Neonati sepolti,
l’orrore in giardino:
le vite sdoppiate
di
quei ragazzi
senza legge né tormenti
- di Massimo Recalcati*
È sempre difficile commentare l’orrore ed è impossibile per
uno psicoanalista formulare giudizi clinici quando non si ha un contatto
diretto o informazioni esaurienti sul caso. Mi limiterò dunque a isolare solo
quattro brevi note sul duplice caso dei bambini seppelliti in giardino dalla
mamma Chiara Petrolini.
La prima riguarda la categoria di normalità. Anche in questa
vicenda, come in quella recentissima di Paderno Dugnano, siamo di fronte a uno
schermo di vite normali (quella di Chiara, dei suoi famigliari e del suo
ragazzo) che senza preavviso esplode traumaticamente. L’orrore della sepoltura
nel giardino di casa dei due corpicini appena partoriti è un simbolo tragico di
questa distorsione: lo scorrere di una vita apparentemente normale avviene con
accanto l’orrore.
La seconda nota riguarda l’alterazione profonda che
ritroviamo anche in molte altre situazioni psicopatologiche della funzione
materna. Se l’essere madre si realizza prendendosi cura della vita che si è
generata, in questo caso si è di fronte a una inversione brutale di questa
funzione. La generazione non si lega alla vita ma alla morte. Dunque al posto
dell’atteggiamento di cura nei confronti della vita inerme del figlio, abbiamo
la sua terribile soppressione.
La terza nota, ai miei occhi la più significativa, riguarda
invece il tema dello sdoppiamento. Dovremmo qui provare ad allargare il nostro
sguardo: questa ragazza si trova ad affrontare una esperienza profonda com’è
quella della maternità senza avere evidentemente le risorse psichiche per
soggettivarla. Qualcosa viene troppo in anticipo, accade troppo precocemente,
troppo presto.
Il soggetto non ha gli strumenti per mentalizzare quello che
sta accadendo a se stesso e al suo corpo. La maternità non diventa una
esperienza possibile, ma viene rigettata insieme all’esistenza dei due neonati.
Il parto sembra assomigliare a un processo di pura evacuazione, di liberazione,
di separazione da un oggetto bizzarro che ha occupato impropriamente il corpo
di questa ragazza.
Perché lo sdoppiamento si manifesta proprio a questo livello:
per un verso Chiara è ancora un’adolescente, ma, per un altro verso, ella deve
affrontare una maternità che non sa in nessun modo fare propria.
Si tratta di una scissione che deve essere valutata
clinicamente nel dettaglio, ma che ritroviamo in termini evidentemente meno
drammatici nella vita dei nostri figli. Essa appare, infatti, per un verso,
esposta a una miriade di informazioni, contatti, sensazioni, possibilità, ma,
per un altro verso, in grande difficoltà nel tradurre simbolicamente tutto
questo in una forma di esperienza soggettivamente elaborata.
In altre parole, non è così scontato che il guadagno più che
legittimo di libertà delle nuove generazioni coincida con la necessaria
responsabilità. Piuttosto i comandamenti sociali del nostro tempo tendono a
produrre la loro più netta divaricazione: l’assoluta libertà provoca un
collasso del senso della responsabilità. La crisi in cui versa il discorso
educativo è un esito significativo di questa divaricazione e ci consegna una
domanda inaggirabile: come fare esistere una libertà che non rigetti la responsabilità?
Come non separare la libertà dal vincolo che l’esistenza dell’altro stabilisce?
La quarta e ultima nota riguarda il venire meno del senso
della Legge che costituisce lo sfondo più generale di questa e di altre vicende
simili. Se la vita di questa ragazza sembrava normale è perché riusciva ad
adattarsi alle regole basiche imposte dalla vita collettiva sufficientemente
bene.
Ma dovremmo sempre ricordarci che il rispetto formale delle
regole non coincide affatto con l’acquisizione etica del senso della Legge.
Quello che in questa scena sembra, infatti, palesarsi è l’assoluta assenza di
senso di colpa.
La vita continua come se niente fosse perché niente di
davvero significativo è accaduto. Mentre per l’uomo moderno — si pensi al
protagonista di Delitto e castigo di Dovstoevskj, è il confronto con la
solidità della Legge a generare angoscia, lacerazione morale, vergogna e senso
di colpa — nel nostro tempo è l’inconsistenza della Legge ad aprire un nuovo
campo dove semmai l’angoscia non sorge dal confronto con il peso della Legge ma
con la sua latitanza.
Ogni volta la domanda risuona identica a se stessa: ma come è
stato possibile? In questo caso non c’è alcun brivido della trasgressione, non
c’è alcuna tentazione di aggirare la Legge perché, in fondo, la Legge non
esiste, è evaporata, non ha alcuna consistenza. Il giorno dopo del passaggio
all’atto criminale non c’è il drammatico tormento morale dell’uomo
dovstojeskiano, ma l’organizzazione di una vacanza, il ritorno ai propri affari
quotidiani in un giorno come tutti gli altri.
La Repubblica
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