto ai giovani. Che sono, come emerso dal
dibattito innescato su queste pagine da Pierangelo Sequeri e Roberto Righetto,
gli attori principali a cui guardare per un nuovo rapporto tra cattolici e
cultura contemporanea. «Quando vado in giro, parlo delle parole che sono la
cosa più concreta del mondo», dice il filologo classico. Parole che oggi sui
social sono degradate a fake news, contro le quali la scuola deve fornire «non
una cassetta, ma un’intera officina di attrezzi».
Per
citare Isaia, come lei ha fatto di recente incontrando 500 laureati magistrali
a Bergamo, «a che punto è la notte»? Quali sono le principali sfide che la
cultura odierna pone al pensiero credente?
«Assistiamo
all’eclissi delle grandi visioni, socialista, liberale e cattolica, per cui
manca un orizzonte. Queste visioni camminavano sulle gambe di istituzioni come
famiglia, Chiesa e partiti, che - quando ci sono - oggi sono fragili e in
affanno. Il risultato è l’immanenza nel presente, siamo all’ossessione dell’uno
e del medesimo. Non c’è la memoria del passato, né una prospettiva futura. E
c’è un triplice deficit di alterità».
In
cosa consiste?
«Il
primo deficit è quello della comunità. Come ha scritto il filosofo Roberto
Esposito siamo tutti preoccupati dell’immunità e poco della comunità. Parole
anche etimologicamente opposte. Cum-munus vuol dire
condividere con gli altri la propria identità, il proprio dono, avere un
destino comune. In questo il Covid ha creato una cesura. C’è una grande
solitudine, anche se oggi le parole sono social: con la caduta di un solo
fonema si dice il contrario di “sociale”. Le parole “confinamento” e
“distanziamento sociale” sono gas nervino. Si pensi ai danni dello smart
working e della “didattica a distanza”. La solitudine, come diceva il cardinal
Martini, ha un valore positivo, ma qui siamo all’isolamento, che è una pessima
cosa. Secondo deficit è quello che accennavo: manca la dimensione del tempo,
che riconduce alla memoria dei trapassati e al progetto dei nascituri. Va
recuperata la memoria. Per cui bisogna capire il dentro e la profondità delle
cose, intus-legere».
Il
terzo deficit?
«Riguarda
l’oltre, sia esso laico-razionale o cristiano-spirituale. Bisognerebbe
semplicemente annunciare il Vangelo, la Risurrezione. Da quando non sono più
all’Università ho incontrato circa 20mila giovani in 100 scuole superiori. Non
ce n’è uno che sia contento della propria vita. La crisi oggi è economica
perché è politica, è politica perché è culturale, è culturale perché è
spirituale».
Questa
è la diagnosi, quale la cura?
«La
traversata di questo deserto spirituale è lunga. Va riscoperto il valore dei
piccoli gruppi, quelli che Achille Ardigò chiamava i “nuclei vitali”. Va
ricostruito un lessico fondamentale della comunità, della politica, a partire
dal basso, perché la salvezza non è calata dall’alto. Serve poi che gli
intellettuali, che stanno sparendo, facciano il loro dovere. A differenza dei
politici, che badano al consenso, e ai capitani d’industria, che badano ai
bilanci, non possono fare i notai: dicano come deve andare il mondo. I giovani
li muovi con la testimonianza».
Uno
dei compiti culturali urgenti. Come intercettare le loro domande di senso?
«Vanno
resi protagonisti. Non basta dare dei messaggi sul senso della vita. Con il
cardinale Ravasi e lo psichiatra Lingiardi abbiamo realizzato, insieme a 800
studenti di tutta l’Emilia-Romagna, degli incontri sul tema dell’identità, a
partire dalla domanda di Agostino Tu quis es?, “Tu chi sei?”.
Ravasi è rimasto colpito dal fatto che, durante gli interventi, non ha
squillato un cellulare e nessun ragazzo ne aveva uno in mano. Erano sedotti.
Bisogna parlare con loro e di loro. Cercare insieme una strada, fidarsi di loro
e responsabilizzarli. Una volta, nella pausa di un incontro di orientamento
alla scelta del liceo, una ragazzina di 13 anni mi ha avvicinato per farmi
vedere sul cellulare la “faccia” del suo fidanzatino. Allora ho lasciato il mio
discorso e ho parlato della differenza tra “faccia” e “volto”. Ho detto che
oggi viviamo in un’epoca di facce, di maschere. Mentre “volto” viene dal latino
volvere, cambiare. Cos’è che ci dice il dolore o la gioia, la bellezza o la
bruttezza, la faccia o il volto? Successivamente, e per me è stata
un’agnizione, ho trovato che l’aveva già detto Isidoro di Siviglia.
Uno
che è vissuto tra VI e VII secolo. Ma il fenomeno attuale che pone molti
interrogativi etici, come ha di recente sottolineato papa Francesco, è l’
“intelligenza artificiale”. Come non farsene fagocitare?
«Ho
davanti a me un libro di Reid Hoffman (cofondatore di LinkedIn, ndr),
scritto a quattro mani con ChatGpt4. È il mondo verso cui andiamo, guai a
essere luddisti. Abbiamo fatto cittadino l’uomo agricolo, poi quello
industriale, quello elettronico adesso dobbiamo fare cittadino l’uomo
dell’intelligenza artificiale. Sia benvenuta, se produce più libertà e più
giustizia. La mia paura è che creeremo macchine che ridurranno l’umanità a un
gregge. Dobbiamo perciò tenere il pallino della tecnologia, che è parola
bellissima, composta da tèchne, l’ars latina,
e logos. Ma sarà tecnologia o tecnocrazia? A prevalere sarà
Prometeo o il fratello Epimeteo, quello che ha aperto il vaso di Pandora. Uno è
pro, prima, l’altro epì, dopo, quello che ritarda. Infine, chi
stabilirà il bonum comune?».
Lei
ha intitolato un suo fortunato saggio Benedetta parola. C’è una
dimensione religiosa della parola, comune tra cattolici e laici?
«A
ispirarmi è stata la Lettera di Giacomo. L’uomo è parola, diceva Aristotele.
Don Milani nella lettera a Bernabei del 1956 dice che chiama uomo chi è padrone
della parola. È il punto d’incontro di tutti. Anni fa in un colloquio con
l’arcivescovo Lorefice ho detto che abbiamo bisogno di una “Pentecoste laica”.
Con il rispetto dobbiamo capire la parola di ciascuno. Tucidide dice di aver
capito lo scoppio della guerra del Peloponneso, perché “avevano cambiato il
significato delle parole”. Oggi se ci fosse la parola della politica non ci
sarebbe la guerra».
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