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di Enzo Bianchi
Se
l’amore e l’amicizia sono ricerca, custodia e coltivazione di un legame fondato
sull’esercizio libero dell’amore quale dono, la fraternità nasce come «legame
già dato grazie all’origine, per il quale si crea una reciprocità in cui ci si
custodisce». L’amore e l’amicizia conoscono la possibilità della fine, della
caduta; la fraternità no, perché si è fratelli e sorelle per sempre e nessuno
sceglie i propri fratelli e sorelle. Ma questo status della fraternità è nel
contempo un dono e un compito; siamo nello stesso ordine della communitas,
luogo del cum-munus, nel doppio significato di “dono” e di “dovere” comune:
come la comunità, anche la fraternità è condivisione del dono, del dovere,
della responsabilità, e anche nella fraternità vi è un debito che ciascuno vive
verso gli altri.
Il
figlio che riceve la notizia della nascita di un fratello vede mutare la
propria condizione di unicità.
È
decisivo che compia una scelta libera di decentramento del proprio io per
riconoscere un’alterità con la quale si instaura un legame dato, non scelto.
Questo passaggio dal dono al compito, questa accettazione del limite
intervenuto con la presenza del fratello o della sorella richiede che si metta
a morte l’“unicità”, che si vinca la paura di perdere “l’unico posto”. Ed è
qui, al cuore della fraternità, che riemerge la paura dell’altro, la
possibilità che l’altro sia l’inferno e, in definitiva, la paura della morte.
Vivere la fraternità è dunque la prima vocazione umana, il compito per
eccellenza: solo così la vita conosce la convivenza, la comunità, ed è vita
buona in pienezza, attraverso la quale uomini e donne si umanizzano. In questo
senso, vorrei tracciare alcune linee generali per vivere la fraternità.
La
prima esigenza è l’accettazione incondizionata del fratello e della sorella: mi
sono stati affidati dal momento del loro apparire davanti a me e accanto a me.
Il loro esserci richiede che non si pongano condizioni alla relazione fraterna.
Alle radici della fraternità c’è il rispetto assoluto per l’altro, il suo
riconoscimento. Il fratello/la sorella, non si scelgono, sono un fratello/una
sorella in umanità perché esseri umani come me, sono un fratello/una sorella
nella chiesa perché battezzati come me, sono membri della mia comunità perché
ne fanno parte come me attraverso un’alleanza.
Una
seconda esigenza per vivere la fraternità è l’assunzione di responsabilità
degli uni verso gli altri. «Sono forse io il custode di mio fratello?». In
questa domanda si cela la grande tentazione di rinnegare la responsabilità. Eppure,
l’altro, il fratello di fronte a me, è di per sé invocazione, domanda che
chiede la mia risposta, l’assunzione di una responsabilità nei suoi confronti.
La tentazione che ci abita è sempre la demissione, espressa dal «non so» di
Caino. È rimuovere la presenza del fratello o della sorella, per non assumere
una responsabilità che è sempre un decentramento da sé e un farsi carico della
custodia dell’altro. In realtà non vedere, non discernere il fratello, non
prendersi cura di lui quando è nel bisogno, è già un percorrere una via
omicida. A causa della nostra omissione l’altro può trovare la morte!
Infine,
per vivere la fraternità, si richiede la solidarietà come esigenza di
comunione. Quella della solidarietà, cioè della cura e della custodia
reciproca, è forse l’esperienza più attestata di fraternità realmente vissuta.
Questo vale per tutti i generi di vita: in particolare la famiglia è il primo
luogo della solidarietà, lo spazio nel quale ogni gesto o comportamento
richiede reciprocità, perché ciascuno possa vivere la cura e la custodia
dell’altro.
Nel
Nuovo Testamento, soprattutto nella predicazione paolina, ricorre con
insistenza il pronome allélon, “gli uni gli altri”, che indica con forza il
compito della solidarietà. Spesso Paolo chiede ai cristiani delle diverse
comunità di stimarsi a vicenda, di avere gli stessi sentimenti gli uni verso
gli altri, di accogliersi gli uni gli altri, di correggersi gli uni gli altri,
di aspettarsi gli uni gli altri, di avere cura gli uni degli altri, di
confortarsi, di sopportarsi, di vivere in pace, di portare i pesi gli uni degli
altri... Molti sono i passi che con tengono questo pronome, e sono passi in cui
l’accento cade sempre sulla solidarietà reciproca, sulla reciprocità vissuta
nella gratuità e nella consapevolezza che il fratello può amare il fratello solo
perché prima è stato amato da Cristo.
Inoltre,
non si può dimenticare la frequenza con cui ricorre nelle lettere paoline la
preposizione sýn, “con”, “insieme”, unita a numerosi verbi: lavorare insieme,
rallegrarsi insieme, soffrire insieme, pregare insieme, sentire insieme,
camminare insieme... Nella fraternità non si è “mai senza l’altro” ma sempre
sýn, insieme. La compagnia del vivere insieme comporta addirittura l’assurdo
logico del morire insieme, come viene indicato dall’Apostolo: voi fratelli
«siete nel nostro cuore, per morire insieme e vivere insieme» (ad commoriendum
et ad convivendum: 2Cor 7,3). Con questa preposizione, sýn, sono formati anche
i sostantivi sinodo – di cui sopra – e sinassi, nomi della chiesa che pongono
l’accento proprio sull’agire e sul camminare (cioè sull’essere) insieme.
“Reciprocità”
(allélon) e “insieme” (sýn) sono le costanti della solidarietà fraterna.
Risulta dunque evidente che la fraternità implica l’esercizio del comandamento
dell’amore del prossimo, del comandamento nuovo, cioè ultimo e definitivo,
lasciatoci da Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli
altri (allélous). Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli
altri (allélous)» (Gv 13,34). Non me, ma gli uni gli altri, dice Gesù! Questa
fraternità vissuta nell’amore reciproco sarà il segno tangibile dell’essere
discepoli di Gesù, secondo quanto egli stesso ha indicato: «Da questo tutti
sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri (en
allélois)» (Gv 13,35). È la realtà della fraternità! Una realtà che, tra
l’altro, costituisce uno degli aspetti dell’inesauribile mistero
dell’eucaristia: «Il servizio fraterno all’interno della comunità è in certo
qual modo la res del sacramento... La fraternità che l’ultima cena suggella si
cementa nel servizio reciproco, nel dono dell’uno all’altro di cui Gesù è
sorgente ed esempio».
È
dunque nell’amore fraterno che si può cogliere il sigillo della “differenza
cristiana”, che si manifesta in uno stile di vita all’insegna della fraternità
e della comunione. Ed è da questo essere una fraternità che può discendere
anche quel paradossale “bel comportamento” (1Pt 2,12) così descritto da
Tertulliano, il quale non fa che riassumere l’insegnamento biblico: [Il Signore
dice:] «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a
quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che
vi calunniano» (Lc 6,27-28). Il Creatore aveva racchiuso tutto questo in una
sola frase, per bocca di Isaia: «Dite: “Siete nostri fratelli” a coloro che vi
odiano» (Is 66,5).
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