Che
cosa significa avere una vita eroica? La grande differenza tra la cultura greca
e quella latina.
Da una parte il modello dell’affermazione di sé, dall’altra il
sacrificio per gli altri
-
d Marco Erba*
Da
ragazzini si vive di miti, di eroi. Io ne ho avuti tanti: dal cantante Luciano
Ligabue al calciatore Paolo Maldini, dal ciclista Claudio Chiappucci al gruppo
rock dei Litfiba. Abbiamo bisogno di persone in cui identificarci, a ogni età.
Ci servono modelli da seguire, che possano ispirarci, che possano spingerci a
essere migliori. Ma chi è, davvero, un eroe? Quando ero alla scuola media mi
stupivo di come io e i miei insegnanti applicassimo questa parola a persone
molto diverse. Per me un eroe era chi si sapeva imporre con la sua forza, con
le sue qualità, con i suoi numeri eccellenti. Eroe era uno che spiccava, capace
di emergere rispetto alla massa di persone mediocri. Una persona famosa,
ammirata, vincente.
I
miei prof invece citavano come eroi persone sconfitte, finite male: Giovanni
Falcone, Salvatore Borsellino, Martin Luther King. Certo, persone con dei
valori, che avevano lasciato una importante eredità, ma che alla fine per
questi valori avevano pagato un prezzo troppo salato. Io ammiravo queste
figure, ma come da lontano: ascoltavo i racconti su di loro, ne ero colpito, ma
non ero così convinto di voler assomigliargli. Quando sono diventato prof di
lettere alle superiori e ho cominciato a insegnare epica al biennio, il tema
dell’eroe è riemerso con prepotenza nella mia vita.
Chi
è un eroe? Lo chiedo spesso nelle mie classi. L’epica stessa fornisce diverse
risposte. Gli eroi dell’epica omerica, in particolare Achille e Ulisse, sono
certamente molto simili a quelli a cui avrei voluto assomigliare io alla scuola
media. Sono personaggi vincenti, che sanno imporre il loro carisma e la loro
volontà. Che, da soli, schiacciano tutti coloro che tentano di opporsi. Eroi
che vincono sempre, che superano ogni avversità. Eroi spesso soli, ma ammirati
ed esaltati da tutti. Durante la guerra di Troia, Agamennone, capo spedizione
degli achei, sottrae la schiava Briseide ad Achille, il più forte dei guerrieri
del suo esercito, per prenderla con sé. Achille è furente. Per vendicarsi
abbandona il campo di battaglia e senza di lui gli achei subiscono innumerevoli
perdite. Alla fine Achille torna a combattere, ma in primo luogo non per pietà
nei confronti dei suoi compagni, non perché ha a cuore la comune sorte:
combatte soprattutto per vendicarsi contro il troiano Ettore, che ha ucciso il
suo amato compagno Patroclo.
Achille
è un eroe strepitoso, un mito per tutte le generazioni, ma ha molto più a cuore
il proprio onore che il bene comune.
Tutto
ciò vale spesso anche per Ulisse, che con la sua astuzia finisce sempre per
trionfare. Tornato a Itaca, la sua isola, vent’anni dopo essere partito per la
guerra di Troia, sconfigge i proci, pretendenti alla mano di sua moglie
Penelope, li uccide tutti e riprende il potere. Ciò che muove Ulisse è
soprattutto la difesa del suo onore personale: la riconquista della sua reggia,
di sua moglie, della sua famiglia e del suo spazio vitale, che gli è stato
sottratto.
Achille
e Ulisse sono gli eroi dell’affermazione di sé contro tutto e contro tutti. C’è
però un altro modo di essere eroi. Per scoprirlo bisogna lasciare l’epica greca
e viaggiare in quella latina, fino ad incontrare l’Eneide di Virgilio. Enea, il
protagonista, è un eroe molto diverso da Achille e Ulisse. Il troiano Enea vede
la sua città distrutta e saccheggiata dagli achei. L’onore lo spinge a
combattere, a morire senza cedere. Ma il destino ha per lui un’altra missione,
più lunga e faticosa. C’è un nuovo futuro possibile per il quale sacrificarsi.
