-
di Giuseppe Savagnone*
Le
polemiche
Ha
scatenato una tempesta di polemiche la richiesta di una condanna a sei anni di
reclusione, avanzata dalla Procura di Palermo nei confronti del ministro
Salvini, accusato di aver negato illegittimamente, nell’agosto del 2019 –
quando era vicepremier e ministro degli Interni del primo governo Conte –, il
permesso di far sbarcare dalla nave della ONG spagnola «Open Arms», ormeggiata
nel porto di Lampedusa, 147 profughi soccorsi in mare.
«È
incredibile», ha reagito la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, «che un
ministro della Repubblica Italiana rischi 6 anni di carcere per aver svolto il
proprio lavoro difendendo i confini della Nazione, così come richiesto dal
mandato ricevuto dai cittadini. Trasformare in un crimine il dovere di
proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale è un precedente
gravissimo».
Ha
risposto una nota dell’Associazione nazionale magistrati: «Sono state rivolte
nei confronti di rappresentanti dello Stato nella Pubblica Accusa insinuazioni
di uso politico della giustizia e reazioni scomposte, anche da parte di
esponenti politici e di Governo.
Sono
dichiarazioni gravi, non consone alle funzioni esercitate, in aperta violazione
del principio di separazione dei poteri, indifferenti alle regole che
disciplinano il processo, che minano la fiducia nelle istituzioni democratiche
e che costituiscono indebite forme di pressione sui magistrati giudicanti.
Sarà
il Tribunale a vagliare la fondatezza dell’accusa, con indipendenza e terzietà,
guidato solo dallo scrupoloso rispetto di tutte le norme vigenti in materia».
Intanto
migliaia di messaggi di insulti e minacce, insieme a pesanti lettere
intimidatorie, sono state indirizzate in questi giorni ai magistrati della
Procura di Palermo che hanno chiesto la condanna, al punto da allarmare le
autorità per la loro sicurezza.
In
attesa della requisitoria dell’avvocata dell’imputato, Giulia Bongiorno, che
sarà tenuta il 18 ottobre, e della sentenza, che dovrebbe essere emessa dal
Tribunale nei giorni successivi, vale forse la pena di fare una riflessione su
ciò che sta accadendo e sul suo significato.
I
fatti
Ma
prima di tutto, come è sempre necessario per una seria interpretazione, la
ricostruzione dei fatti. Tra l’1 e il 10 agosto 2019 la «Open Arms» era
intervenuta tre volte al largo della Libia, soccorrendo più di 150 migranti.
Fin dall’inizio la ONG aveva chiesto alle autorità italiane di poter attraccare
in un porto del nostro paese.
Intanto,
però, il 5 agosto il Senato aveva approvato il cosiddetto “decreto sicurezza
bis”, fortemente voluto dal vicepremier Salvini, che, tra le altre cose, dava
al governo il potere di vietare a qualsiasi nave l’ingresso nelle acque e nei
porti italiani ove ravvisasse una minaccia per la sicurezza nazionale.
Un
provvedimento la cui legittimità, a dire il vero, fin all’inizio è apparsa
controversa: il soccorso in mare in caso di pericolo e il diritto di asilo,
infatti, sono regolati da numerose convenzioni internazionali, recepite nel
nostro ordinamento, che non possono essere scavalcate da una legge nazionale.
Sta
di fatto che, in base alla recentissima novità legislativa, il governo aveva
risposto negativamente alla richiesta della «Open Arms», vietandole l’ingresso
nelle acque territoriali italiane, con un provvedimento emanato dal ministero
di Salvini, ma firmato anche dagli allora ministri dei Trasporti (Danilo
Toninelli) e della Difesa (Elisabetta Trenta). I legali di «Open Arms» avevano
allora fatto ricorso al TAR del Lazio, che il 14 agosto sospese gli effetti del
divieto d’ingresso.
In
quel momento la «Open Arms» era in navigazione, stracarica di naufraghi, già da
quasi due settimane, e a bordo la situazione stava diventando sempre più
difficile.
