La ferocia del giovane famiglicida di Paderno non può essere separata dal candore della sua autogiustificazione: volevo separarmi da loro, volevo non subire più l’oppressione della mia famiglia.
In gioco è il grande tema dell’adolescenza: trovare la propria libertà
svincolandosi dalle catene dei legami primari. Ma ciò che in questo caso
trasforma in un dramma questa legittima esigenza che ogni adolescente porta con
sé è il passaggio all’atto criminale. Significa che la separazione dalla
famiglia non è stata simbolizzata attraverso una elaborazione di pensiero
soggettiva, né è stata messa in parola, ma è stata agita direttamente e
crudelmente nel reale. È la differenza tra il sogno e la veglia, tra il
desiderio e la realtà, che in questi casi viene meno. In questo senso il
ricorso alla violenza in generale e, in particolare, nel tempo
dell’adolescenza, assomiglia ad una vera e propria allucinazione. Essa punta a
realizzare immediatamente quello che nella realtà appare difficilmente
realizzabile. Si tratta di una tremenda e tragica scorciatoia. Se in ogni
adolescente c’è il sogno di emanciparsi dai vincoli della propria famiglia, non
tutti ricorrono all’esercizio efferato della violenza per appagare questo
sogno. Il conflitto tra le generazioni deve svilupparsi giustamente sul piano
simbolico e non cortocircuitare col reale. Nondimeno, molto spesso la violenza
giovanile è vissuta come risposta alla violenza supposta o effettivamente
subita degli adulti. È sempre una violenza, alla sua radice, difensiva anche
quando appare nella sua forma più aggressivamente rivendicativa. Non a caso
questo giovane assassinio sembra abbia covato il desiderio di arruolarsi nelle
truppe ucraine per aiutare quel paese a difendersi dall’aggressione
ingiustificata della Russia. La violenza adolescente spesso porta con sé un
fantasma giustizialista. In questo caso con la complicazione tragica che la
vittima diviene giudice e boia da un istante all’altro. Ma più in generale, il
passaggio all’atto violento implica sempre uno sfaldamento della legge della
parola. Non mette, dunque, sotto accusa solo il carattere smidollato dei
genitori o la frammentazione della famiglia ipermoderna, ma un’epoca intera che
sputa senza ritegno su questa legge.
È evidente che la stagione della guerra che stiamo collettivamente vivendo
segnala un tracollo clamoroso della parola nella forma di un fallimento
generalizzato della politica. Le famiglie non sono nicchie separate dalla
società ma respirano la sua aria a pieni polmoni. Il nostro tempo non è,
dunque, solo il tempo (benedetto) dell’evaporazione della famiglia patriarcale,
ma è anche il tempo che non sa offrire risposte a quella evaporazione se non
sul piano del rimpianto nostalgico del passato o della critica nichilistica del
legame famigliare tradizionale. Il problema credo sia invece quello di come si
possa essere dei genitori sufficientemente buoni inun tempo dove il carattere
impossibile di questo mestiere è messo a dura prova da una realtà che svaluta sistemicamente
il valore testimoniale della parola. Non si tratta allora di riesumare una
vecchia e ormai decrepita autorità, ma di dare sempre più valore alla
testimonianza singolare. Quanto, per esempio, i media sanno valorizzare gli
infiniti atti di testimonianza genitoriale positivi e non solo esibire i drammi
famigliari efferati come quello di Paderno che di fatto si contano sulle punte
delle dita? Al tempo stesso occorre non trascurare la presenza di un disagio
effettivo che caratterizza il nuovo mondo dell’adolescenza.
Nessun commento:
Posta un commento