LA SPERANZA
CI RENDE ALTRUISTI
- -di Vito
Mancuso
È
possibile oggi sperare? La situazione è tale che la scritta posta da Dante
sulla porta dell’inferno, «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate», verrebbe
collocata da molti all’interno dei reparti di ostetricia quale benvenuto ai
nuovi arrivati.
Siamo
così in preda all’ansia che avvertiamo il mondo come una nave alla deriva
carica di disperazione destinata presto a sprofondare nei gorghi del nulla.
Dominati da questi neri sentimenti, è logico che il nostro cuore si restringa e
che noi ci rapportiamo agli altri solo in funzione del nostro interesse, lo
sguardo avido, freddo, calcolatore: ritorniamo allo stato di
raccoglitori-cacciatori, ma senza nessuna meraviglia originaria. Io credo,
però, che il compito del pensiero responsabile sia di opporsi a questa
disperazione e per quanto mi riguarda nei reparti di ostetricia quale frase di
benvenuto per i nuovi arrivati appenderei quest’altra frase di Dante: «Se tu
segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto». Occorre tornare a
coltivare speranza e ad avere fiducia nella navigazione nella vita.
È
un atteggiamento razionale? No, non lo è. Come tutte le cose esistenzialmente
importanti della vita, anche questa scelta a favore della speranza non è
“razionale”. Lo stesso vale per l’amore, l’amicizia, la passione, l’entusiasmo,
il desiderio, l’ispirazione: nessuno di questi ambiti vive di sola ragione.
Irrazionale, però, non vuol dire necessariamente falso, perché la verità non
coincide sempre con ciò che è razionale, così da poter sempre essere afferrata
e definita dalla ragione. È piuttosto l’esattezza a coincidere con il
razionale, ma la verità è più dell’esattezza: è anche forza, energia, impeto,
passione. È questa condizione onniavvolgente della mente e del cuore a meritare
il nome di verità, la quale, quindi, ha strettamente a che fare con la speranza.
Ha scritto Adorno nei Minima moralia: «Senza speranza l’idea della verità
sarebbe difficilmente concepibile».
Di
solito si ritiene che la speranza sia un atteggiamento esclusivamente
cristiano, ma non è vero. Gli antichi romani veneravano la dea Spes, le
dedicavano templi e ne celebravano la festa il 1° agosto. Per questo Kant
collocò la speranza tra le questioni decisive della vita: «Ogni interesse della
mia ragione si concentra nelle tre domande che seguono: 1. Che cosa posso
sapere? 2. Che cosa debbo fare? 3. Che cosa mi è lecito sperare?». L’uso della
prima persona singolare da parte del filosofo segnala che qui non sono in gioco
disquisizioni accademiche, ma l’esistenza concreta. Nella nostra epoca il
filosofo marxista dissidente Ernst Bloch ha scritto Il principio speranza, di
Adorno ho già detto e di molti altri non cristiani potrei dire. Quanto al
cristianesimo, esso considera la speranza una virtù teologale, altrettanto
fondamentale quanto la fede e la carità.
Ma
è soprattutto una celebre pagina di Eschilo a sottolineare l’importanza della
speranza per tutti gli esseri umani: Prometeo è incatenato per ordine di Zeus,
un’aquila gli mangia il fegato che di notte gli ricresce per poi essere
nuovamente divorato, e una corifea gli chiede il motivo di questa terribile
condizione. Prometeo le risponde: «Gli uomini avevano sempre, fissa, davanti
agli occhi, la morte: io ho fatto cessare quello sguardo». Domanda: «E quale
rimedio hai trovato per questo male?». Risposta: «Ho fatto abitare dentro di
loro le cieche speranze». E conclude: «E poi procurai a loro il fuoco». Prima
del fuoco Prometeo dà agli uomini le speranze, che sono dette “cieche” non
perché fatue, ma perché la speranza per definizione non vede e non sa come
andrà a finire e per questo, appunto, spera. Ma per quanto cieca, essa è forte
e conferisce forza, come si capisce dal fatto che lo stesso utilizzo del fuoco
ne richiede la presenza. Non a caso Aristotele definiva la speranza «il sogno
di un uomo sveglio».
In
cosa avere speranza? Io sono convinto che la stella seguendo la quale possiamo
ritrovare speranza sia l’amore. È l’amore la sorgente della speranza nella
vita. Ma che cos’è l’amore? Da sentimento privato occorre, molto più
profondamente, considerarlo logica cosmica. Novant’anni fa il gesuita francese
Pierre Teilhard de Chardin, esiliato in Cina dalla Chiesa a causa delle sue
idee sul peccato originale, a un amico che gli aveva chiesto di esprimere in
sintesi il suo credo, rispose così: «Se a seguito di un qualche capovolgimento
interiore, io dovessi perdere la mia fede in Cristo, la mia fede in un Dio
personale, la mia fede nello Spirito, a me sembra che io continuerei
invincibilmente a credere nel Mondo. Il Mondo (il valore, l’infallibilità e la
bontà del Mondo), ecco in ultima analisi la prima, l’ultima e la sola cosa in
cui io credo. È di questa fede che io vivo. Ed è a questa fede che io, lo
sento, nell’ora della morte, oltrepassando tutti i dubbi, mi abbandonerò».
La
domanda sull’essenza dell’amore trova qui la sua risposta: l’amore è la logica
relazionale che ha reso e che rende possibile il mondo, dapprima il formarsi
degli elementi e del pianeta, poi il sorgere della vita, dell’intelligenza,
della libertà, infine di quella libertà che si dedica gratuitamente a un’altra
libertà e così raggiunge la pienezza dell’amore. L’amore esprime la logica
della relazione che fa sì che le cose esistano, dato che non esiste nulla che
non sia ontologicamente un sistema e in quanto tale risultanza di relazione e
di armonia.
L’esito
più alto del processo cosmico in cui siamo inseriti si chiama mente, pura
energia di consapevolezza, e si chiama anche cuore, pura energia operativa che
riproduce la medesima dinamica di armonia all’origine dell’esistenza. Mente +
cuore: questo è il risultato più alto del processo cosmico. Questo possiamo
essere noi: una mente che sa e un cuore che ama. Questo va insegnato ai bambini
e ripetuto ai giovani, e mai dimenticato fino all’ultimo giorno dell’esistenza.
La sorgente della speranza è la consapevolezza della (possibile) ricchezza
della nostra umanità.
Questa
forza cosmica ci riguarda in quanto oggetto, perché ne siamo il risultato, e ci
riguarda in quanto soggetto, perché possiamo a nostra volta esercitarla. Essa è
la dimensione generatrice dell’essere, che gli antichi greci chiamavano Logos e
l’ebraismo Hochmà, seguendo la quale ognuno di noi da caos può diventare mondo.
Lo può diventare anche nel senso dell’aggettivo, mondo cioè nel senso di
pulito. Inserito in questo processo, ognuno di noi può essere mondo: lo può
essere nel senso del sostantivo che rimanda a organizzazione e nel senso
dell’aggettivo che rimanda a pulizia. Il senso dell’esistere viene così
compendiato dal termine greco per mondo, “cosmo”, da cui cosmesi: il senso
della vita è fare esperienza di bellezza, fisica e morale. Si può ragionevolmente
sperare in tutto ciò? Si può. Anzi, oggi si deve, e si deve insegnare a farlo,
se non vogliamo naufragare nel nichilismo.
I
problemi di oggi sono tali da sfiduciare chiunque eserciti il raziocinio: la
guerra mondiale sempre più incombente il cambiamento climatico sempre più
devastante, le migrazioni sempre più massicce, la tecnologia sempre più padrona
delle anime, e si potrebbe continuare. Ma, annotava Hannah Arendt, «negli
uomini esiste un’inclinazione, forse un bisogno, a pensare al di là dei limiti
della conoscenza». È a causa di ciò che si origina la speranza, da sempre
connessa all’essenza del pensiero umano. Per Isidoro di Siviglia, un dotto del
VII secolo esperto di etimologie, il termine latino “spes” viene da “pes”,
piede; fondata o no, l’etimologia è suggestiva: la speranza è ciò che fa
camminare nella vita. Senza speranza non si cammina. La speranza, infatti, è performativa:
occorre sperare per realizzare. Lo vide già Eraclito: «Se uno non spera, non
potrà trovare l’insperabile». Speranza e fuoco, fiducia e tecnica, sapienza e
scienza, devono tornare a essere strettamente connesse nella società e ancor
prima nella singola esistenza. Quanto a tecnica, non siamo mai stati così
forti. Se ritroveremo una speranza alla sua altezza, forse riusciremo a
rivedere la nostra stella e a «non fallire a glorioso porto».
La Stampa
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