UN RAGAZZO
FA
STRAGE DELLA FAMIGLIA
PERCHE’?
-
di Giuseppe Savagnone*
-
“Una
famiglia perfetta”
Ci
sono fatti cronaca che colpiscono tanto in profondità l’opinione pubblica da
restare in qualche modo impressi come un drammatico punto interrogativo nella
coscienza collettiva. La strage familiare di Paderno è avvenuta nella notte fra
il 31 agosto e il 1° settembre, ma la grande eco che stanno avendo i funerali
delle vittime, celebrati più di dieci giorni dopo, solennemente,
dall’arcivescovo di Milano Delpini, evidenza quanto ancora sia forte la
commozione che quella vicenda ha suscitato.
La
domanda più terribile che fin dall’inizio tutti si sono fatti, e a cui non è
stata data ancora risposta, è: perché? Una domanda resa ancora più drammatica dall’efferatezza
dell’episodio: un ragazzo di diciassette anni, Riccardo, che massacra a
coltellate (ben sessantotto!) il fratellino di dodici anni, la madre e il
padre, è l’incarnazione di una violenza inaudita, tanto più impressionante
perché scatenata fra le mura domestiche, a conclusione di una festicciola
familiare per il 51° compleanno del genitore.
A
colpire, fra l’altro, è la lucida indifferenza con cui Riccardo ha compiuto e
commentato il suo gesto. Nel verbale del primo interrogatorio, fatto dal Gip il
giorno successivo, il ragazzo ha raccontato: «E’ stata la sera della festa che
ho pensato di farlo, non avevo ancora ideato questo piano, però avevo pensato
di usare comunque il coltello perché era l’unica arma che avevo a disposizione
in casa (…). Anch’io sono andato a dormire con loro, ma sono stato sveglio ad
aspettare che loro si addormentassero (…). Sono andato di sopra, il primo che
dovevo colpire era mio fratello (…). Lui si è svegliato e ha urlato ‘papà’. Io
gli ho tappato la bocca e ho sferrato diverse coltellate. Sono andato in camera
dei miei genitori. Loro hanno acceso la luce, io ero davanti a loro con il
coltello in mano. Loro mi hanno detto di stare calmo, sono venuti in camera con
me e lì li ho aggrediti. Non ricordo chi ho aggredito prima, ma credo che mia
mamma sia stata la prima, perché poi si è accasciata a terra. Mio padre mi ha
chiesto di lasciare il coltello. L’ho fatto e mi ha detto di chiamare il 118. A
quel punto, mio padre è andato verso mio fratello e allora gli ho dato un colpo
alla schiena».
Ma
la cosa più inquietante è che tutto ciò è accaduto senza alcuna apparente
motivazione: nessuna lite, nessun progetto ostacolato, nessuna seria
incomprensione.
«Era
una famiglia perfetta», ha detto il nonno materno del ragazzo, parlando agli
inquirenti «di un padre attento all’educazione e di una madre che, pur severa
con i figli, era molto presente e premurosa». I due fratelli, poi, «avevano un
rapporto “idilliaco” e il minore ammirava molto il fratello maggiore, che era
solito emulare».
Anche
la zia materna ha messo a verbale che era una «famiglia normale, senza
particolari problemi, nemmeno economici», aggiungendo che il cognato «era un
uomo piacevole, ironico, un bravo papà e marito». Il nipote viene descritto
come «un ragazzo meraviglioso, bravo, educato, aiutava in casa, faceva sport. A
livello caratteriale era riservato».
Uno
straniero
Perché,
allora? La difesa si sta disperatamente appigliando alla richiesta di una
perizia psichiatrica, ma nulla lascia pensare che Riccardo sia un pazzo o
comunque uno squilibrato.
Ai
magistrati ha detto: «Non c’è un vero motivo per cui li ho uccisi. Mi sentivo
un corpo estraneo nella mia famiglia. Oppresso. Ho pensato che uccidendoli
tutti mi sarei liberato da questo disagio. Me ne sono accorto un minuto dopo:
ho capito che non era uccidendoli che mi sarei liberato».
E
ancora: «Non so davvero come spiegarlo. Mi sento solo anche in mezzo agli altri
(…). Non avevo un vero dialogo con nessuno. Era come se nessuno mi comprendesse
(…). Ogni tanto i miei genitori mi chiedevano se c’era qualcosa che non andava
perché mi vedevano silenzioso, ma io dicevo che andava tutto bene».
Non
possono non tornare in mente le pagine di grande romanzo del premio Nobel
Albert Camus, Lo straniero (1942), in cui si descrive l’assassinio compiuto,
senza motivo, per una serie di riflessi condizionati, da un modesto impiegato,
Meursault, il quale, durante una banale lite sulla spiaggia, si trova messa tra
le mani una pistola. «In quel momento ho pensato che si poteva sparare oppure
non sparare e che una cosa valeva l’altra».
Alla
fine spara, ma senza odio e, in fondo, senza un vero motivo. Ha scritto a
questo proposito Raffaele La Capria: «L’indifferenza con cui il protagonista
della storia di Camus compie le sue azioni discende dalla consapevolezza della
sua estraneità al mondo e alla natura, che si traduce, nella vita di tutti i
giorni, in gesti meccanici, privi di senso, e, anche se estremi come un
assassinio, equivalenti».
Ritornano
alla mente le parole di Riccardo: «Non c’è un vero motivo per cui li ho uccisi.
Mi sentivo un corpo estraneo nella mia famiglia». Anche lui era uno straniero.
E anche lui, in una società dove si compiono ogni giorno azioni prive di senso,
ha percepito che, tra uccidere e non uccidere, «una cosa vale va l’altra».
La
crisi dei fini
Il
punto decisivo, di cui Albert Camus ha percepito tutta la drammaticità, è che
la “morte di Dio” – annunciata da Nietzsche alla fine dell’Ottocento come
simbolo del tramonto di tutti i valori su cui l’Occidente ha costruito la
propria storia – ha lasciato le persone prive di qualunque fine che non sia
l’esercizio della stessa libertà.
Mentre
– con il rapidissimo progresso della tecnica e il miglioramento delle
condizioni economiche – è andato sempre più crescendo il potere della
maggioranza delle persone sui mezzi, si è sempre indebolita la possibilità di
individuare dei fini.
Il
tramonto delle grandi ideologie che, dallo scientismo, al marxismo, al fascismo
avevano dato un senso alla vita; il declino della religione e la conseguente
secolarizzazione, la crisi progressiva della famiglia, il progressivo
indebolirsi dello Stato nazionale e la conseguente minore incidenza della
politica, hanno progressivamente creato un grande vuoto, che colpisce tutti, ma
di cui i giovani avvertono più immediatamente gli effetti.
Anche
perché proprio essi sono oggi molto più liberi di prima e avvertono più
gravemente, perciò, il paradosso di una libertà che finisce per non avere altro
scopo che la propria auto-celebrazione (vedi il diffondersi della droga, la
sempre maggiore frequenza di comportamenti balordi che mettono a rischio la vira propria e altrui..)
Non
è un problema solo italiano. Anche recentemente, negli Stato Uniti, la libertà
è alla fine il punto fondamentale del programma di Kamala Harris. Ma una
libertà che si auto-assolutizza è destinata a vedere negli altri solo dei
limiti e quindi degli ostacoli.
Non
è un caso che, nel caso della candidata democratica alla presidenza degli Stati
Uniti, questa libertà si polarizzi poi di fatto sul tema dell’aborto come
diritto della donna di sbarazzarsi dell’eventuale ostacolo di un figlio
indesiderato.
Che
alla fine è assai meno lontano di quanto possa sembrare dal programma di Trump,
che si batte per questo stesso tipo di libertà, insistendo però sulla
espulsione degli immigrati. In entrambi i casi, l’“altro” diventa solo una
minaccia.
È
la percezione espressa da Riccardo al Gip per cercare di fare capire il suo
gesto: «Mi sentivo un corpo estraneo nella mia famiglia. Oppresso. Ho pensato
che uccidendoli tutti mi sarei liberato da questo disagio».
Non
si tratta di un caso isolato. Dietro la grande impressione che la strage di
Paderno ha suscitato, c’è forse l’oscura sensazione che il problema riguarda
ormai tutta la nostra società, in particolare i nostri ragazzi, sempre più
prigionieri dei loro cellulari e sempre meno capaci di dialogo in famiglia, ma
anche sempre meno impegnati in forme comunitarie, siano quelle della religione
o della politica e che, proprio per questo, ormai non avvertono più i legami,
anche quelli affettivi, come un’opportunità, ma come un peso.
Nella
società della comunicazione globale, ognuno resta alla fine solo. È un bene,
certo, che ciò non porti, nella stragrande maggioranza dei casi, ad uccidere,
ma non esclude un individualismo profondo che prende sempre più forza.
Forse
bisogna ripensare il nostro modo di intendere la libertà. Senza fini a cui
dedicarsi – e i fini si devono scoprire e conquistare, magari cercandoli
insieme – la libertà impazzisce. E, come evidenzia, purtroppo, l’episodio di
Paderno, può arrivare a uccidere.
www.tuttavia.eu
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale della Cultura – Arcidiocesi di Palermo
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