Così Enea prende suo padre Anchise in spalla e suo figlio Iulo per mano e
parte, obbedendo a quel destino. A Troia lascia tutto, compresa l’amata moglie
Creusa, che non sopravvive alla distruzione della città. Insieme a un gruppo di
superstiti troiani, si imbarca e prende il largo. Dopo diverse peripezie, Enea
giunge a Cartagine, dove regna Didone. Cartagine è una nuova città, Didone è
completamente dedita a costruirla, ma si innamora perdutamente di Enea. Enea contraccambia
l’affetto: i due si legano, dimenticano il loro compito e il loro destino. Il
poeta Virgilio scrive che, mentre Didone è innamorata, le torri iniziate non
crescono più, i giovani non si esercitano, porti e bastioni non vengono
adeguatamente muniti. Didone ed Enea antepongono il loro amore al bene comune.
gli dei, inesorabili, richiamano l’eroe troiano: deve riprendere il mare,
completare la sua missione. Enea è distrutto: si trova a scegliere tra il suo
desiderio personale, restare con Didone, e ciò che è chiamato a fare per il suo
popolo, che ha bisogno di una nuova terra, di un futuro ancora possibile. Enea
decide: lascia Didone, sceglie l’incertezza del viaggio. L’esito è tragico:
Didone si toglie la vita con la spada che Enea stesso le ha regalato,
simbolicamente uccisa dall’amore per lui. Dal mare Enea scorge il fuoco della
pira funebre della regina di Cartagine, si dispera. Ritroverà l’amata Didone
quando scenderà agli inferi: lei si mostrerà dura come roccia, fredda come
ghiaccio. Non degnerà Enea di una parola, si ritirerà insieme al suo primo marito
Sicheo, lasciando solo l’eroe. Le sventure di Enea non finiscono qui. Sbarcato
sulle coste del Lazio, troverà ad attenderlo una nuova guerra, che dovrà
combattere e vincere. La sua vita di sofferenze e di rinunce porterà frutto
solo dopo la sua morte: i suoi discendenti fonderanno Roma, destinata per
sempre, secondo Virgilio, a garantire al mondo una pace universale.
Enea
è un eroe molto simile a coloro che i miei prof delle medie ponevano in questa
categoria. Ora, da insegnante, li capisco molto meglio. Capisco che il modo di
essere eroe di Enea è superiore a quello di Achille e Ulisse, perché, seppur
nella fatica e nel dolore, costruisce di più, porta più frutto, lascia una
eredità migliore e duratura. Enea è l’eroe della dedizione, del dono di sé, del
sacrificio di sé per gli altri, per il popolo, per il bene comune. Non a caso
nell’etica romana il buon cittadino era colui che anteponeva il bene dello
Stato (cioè, la Res Publica, ciò che è di tutti) all’interesse personale. Non
sono solo belle parole e begli ideali. Falcone e Borsellino davvero hanno
vissuto così: in costante pericolo, impossibilitati a condurre una vita
normale, vittime della più brutale violenza. Eppure le loro esistenze sono
state un dono per lo Stato, la loro opera è feconda anche oggi. Lo stesso si
può dire di Martin Luther King, anch’egli assassinato e prima umiliato,
percosso, schiacciato. Ma il pastore King di fronte alle violenze pregava e cantava,
regalando a tutti noi anche oggi, in quest’epoca di armi e violenza, un
mirabile esempio di amore disarmato e fecondo.
Mi
è capitato di recente di assistere a una conferenza su Giacomo Matteotti. Il
2024 è il centenario del suo assassinio ad opera dei fascisti. In quella
conferenza si è parlato del politico, ma anche dell’uomo. Un uomo separato
dalla sua famiglia; lontano da Velia, la moglie che amava, e dai suoi figli. Un
uomo minacciato e vessato in ogni modo, che ha sacrificato la famiglia e gli
affetti più cari per il bene comune, per condurre fino in fondo la sua
missione. Oggi gli sono dedicare scuole, strade, piazze: i semi da lui gettati
portano frutto oltre la sua stessa vita. Ci sono tanti Enea, anche oggi, anche
tra i banchi di scuola. La mia allieva che si fermava molti pomeriggi a
spiegare fisica e latino ai compagni più in difficoltà, il mio allievo
volontario al doposcuola della parrocchia per sostenere i bambini nello studio,
il capo scout che dedica buona parte del suo tempo e delle sue vacanze per
accompagnare nel cammino i lupetti del branco.
Tutti
possiamo essere l’Enea di qualcuno. A noi prof resta il compito di raccontare e
di testimoniare che tutto questo è possibile. Dobbiamo accompagnare i nostri
alunni a fare il grande passo che porta da Achille ad Enea, dal desiderio di
affermare sé stessi alla gioia di donarsi agli altri, perché solo donandosi
agli altri si trova la strada per essere realizzati e felici. La società si
costruisce se tutti proviamo a essere eroi del noi, più che eroi che impongono
il proprio io. Questo cambia anche la visione di che cos’è davvero lo Stato:
non un’entità esterna vessatoria, dalla quale devo pretendere ciò che mi fa
comodo e contro la quale devo sempre lamentarmi se non lo ottengo, ma una vera
Res Publica, alla quale ciascuno è chiamato a dare il proprio contributo,
perché tutti possano vivere meglio. Perché si aprano orizzonti ancora
possibili, anche per le generazioni che verranno.
*Insegnante
e scrittore
www.avvenire.it
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