“Stop
a lezioni frontali, compiti a casa, studio mnemonico.
La scuola italiana può
cambiare e vi dico come”.
INTERVISTA
a Daniele Novara di
Vincenzo Brancatisano
“Cambiare
la scuola si può”. Ne è convinto Daniele Novara, pedagogista e fondatore, del
CPPP, il Centro Psicopedagogico per l’educazione. “Da almeno 100 anni – si
spiega nella presentazione del suo libro intitolato “Cambiare la scuola si può.
Un nuovo metodo per insegnanti e genitori, per un’educazione finalmente
efficace” – la scuola italiana è impostata allo stesso modo – mentre riforme e
maquillage educativi, come la digitalizzazione, fingono che le cose stiano
cambiando”.
In
realtà “nulla si muove: lezioni frontali, compiti a casa, studio mnemonico
continuano a essere al centro della didattica, spesso senza motivazioni
pedagogiche, e i nostri figli imparano con lo stesso metodo delle generazioni
precedenti, come per inerzia. In questo libro, Novara demolisce, “uno per uno,
i falsi miti dell’istruzione e propone un metodo maieutico che, in alternativa
alle pratiche antiquate che ancora governano la grande e complessa macchina
dell’istituzione scolastica, pone al centro la scuola come comunità di
apprendimento: una comunità dove si impara dai compagni, si fanno domande, si
sperimenta in laboratorio, si sbaglia e ci si diverte, e in cui l’insegnante
agisce come un regista, lasciando il protagonismo ai suoi allievi”. libro incita
genitori e insegnanti “a cercare nuove motivazioni, fornendo intanto
alternative concrete e attuabili per ritrovare il senso autentico della scuola.
Con un po’ di coraggio, entusiasmo e voglia di uscire dai soliti schemi”.
Questo
“non è un libro di istruzioni per costruirsi la propria scuola ideale – precisa
Daniele Novara, che intanto annuncia il convegno del prossimo 20 aprile
intitolato La scuola non è una gara – La scuola ideale non esiste. Il mio scopo
è aiutare insegnanti e genitori a cogliere la ricchezza e le potenzialità della
scuola di oggi che, anche fra gli addetti ai lavori, è spesso considerata
un’istituzione sostanzialmente irrecuperabile.”
“Nonostante
i tanti sforzi per cambiare, modificarsi e aggiornarsi – spiegano gli
organizzatori del convegno – la scuola appare ancora fortemente dominata dalla
dimensione del controllo e del giudizio, che ne pervade le modalità procedurali
e didattiche ostacolando una motivazione profonda negli alunni e nelle famiglie
verso la necessità della formazione e dell’apprendimento. Controllo e giudizio
la fanno ancora da padroni con modalità di valutazione basate prevalentemente
sui voti numerici, con un’idea di selezione che corrisponde spesso alla
denuncia fatta dalla scuola di Barbiana ed è ben poco legata a fattori di
merito in senso stretto. Non solo un evento, un’esperienza indimenticabile. Una
scuola, soprattutto nelle secondarie di primo e secondo grado, ancora
fortemente basata su metodi frontali che implicano un ascolto sostanzialmente
passivo da parte degli alunni. Il giudizio diventa l’anticamera di una scuola
vista come gara, come competizione tra chi arriva primo e chi arriva secondo.
Gli indici scolastici italiani, che rivelano tassi di dispersione altissimi, il
numero più basso di laureati in Europa e una percentuale considerevole di Neet
– ragazzi che non studiano e non lavorano – oltre a un’incidenza preoccupante
di neuro certificazioni, lasciano intendere senza mezzi termini che questo
modello è arrivato al capolinea senza più avere alcuna possibilità di
rispondere alle necessità di una società complessa e avanzata come quella
italiana”.
La
focalizzazione di Daniele Novara è sulla “situazione-stimolo”, un metodo che il
pedagogista descrive come fondamentale per contrastare l’approccio tradizionale
dell’insegnamento, troppo spesso incentrato su lezioni frontali. Questo metodo
si propone di scardinare l’idea che imparare sia sinonimo di ascoltare
passivamente. Novara mette in luce come i tempi di attenzione degli studenti
siano limitati e come la predisposizione alla distrazione sia un elemento
naturale. Il suo approccio rivoluzionario – “non rivoluzionario, ma
efficacemente pedagogico senz’altro”, precisa lui – mira a trasformare la
scuola in un laboratorio di esperienze, dove gli alunni diventano protagonisti
attivi del loro apprendimento. La “situazione-stimolo” diventa così un
catalizzatore per lo sviluppo di domande e ricerche da parte degli studenti,
spaziando da argomenti scientifici a quelli letterari e cronachistici. Novara
critica l’approccio didattico basato su domande di controllo, come quelle
relative ai dettagli storici o geografici. Invece, propone l’uso di domande
maieutiche, che stimolano la riflessione e l’esplorazione personale. Questo
tipo di domande apre spazi per un apprendimento più profondo, basato su
esperienze e interessi personali.
Contrariamente
ai tradizionali esercizi estivi, Novara propone i “compiti di realtà” come un
metodo più efficace di apprendimento. Questi compiti includono attività come
visitare mostre, guardare film all’aperto, esplorare la natura, leggere libri,
viaggiare, o imparare nuove lingue e abilità. Tali esperienze aiutano gli
studenti a imparare in modo applicativo e significativo, facilitando
l’acquisizione di competenze per la vita.
L’obiettivo
principale del metodo di Novara non è che lo studente sia in grado di ripetere
meccanicamente le informazioni, ma che sappia applicarle nella vita reale. Ad
esempio, piuttosto che memorizzare dettagli sulla lingua latina, sarebbe più
utile che uno studente possa leggere e comprendere un’epigrafe latina in una
chiesa.
Professor
Daniele Novara, in che cosa consistono le domande maieutiche?
“Per
antitesi si tratta di domande contrarie alle domande di controllo con le quali
si cerca di verificare che il proprio interlocutore conosca quel che ci si
aspetta”.
C’è
una precisa allusione alla scuola
“Sono
domande molto legate alla scuola tradizionale dove il docente in forma
illegittima pone una domanda su una questione che conosce già e vuole che
l’alunno gli dia proprio la risposta che conosce già facendo una cosa che non
ha senso: nessuno chiederebbe al marito come si chiama, perché lo sa già”
E
invece?
“E
invece a scuola questa idea che gli alunni debbano conformare le proprie
conoscenze a quelle del docente è molto diffusa. Si crea in questo modo una
scuola petulante e prevedibile e con scarsa curiosità. In realtà il docente
dovrebbe essere un regista del processo di apprendimento, un regista maieutico,
in modo da poter scoprire qualcosa di inedito, qualcosa di nuovo. Per gli
alunni e per lui. Il docente ha la padronanza dei processi di apprendimento ma
non ha la certezza delle risposte. La padronanza maieutica conduce i propri
alunni alla scoperta inedita, alla scoperta quasi sempre innovativa non solo in
ambito storico o scientifico ma in qualsiasi altro ambito. Utilizza le
discipline come mezzo e non come finalità”.
Lei
sostiene che le domande di questo tipo sono domande generative. In che senso?
“Nel
senso che le domande maieutiche generano processi di apprendimento. Non è
necessariamente la ricerca della verità ma più una metafora ostetrica”
È
il So di non sapere di Socrate?
“Socrate
cerca la verità, noi no. Noi cerchiamo di far nascere nuove scoperte di
apprendimento ma a prescindere dalla verità. E’ un metodo che si applica in
tutto il processo di apprendimento, con i bambini al nido, alla scuola
dell’infanzia. Ad esempio, in primavera o agli inizia dell’estate durante le
esplorazioni in giardino si cerca di scoprire gli indizi della nuova stagione
fotografandoli e creando una storia. Qui nascono delle domande che non hanno
una risposta esatta. Ogni giardino ha i propri indizi. Però ci sono anche le
domande su questioni controverse”.
Per
esempio?
“Per
esempio: è necessario che ogni rivoluzione abbia dei morti? Questa è una
questione controversa che può generare una, tra i ragazzini che hanno più di 15
anni una ricerca. Si pensi all’identità sessuale: anche in questo caso si
generano molte domande. Una delle questioni più controverse è se un bambino di
10 anni debba assumere il farmaco che ritarda la pubertà in attesa di decidere
un giorno se fare o meno la transizione sessuale. Io su questo tema ho la mia
risposta ma è interessante attivare un processo di ricerca. E ancora: che senso
ha portare degli esseri umani su Marte? Sono domande di ricerca non
necessariamente filosofiche. Nel mio libro, Cambiare la scuola si può, racconto
di un laboratorio in una chiesa medievale di Piacenza nella cui cripta è stato
ritrovato un mosaico con i segni dello Zodiaco. È una cosa strana perché è una
chiesa paleocristiana. La domanda maieutica che vi scaturisce è: che cosa
c’entra un segno zodiacale con un’immagine precristiana con una chiesa
paleocristiana? È stato molto interessante perché vicino alla chiesa c’era la
biblioteca e si è scoperto con una ricerca che fino all’anno 1000 la
commistione tra simbologia cristiana e simbologia precristiana era normale o
comunque tollerata. Solo dopo avviene una cesura su questa commistione. Questo
è un modo per fare storia dell’arte facendo domande generative invece che
andare nelle chiese romaniche e ascoltare uno spiegone interminabile sul
rosone, che diventa di una noia interminabile e privo di interesse. Quest’ultimo
è un atto mnemonico, un atto, cioè, che attiva la memoria e non
l’apprendimento. L’apprendimento è applicazione, e quando fai un’attività di
ricerca o di laboratorio di ricerca ti resta tutta la vita, perché l’hai
attraversata. Se invece l’hai ascoltata come una lezione, scivola via subito e
al massimo la usi per un’interrogazione più o meno programmata”.
La
realtà scolastica – si ripete sempre con tono non lusinghiero – è dominata
dalla lezione frontale
“La
lectio, la lezione fontale, è un’invenzione medievale perché all’epoca non
c’erano ancora i libri. Fino al 1400 si leggevano i manoscritti, quindi è un
dispositivo molto arcaico. Poi arriva Gutenberg e da allora non c’è più bisogno
della lectio: si passa allo studio e all’uso dei libri come strumento di studio
e di conoscenza. Invece qualcuno è ancora affezionato e innamorato della
lectio”
Perché
è così critico nei confronti delle lezioni tradizionali?
“Sono
critico perché uccidono la motivazione e l’interesse degli alunni. L’unica cosa
che le lezioni hanno prodotto è lo sguardo catatonico degli alunni: ti guardo,
caro prof, senza ascoltarti ma tu incautamente pensi che io ti stia ascoltando
e gongoli ritenendo che la classe ti stia ascoltando. Invece non ti ascoltano.
Questo l’ho scoperto parlando con i ragazzi. L’apprendimento è qualcosa di
fattuale è qualcosa che si fa, che ha una necessità operativa. Per esempio,
dovremmo andare in una chiesa e chiederci quali sono i misteri di questa chiesa
e poi su questi misteri dovremmo provare a chiederci qualcosa sulla sua storia
con domande maieutiche. Il fatto è che la scuola tradizionale confonde le
informazioni con l’apprendimento e questo è assurdo da tutti i punti di vista.
Avere informazioni non significa avere competenze applicative. Io ad esempio
ricordo il mio inglese grammaticale, di quando ero ragazzo, ma la prima volta
che sono andato in Inghilterra è stata una cosa paurosa. Però, se non ti fanno parlare…
Cosa faceva Don Milani? Mandava gli alunni nei ristoranti inglesi, l’unico modo
per imparare la lingua è la full immersion. Temo però che oggi lo
arresterebbero…”.
Se
si riferisce ai tanti vincoli e tutele, certo sembra di vivere ormai in una
società quasi sterilizzata
“Ha
detto bene, è stata sterilizzata un’intera società. Io da ragazzo ho sempre
lavorato con i miei genitori. A volte mio padre esagerava, certo. Ma oggi è
difficile anche fare una gita scolastica”.
Lei
sostiene anche la didattica cooperativa, basata sull’imitazione reciproca
“A
scuola abbiamo un elemento importante, l’elemento sociale. L’imitazione è molto
importante. La pedagogia moderna nasce quando Pestalozzi sperimenta il metodo
del mutuo insegnamento perché era da solo con una masnada di ragazzini. Lì
nasce la pedagogia moderna: non è isolando gli alunni tra di loro, ma solo
aiutandosi, condividendo, mettendosi in un atteggiamento di gruppo e di
solidarietà reciproca otteniamo un dato scientifico e cioè che a scuola si
impara dai compagni e non dall’insegnante. L’insegnante è un regista. I ragazzi
collaborando sviluppano processi di apprendimento e trovo abbastanza
terroristica l’idea del non lasciarli copiare tra di loro”.
Lei
è per lasciar copiare gli alunni?
“L’imitazione
è alla base di tutto. Il Sapiens la spunta sul Neanderthal perché sa imitare,
sa mantenere la memoria delle proprie scoperte. Lo supera perché è più
cooperativo e ormai su questo le ricerche sono abbastanza allineate. I Premi
Nobel, se ci pensa, ultimamente si danno in condivisione e questo avviene
questo proprio perché la scoperta non appartiene a un elemento individuale, ma
ha un’appartenenza comune collettanea e questo deve avvenire anche nella
scuola. La scuola deve privilegiare il lavoro comune. Più il lavoro è comune
più la scuola funziona”.
Lei
parla di situazioni stimolo. Di che cosa si tratta?
“Io
non uso lo spiegone iniziale ma uso la situazione stimolo, che può essere il
mostrare una foto con una donna con il burqa. E’ un esempio ma può essere anche
il mosaico zodiacale. Ci dev’essere uno start che provochi una reazione nella
logica di sviluppare domande donna con il burqa, o un’immagine di distruzione
della guerra, il fungo atomico o un brano letterario: l’importante è evitare lo
spiegone. Dalla situazione stimolo nascono le domande. Nel mio libro racconto
di una maestra che porta un nido vuoto e scopre che tra i suoi alunni ci sono
esperti di ornitologia perché i genitori lo sono e allora i bambini spiegano ad
esempio che quel nido è di un certo uccello, la cinciarella, e portano tante
altre informazioni. La maestra rimane un po’ spaesata perché pensava che i
bambini non sapessero quelle cose ma a quel punto sono loro a instradarla con
delle storie. Lo stimolo non dev’essere mai legato ai presupposti del docente,
né alle sue aspettative, ma alle capacità dei bambini. I bambini inventano una
storia meravigliosa. Ed è questo il bello di fare una scuola da vivere come una
esperienza nuova ogni giorno”.
E
la matematica, come si pone lo studio della matematica, questa scienza esatta,
con le situazioni stimolo?
“Guardi,
io in questo momento vedo passare tante macchine. Si può fare matematica, ad
esempio, calcolando quel che si può calcolare osservando la situazione: si può
misurare l’inquinamento prodotto o anche calcolare il traffico in un orario
morto. Sono attività facilissime perché la matematica è di per sé legata alla
realtà. Io gli algoritmi li studiavo allo scientifico. Se ci avessero detto che
l’algoritmo sarebbe servito per un computer e per la tecnologia, allora sarebbe
stato più facile studiare gli algoritmi. Tornando al traffico, per esempio
potrei pensare di programmare il semaforo in modo che si creino meno code
possibili e meno inquinamento: è un bellissimo esempio. Io lascerei fare ai
ragazzi, come una sfida, e loro si attivano”.
Il
docente dovrebbe insomma partire dalle risorse che ha davanti a sé e
stimolarle. E’ così?
“Non
bisogna riempire gli alunni come delle oche, vanno piuttosto tirate fuori le
risorse, appunto. Le scuole si occupano di bambini che hanno una plasticità
straordinaria e anche di adolescenti che hanno grandi capacità di
memorizzazione e di applicazione delle conoscenze acquisite, il loro cervello è
particolarmente operativo e cerca di capire subito l’opportunismo di una
conoscenza. E invece il più delle volte si preferisce che mettano una crocetta.
Trovo demoniache le crocette. E’ proprio un insulto all’intelligenza dei nostri
alunni”.
Che
cos’è la valutazione evolutiva? Quanto sono importanti gli errori nei processi
di apprendimento?
“Ne
parlo nel mio libro. La valutazione evolutiva si fonda sulla necessità di
valutare i processi e non gli errori, nel senso semplice che sbagliare è
necessario per poter imparare e quindi se crei una scuola in cui domina il
terrore di sbagliare blocchi il desiderio di apprendimento. Si impara
sbagliando, la scienza è basata su questo. La scoperta scientifica dev’essere
confutabile per essere tale: la scienza ci dice che l’errore fa parte della
scoperta ma è possibile che la scuola sia lontana da questo. L’errore è uno
strumento di autoregolazione. I bambini sono capaci in questo, ma se tu
giudichi e condanni l’errore si blocca il flusso di apprendimento”.
Una
scuola da cambiare, dice lei. Come?
“Utilizzando
quel che c’è già. Le norme che ci sono già. Tutti han detto si può fare. Il mio
libro dimostra come tutto quello che dico è già contenuto nei documenti
ministeriali. Magari loro parlano di valutazione formativa. Ma il concetto è
quello: non cristallizzare la valutazione sulla performance ma guardare il
percorso”.
Bisogna
riconoscere che le nuove generazioni di insegnanti sono più formate su questo
tipo di impostazione
È
vero. E noi dobbiamo sostenere questi insegnanti perché il Ministero ha la
strana idea di tornare indietro sulla valutazione alla scuola primaria. E
dobbiamo sostenere anche le scuole senza voto. Il nostro convegno nasce proprio
per sostenere le nuove scuole e i nuovi approcci con i loro alunni. Purtroppo,
il ministro fa questo azzardo di volere ripristinare i giudizi alla primaria.
Io spero che con la legge sull’autonomia ogni istituto si emancipi dalle
istanze dirigistiche che hanno rovinato la scuola”.
C’è
un eccesso di centralismo secondo lei?
“Sì,
c’è un eccesso nazionalistico, siamo una scuola centrata su Roma. E’ difficile
trovarla in Francia e in altri Paesi. Quando cerco una scuola tedesca, mi
rispondono che dipende dai Land, se la cerco in Svizzera: dipende dai Cantoni,
anche in Francia e in Olanda è così. Invece in Italia è tutto centralizzato.
Pensare a un’azienda con un capo che dirige da Roma un milione di persone è
ridicolo. L’autonomia è importante: può consentire progetti, scelte, processi
di assunzione più virtuosi, si può permettere un uso dell’orario scolastico
finalmente emancipato dal mito dell’ora di lezione. Già adesso gli insegnanti
lavorano ben oltre le 18 ore settimanali, o le 24 alla primaria. Vogliamo
finalmente uscire da questo incubo gentiliano secondo cui il lavoro dell’insegnante
si esaurisce nell’ora di lezione come si legge nel contratto? Magari si portano
il lavoro a casa. Basterebbe riconoscere che un docente lavora almeno 30 ore e
stabilire di conseguenza che dev’essere essere pagato per 30 ore perché è
lavoro di prestigio. È falso che si lavori 18 o 24 ore, ma questo serve per
cristallizzare l’idea della materia e della lezione. E della campanella”.
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