Il
termine jobel risuona soprattutto in quel testo, ma si trova anche nel capitolo
27. L’antica versione greca della Bibbia, detta tradizionalmente dei Settanta,
trovandosi di fronte a questo vocabolo — jobel — anziché tradurlo col ricalco
«giubileo», anno giubilare, l’ha tradotto secondo un canone interpretativo:
áphesis, che in greco significa «remissione», «liberazione» o anche «perdono».
Questo vocabolo sarà molto importante per Gesù perché — come vedremo — egli non
parla di giubileo ma usa nel greco di Luca proprio il termine áphesis. Anzi,
nel Nuovo Testamento non c’è mai la parola «giubileo». I Settanta, questi
antichi traduttori della Bibbia sono, dunque, passati da un dato squisitamente
cultuale sacrale (la celebrazione dell’anno giubilare che parte con il suono
del corno dell’ariete in una data ben precisa, in connessione con la solennità
del Kippur, cioè dell’Espiazione del peccato di Israele) a un concetto etico,
morale, esistenziale: la remissione dei debiti, la liberazione degli schiavi
(che era il contenuto del giubileo). Il tema del giubileo è stato, quindi,
spostato dal linguaggio e dall’atto liturgico al linguaggio e all’esperienza
etico-sociale. Questo elemento è rilevante anche oggi per non ridurre il
giubileo cristiano solo alla pur basilare celebrazione o ritualità ma per
trasformarlo in paradigma di vita cristiana. Alcuni studiosi hanno pensato che
il termine jobel non sia da connettere al suono del corno d’ariete ma alla
radice ebraica jabal, che significa anche «rinviare, restituire, mandar via».
L’interpretazione appare però un po’ forzata perché quel «mandar via» non
indica necessariamente la liberazione, non ha il respiro del citato termine
greco áphesis, ripreso con una particolare sottolineatura proprio da Gesù.
Altri tentativi di tipo filologico hanno offerto diverse spiegazioni, ma va
riconosciuto che l’elemento di partenza è un dato rituale. Esso suppone il
suono del corno d’ariete che scandiva l’inizio di un anno particolare, nel
decimo giorno del mese autunnale di Tishri, corrispondente circa al nostro
settembre-ottobre, mese in cui cadeva anche il Kippur. È interessante notare
che nella lingua fenicia, per certi versi la sorella maggiore dell’ebraico, la
stessa radice, ossia le tre consonanti che sono alla base della parola jobel,
cioè jbl, indica il «capro», una componente significativa proprio del Kippur.
Non vi è quindi dubbio che il suono del corno, il suo segnare un tempo sacrale,
sia alla base del termine «giubileo», ma non va dimenticata la tensione che
porta verso l’altro polo, quello della traduzione greca: non si tratta solo di
un rito, è un elemento che deve incidere profondamente nell’esistenza di un
popolo. Dopo questa premessa, cerchiamo di raccogliere e illustrare alcuni temi
fondamentali giubilari che appaiono per certi versi intrecciati tra loro.
Il
riposo della terra
Secondo
il testo biblico il primo tema piuttosto originale è il «riposo» della terra.
Stando allo schema sabbatico, con cui era misurato il tempo all’interno della
tradizione biblica, già ogni sette anni si faceva riposare la terra. Secondo le
indicazioni di Levitico, 25, la terra doveva riposare anche nell’anno
giubilare, che seguiva sette settimane di anni, cioè nel cinquantesimo.
L’impegno sembrerebbe piuttosto improponibile e di ardua applicazione. È
possibile far riposare la terra per un anno, soprattutto in una civiltà come
quella dell’antico Vicino Oriente, dove le esigenze erano molto minori delle
nostre e la vita molto più frugale. Ma far riposare la terra per due anni di
seguito (il quarantanovesimo sabbatico e il cinquantesimo giubilare), in un’economia
sostanzialmente di tipo agricolo, avrebbe messo in crisi la stessa
sopravvivenza. Quindi, o l’anno giubilare veniva fatto coincidere col settimo
anno della settima settimana, oppure il giubileo più che un’attuazione concreta
era soprattutto un auspicio, un segno utopico, uno sguardo oltre il consueto
modo di vivere. Far riposare la terra vuol dire non seminarla e non
raccoglierne i frutti. Questa scelta, da un lato, fa scoprire che la terra è un
dono, perché, sia pure in minor quantità, qualcosa essa riesce comunque a
produrre. I suoi frutti saranno più striminziti, ma non mancheranno. Si
ricorderebbe, così, che i cicli della natura non dipendono solo dal lavoro
dell’uomo ma anche dal Creatore. È la memoria di un altro primato, quello
trascendente. Dall’altro lato, in questo periodo si cerca di superare la
proprietà privata e tribale perché ognuno poteva prendere dalla terra ciò che
essa offriva, senza rispettare le frontiere e i recinti del catasto. È, in
pratica, il riconoscimento della destinazione universale dei beni per cui tutto
è disponibile per tutti. Questo tema può acquisire un grande significato anche
nell’odierna società. In essa l’umanità può essere rappresentata da una tavola
imbandita nella quale ci sono alcuni, da una parte, che hanno un cumulo
esagerato di beni, e il resto dei popoli dall’altra, una moltitudine che sta a
guardare e può godere solo degli scarti e delle briciole. Non c’è più l’idea
della disponibilità universale dei beni, antecedente a ogni proprietà privata.
In questa luce è suggestivo rimandare alle riflessioni proposte al riguardo
dall’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco.
La
remissione dei debiti e la restituzione delle terre
Il
secondo tema, altrettanto originale, è la remissione dei debiti e la
restituzione in pristinum (al primitivo proprietario) dei terreni alienati e
venduti. Nella visione biblica, la terra era un possesso non del singolo ma
delle tribù e delle famiglie claniche, ciascuna delle quali aveva un suo
territorio particolare. Esso era stato donato durante la famosa ripartizione
della terra dopo la conquista di Canaan, come si legge nel libro di Giosuè (cc.
13-21). Tutte le volte che, per varie ragioni, il clan perdeva la propria
terra, si veniva meno, in un certo senso, alla divisione voluta da Dio. Col
giubileo, ossia ogni mezzo secolo, si ricostruiva la mappa della terra
promessa, così come l’aveva voluta Dio, attraverso il dono divino della
divisione del paese tra le tribù d’Israele. Tutti allora avevano ricevuto la
loro porzione, tranne la tribù di Levi, che viveva con i contributi offerti
dalle altre tribù per il suo servizio al tempio. Per i debiti si verificava
sostanzialmente la stessa cosa. All’inizio dell’arco temporale giubilare tutti
si ritrovavano uguali, con gli stessi pochi beni. Successivamente, però, alcuni
avevano perso i loro beni per disgrazia, altri per pigrizia o per incapacità.
Dopo cinquant’anni si decideva di ritornare al punto di partenza, facendo sì
che tutti si ritrovassero a un livello di assoluta, ideale, utopica comunione
dei beni nella parità. Tutto diventava ancora comune e veniva distribuito
secondo le varie tribù. Ogni famiglia otteneva, così, di nuovo i suoi beni, le
sue terre e tutti i suoi figli. In un appello del libro del Deuteronomio, tale
rinnovamento sociale viene continuamente proposto all’ebreo perché lo consideri
come il modello sociale da vivere, pur nella consapevolezza che si tratti di un
progetto ideale mai raggiungibile pienamente. Infatti, nel libro del
Deuteronomio si legge: «Non vi sia in mezzo a voi alcun bisognoso [...] e se vi
sarà in mezzo a te qualche tuo fratello bisognoso, non indurire il tuo cuore e
non chiudere la tua mano» (15, 4.7). Una scelta che non è soltanto di adesione
ideale alla fraternità e alla solidarietà ma che implica la concretezza della
«mano», cioè l’azione, l’impegno sociale concreto. Si ricordi il profilo della
comunità cristiana di Gerusalemme nella quale — come ribadisce a più riprese
Luca negli Atti negli apostoli — «nessuno diceva sua proprietà ciò che gli
apparteneva, ma ogni cosa era per loro comune» (4, 32).
La
liberazione degli schiavi
Il
terzo tema strutturale al giubileo biblico è altrettanto incisivo e
impegnativo. Quello giubilare era l’anno della remissione non solo dei debiti
ma anche della liberazione degli schiavi. Il libro di Ezechiele (46, 17) parla
del giubileo come dell’anno dell’affrancamento, del riscatto, l’anno in cui
coloro che erano andati a servizio per sopravvivere alla miseria ritornavano
alle loro case, con i debiti rimessi e con la riappropriazione della loro terra
e della loro libertà. