Abituarci mentalmente
all’imminenza del conflitto
- di Giuseppe Savagnone*
«Non
voglio spaventare nessuno, ma la guerra non è più un concetto del passato, è
reale, è già iniziata più di due anni fa: la cosa più preoccupante è che ogni
scenario è possibile e che è la prima volta dal 1945 che ci troviamo in una
situazione del genere». Lo ha detto qualche giorno fa il premier polacco Donald
Tusk, in una intervista che ha avuto larghissima risonanza.
Tusk,
che è un personaggio politico di primo piano anche a livello internazionale
– è stato presidente del Consiglio
europeo dal 2014 al 2019 – , era ben
consapevole della gravità delle sue affermazioni: «So che sembra devastante,
soprattutto per i più giovani» – ha riconosciuto – , «ma dobbiamo abituarci
mentalmente all’arrivo di una nuova era, è l’era prebellica».
Come
ha fatto notare il premier polacco, era dal 1945, dalla fine della seconda
guerra mondiale, che non ci si trovava sull’orlo di un conflitto globale.
In
particolare per quanto riguarda l’Europa – con la sola eccezione delle guerre,
molto localizzate e circoscritte che avevano segnato la dissoluzione della ex
Jugoslavia, alla fine del secolo scorso – , la pace non era mai stata veramente
minacciata. Ma anche a livello mondiale, neppure nel periodo della “guerra
fredda” essa era stata così gravemente
in pericolo.
La
guerra impossibile del tempo del nucleare
Non
perché non ci fossero più motivi di contrasto – essi erano fortissimi, perché
anche ideologici – , ma per il radicale cambiamento che l’introduzione delle
armi nucleari aveva prodotto nella valutazione di una possibile guerra.
Dopo
Hiroshima e Nagasaki, essa non poteva più essere concepita solo come lo scontro
tra due apparati militari, da cui uno dei due sarebbe uscito vittorioso.
Ne
avevano preso atto gli intellettuali. In un saggio del 1979, intitolato «Il
problema della guerra e le vie della pace», Norberto Bobbio aveva concluso che
ormai le potenzialità distruttive delle armi create dall’uomo aprivano inediti
scenari di distruzione su scala planetaria, al punto da mettere a rischio la
sopravvivenza stessa della specie umana.
La
guerra termonucleare, a differenza delle altre passate, potrebbe non permettere
una distinzione tra vincitori e vinti, accomunando tutti nella stessa
catastrofe.
A
questa pace fondata sul principio della «mutual assured destruction» (mutua
distruzione assicurata) avevano aderito anche i due leader delle superpotenze
mondiali di allora, Ronald Reagan e Michail Gorbaciov, in un vertice bilaterale
tenutosi a Ginevra il 21 novembre 1985: «Oggi riaffermiamo il principio che una
guerra nucleare non può essere vinta e non deve essere combattuta».
Così,
di un conflitto atomico mondiale nessuno ha più parlato seriamente per un
pezzo. Fino ad oggi.
Le
parole di Tusk ci avvertono che esso è tornato ad essere una prospettiva reale,
a cui «dobbiamo abituarci mentalmente». Perché è chiaro che, se lo scontro
coinvolgerà Stati dotati armi nucleari, non ci si può illudere che esso possa
essere limitato a quelle convenzionali.
Non
appena uno dei contendenti si trovasse in serie difficoltà su questo terreno,
la tentazione di evitare la sconfitta ricorrendo ai suoi arsenali di missili a
testata atomica sarebbe irresistibile.
Tanto
più che ormai questi arsenali non contengono solo armi nucleari “strategiche”,
dispositivi a lungo raggio – anche intercontinentali – progettati per attaccare
direttamente il suolo nemico e distruggere città e infrastrutture, ma anche
quelle “tattiche”, pensate per un uso
più circoscritto, sul campo di battaglia.
In
realtà il ricorso di una delle due parti in guerra a queste ultime
provocherebbe l’immediata risposta simmetrica dell’altra parte, aprendo la
porta ad una escalation di cui è facile prevedere fin da ora l’esito.