Ma,
grazie alla sentenza del TAR, il 15 agosto poté finalmente entrare nelle acque
territoriali italiane e arrivare fino alle coste dell’isola di Lampedusa, dove
chiese ufficialmente il permesso di sbarcare le persone soccorse. Ma Salvini si
oppose.
La
difesa sostiene che lo faceva a nome del governo, che era unanime su questa
presa di posizione. Quel che è certo è che, davanti a un secondo provvedimento,
emanato dal ministro dopo la sentenza del TAR, questa volta Toninelli e Trenta
rifiutarono di controfirmarlo. A evidenziare ulteriormente le divergenze
interne al governo è la lettera aperta che lo stesso 15 agosto il presidente
del Consiglio Giuseppe Conte scrisse a Salvini, prendendo le distanze dal suo
operato.
L’opposizione
del vicepremier rimase, tuttavia, inflessibile e resistette a lungo anche alla
proposta – poi alla fine a malincuore accolta – di far scendere almeno i 32
minori che erano a bordo.
Solo
la sera del 20 agosto, dopo 19 giorni – per ordine del procuratore di
Agrigento, Luigi Patronaggio, che lo impartì dopo aver visitato la nave e
constatato le condizioni di sfinimento dei profughi – fu infine consentito alle
persone ancora sulla Open Arms di sbarcare.
A
seguito di questi fatti, nel novembre 2019, Salvini venne indagato con l’accusa
di sequestro di persona e omissione d’atti d’ufficio. Il Tribunale dei
Ministri, recependo le conclusioni della Procura, nel febbraio successivo
chiese al Senato l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro.
A
questo proposito, l’articolo 96 della Costituzione recita: «Il presidente del
Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono
sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla
giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o
della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge
costituzionale».
Già
due volte, nel gennaio e poi nel settembre del 2019, il Tribunale dei ministri
di Catania aveva fatto un’analoga richiesta di autorizzazione a procedere al
Senato nei riguardi di Salvini, rispettivamente per il divieto di sbarco dei
migranti dalla nave della marina italiana «Diciotti» e dalla «Gregoretti», ma
nel primo caso la richiesta era stata respinta dal Senato, mentre nel secondo
era stata accolta (intanto era cambiato il governo, e ora esso era passato
dall’alleanza Lega-5Stelle a quella PD-5Stelle), ma il giudice dell’udienza
preliminare di Catania (GUP) aveva emesso la sentenza di non luogo a procedere
con la secca motivazione: «Il fatto non sussiste».
Anche
nel caso della Open Arms, il 30 luglio del 2020, il Senato diede al Tribunale
dei ministri di Palermo l’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini.
Anche stavolta la difesa, con l’avvocato Giulia Bongiorno, chiese il non luogo
a procedere “perché il fatto non sussiste”.
Ma
il GUP di Palermo questa volta ritenne che il processo fosse da fare, dando
così l’avvio, in aprile, al dibattimento andato avanti per due anni e che ora è
arrivato alla sua conclusione.
Le
argomentazioni della difesa e dell’accusa
Se,
dai nudi fatti, si passa al merito, il commento del vicepremier, alla notizia
della richiesta dei PM è stato: «L’articolo 52 della Costituzione italiana
recita che la difesa della patria è un sacro dovere del cittadino. Mi dichiaro
colpevole di aver difeso l’Italia e gli italiani, mi dichiaro colpevole di aver
mantenuto la parola data».
In
seguito, il leader della Lega ha ribadito la sua posizione, dichiarando che non
avrebbe patteggiato la pena: «No, non patteggio perché ritengo di aver difeso
la sicurezza del mio paese e di aver mantenuto una promessa, da politico dissi
“Votatemi e riduco gli sbarchi”».
Da
parte loro i PM dopo aver ricordato che, dal punto di vista giuridico, «le
convenzioni internazionali sono chiarissime», e che in base ad esse «non si può
chiamare in causa la difesa dei confini senza tenere conto della tutela della
vita umana in mare», hanno insistito nella requisitoria su un punto ancora più
fondamentale: «C’è un principio chiave non discutibile: tra i diritti umani e
la protezione della sovranità dello Stato sono i diritti umani che nel nostro
ordinamento, per fortuna democratico, devono prevalere».
Le
regole del gioco democratico
Davanti
a questo quadro, è difficile non restar sorpresi dell’intervento del presidente
del Senato, Ignazio La Russa: «Ho fiducia piena nella giustizia, ma penso che
spesso la pubblica accusa, in processi come questo, fa prevalere la tesi che
vuole affidare al PM il compito di interpretazione estensiva delle norme. La giustizia,
secondo loro, dovrebbe interpretare le norme e correggere. Ma non tocca alla
magistratura correggere le norme, anche quando fossero sbagliate: può solo
applicare la legge».
Quale?
Il decreto sicurezza bis o le convenzioni internazionali che l’Italia accetta
come prevalenti sulle altre norme, comprese quelle del decreto stesso? È stato
veramente «estensivo» dare la precedenza alle prime sul secondo e alla sentenza
del TAR del Lazio rispetto ai provvedimenti amministrativi di un singolo
ministro?
In
ogni caso, tutti gli esperti di diritto (strano che La Russa, avvocato, non lo
ricordi) sanno bene che ogni applicazione della legge implica una sua
interpretazione.
Naturalmente
le interpretazioni – comprese quelle dei PM e dei giudici – sono
controvertibili, e per questo è previsto che le sentenze siano appellabili ed
esposte a revisione nel giudizio di secondo, e poi in quello di terzo grado.
Si
può quindi dissentire dalle tesi della magistratura – questo fa parte delle
regole del gioco in democrazia – , ma non dichiarare, come hanno fatto il capo
del Governo e la seconda carica dello Stato, che esse sono il frutto di un
tentativo ideologico di «trasformare in un crimine il dovere di proteggere i
confini italiani dall’immigrazione illegale» e di «correggere le norme».
Perché
questo è in aperto contrasto con la separazione dei poteri e con l’autonomia
della magistratura, solennemente sancite dalla nostra Costituzione. Come lo
sarebbe stato se l’Associazione nazionale magistrati, all’indomani della legge
sull’autonomia differenziata o delle decisioni del governo in politica estera,
le avesse contestate pubblicamente, dichiarandole “incredibili” e frutto di un
modo scorretto di interpretare gli interessi del nostro paese.
Lo
stesso vale per la reazione dell’opinione pubblica. Si può essere d’accordo o
in disaccordo con un’arringa. La sola cosa inaccettabile è quella che sta
accadendo nel processo a Salvini: e cioè che i magistrati vengano attaccati e
minacciati nello svolgimento del loro servizio al paese, nell’evidente intento
di condizionarli.
Un’ultima
domanda
Ma
c’è forse qualcosa di più profondo che bisogna avere il coraggio di chiedersi.
Se davvero Salvini ha commesso le violazioni ai diritti umani che oggi gli
vengono contestate dalla legge, lo ha fatto sull’onda di un consenso popolare
che gli aveva fatto raggiungere nei sondaggi il 36%.
Oggi
l’entusiasmo nei suoi confronti è molto scemato, ma il suo slogan sulla “difesa
delle frontiere” è stato fatto proprio dagli altri partiti di governo (vedi
campi di detenzione in Albania), che continuano ad avere il pieno appoggio
della maggioranza relativa degli elettori.
Il
vicepremier e i giornali che lo fiancheggiano non hanno dunque del tutto torto
quando dicono che ciò che è stato fatto lo è stato in nome degli italiani e
che, anche oggi, in fondo, «siamo tutti Salvini» («La Verità» del 15
settembre).
Ma
questo significa che siamo tutti – o almeno in tanti – su quel banco degli
imputati e dobbiamo anche noi chiederci se davvero la vita e la dignità di un
essere umano (in questo caso di 147) debbano venire prima o dopo le scelte del
potere politico.
A
questa domanda non possiamo sottrarci, fingendo di essere solo degli spettatori
di un processo che non ci riguarda. I giudici faranno il loro mestiere
emettendo una sentenza in base alle leggi italiane. Ma la risposta noi la
dobbiamo dare alla nostra coscienza.
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale della Cultura – Arcidiocesi Palermo
www.tuttavia.eu
Immagine
Nessun commento:
Posta un commento