Illusioni
e delusioni della crisi ucraina
Alla
base di questa emergenza, impensabile tre anni fa, c’è la crisi ucraina. Una
crisi che sembra mettere in discussione la salvezza dell’Europa e delle
democrazie occidentali. È, insomma, questione di vita o di morte.
Tusk
l’ha detto chiaramente: «Dobbiamo spendere il più possibile per acquistare
attrezzature e munizioni per l’Ucraina, perché (…) se non riusciremo a
sostenere l’Ucraina con attrezzature e munizioni sufficienti, se l’Ucraina
perderà, nessuno in Europa potrà sentirsi al sicuro».
È
questa, del resto, la prospettiva in cui la Nato – l’Alleanza militare nata del
dopoguerra per fronteggiare il Patto di Varsavia – aveva fin dall’inizio
ritrovato le ragioni della propria esistenza, che erano sembrate venire meno
con la caduta del muro di Berlino. Pur non facendo pare dell’Alleanza,
l’Ucraina era apparsa solo un grande test della scommessa di Putin di
ricostruire l’impero russo.
Una
scommessa a cui l’Occidente ha risposto mettendo in opera durissime sanzioni
nei confronti di Mosca e fornendo ampia assistenza militare al governo di Kiev, nella convinzione che un
ulteriore cedimento – dopo quello già verificatosi in occasione dell’annessione
russa della Crimea – avrebbe avuto come solo effetto quello che incoraggiare la
politica aggressiva del Cremlino.
All’inizio
l’andamento delle operazioni militari aveva fatto apparire la prospettiva di un
successo a portata di mano. Ma queste ottimistiche previsioni si sono rivelate
illusorie.
Quanto
alle sanzioni, l’economia russa le ha fronteggiate con un successo che nessuno
si aspettava, anche grazie al fatto che Mosca ha continuato a godere
dell’appoggio politico di molti paesi che non si sono riconosciuti nella linea
della Nato e che l’hanno aiutata a colmare i vuoti creati dalla rottura dei
rapporti commerciali con l’Occidente.
Ma
è soprattutto sul campo che lo scenario è progressivamente peggiorato.
L’esercito russo, dopo una partenza disastrosa, si è riorganizzato e sta
facendo inesorabilmente valere la sua superiorità numerica.
Anche
perché già da tempo, col fallimento della tanto attesa controffensiva
preannunciata da Kiev per l’estate scorsa, il conflitto si è trasformato in una
logorante guerra di posizione e, dopo la caotica ritirata dell’esercito ucraino
da Avdiivka, il rischio di un suo cedimento appare ogni giorno più palpabile.
Ma
bastano le armi?
Il
presidente Zelensky ne ha addossato la responsabilità ai governi occidentali,
accusandoli di non fornire all’Ucraina le armi necessarie. Ma, solo dal
febbraio 2022 all’ottobre 2023, il Congresso degli Stati Uniti ha stanziato, a
questo scopo, ben 113 miliardi di dollari.
Senza
contare il denaro e gli armamenti messi a disposizione, in questi due anni,
dagli altri paesi della NATO.
Altri
aiuti importanti sono in arrivo. Proprio poche settimane fa un finanziamento di
50 miliardi di euro è stato approvato dall’Unione Europea. Ma non basta ancora.
Il
problema è che l’esercito ucraino attualmente non manca solo di armi, ma sempre
più anche di forze fresche che lo reintegrino, dopo le ingenti perdite degli
ultimi mesi. Da qui l’ipotesi, avanzata dal presidente francese Macron, che gli
Stati membri della NATO inviino delle loro truppe a combattere contro i russi.
Ipotesi unanimemente respinta, ufficialmente, ma che ha la sua forza
nell’alternativa ammessa come indiscutibile da tutti i governi occidentali:
vittoria dell’Ucraina o fine dell’Europa, anzi dello stesso mondo libero.
Ma
è alle armi che bisogna affidare le speranze di
soluzione del conflitto? L’andamento della guerra sembra smentirlo per
il passato e renderlo improbabilissimo per il futuro.
È
davvero impossibile trovare una via che da una parte non sia la resa all’imperialismo del
dittatore russo, disposto a trattare, ma senza mettere in discussione le sue
conquiste, dall’altra non coincida con la posizione di Zelensky, per cui di
pace si potrà parlare solo dopo la schiacciante vittoria militare dell’Ucraina?
Da
sempre i negoziati per fermare una guerra si avviano prima che essa sia stata
vinta o persa da uno dei due. Di questa ovvia considerazione innanzi tutto la
NATO dovrebbe prendere atto, invece di continuare ad appiattirsi sulla
posizione del premier ucraino.
Solo
da qui si potrebbe partire per cerare di convincere sia quest’ultimo che
Putin a sedersi a un tavolo per
parlarsi. I margini per una trattativa non sono ampi, ma ci sono. È esplicita,
da parte del premier russo, la pretesa – a cui non si può ovviamente cedere –
di ricostituire l’impero dell’ex Unione sovietica.
Ma
non si può sottovalutare la sua preoccupazione per l’accerchiamento determinato
dall’adesione alla NATO, in questi anni, di numerosi paesi ex comunisti,
accerchiamento di cui l’Ucraina rischia di essere l’ultimo anello. Potrebbe
essere oggetto di negoziato l’ipotesi di una neutralità che, almeno dal punto
di vista militare, eviti alla Russia di trovarsi i missili della Nato ai propri
confini anche su questo fronte.
Quando,
nel 1962, Kennedy si oppose con estrema durezza all’installazione di missili
russi a Cuba, Kruscev comprese la necessità di fare un passo indietro. Poteva
essere l’inizio della terza guerra mondiale, ma fu invece l’avvio di una
progressiva distensione.
Un
altro problema su cui discutere potrebbe essere lo statuto del Donbass. Gli
accordi di Minsk ne prevedevano una ampia autonomia, che in realtà il governo
di Kiev non ha mai accordato.
Dopo
l’annessione russa tutto ora è più difficile. Ma uno statuto che, pur
riconoscendo la sovranità ucraina, accordi loro i privilegi che, per esempio,
spettano in Italia agli abitanti dell’Alto Adige, potrebbe interessare anche a
loro.
Si
dirà che ogni tentativo di confronto con un despota cinico è follia In questo
c’è del vero. Ma non è follia anche andare incontro al rischio concreto di una
catastrofe mondiale?
Oggi
si continua a ripetere che, se Putin non si ferma, di fronte a questa
prospettiva, per amore della democrazia non possiamo farlo neppure noi. Ma davvero comportarci in modo opposto e
simmetrico a un dittatore sanguinario è una linea degna delle nostre
democrazie?
www.tuttavia.eu
*Scrittore ed editorialista . Pastorale della Cultura - Arcidiocesi Palermo
Abituarsi mentalmente all'imminenza del conflitto, è un titolo che può suscitare atteggiamenti
RispondiEliminaopposti: il passare oltre, per non rattristarsi, sperando che non sia vero; o il bisogno di andare a leggere subito con quali ragionamenti un autore riflessivo e documentato come Savagnone è arrivato a sintetizzare la sua conclusione con questo titolo allarmistico. Già Bobbio, don MiIani e padre Balducci, tra i primi, avevano detto che nell'era atomica non si poteva più parlare di guerra giusta e di pace giusta, a meno che non ci fosse un'intesa di ferro fra tutte le potenze nucleari, per il non uso e anzi per il disarmo nucleare, come quando, dopo l'intesa di Helsinki (1975) negli anni '80 si riuscì per un breve periodo a fare, tra USA e URSS, una distruzione concordata di 2700 testate nucleari.La situazione attuale sembra aver chiusi tutti gli spiragli di intesa che consentano di trovare una via diversa dalla vittoria in guerra, perseguita da ciascuna delle potenze belligeranti, ridando attualità al detto di Tacito: fanno un deserto e lo chiamano pace.
Il titolo dell'articolo, che Savagnone introduce commentando una frase del presidente polacco Donald
Tusk e l'incerto dibattito che ne è seguito, ha lo scopo di riaprire uno degli spiragli chiusi, comparando l'ipotesi della catastrofe bellica, con probabile conclusione nucleare, con un tentativo disperato (spes
contra spem) di aprire dialoghi di pace o di minor follia.
Tusk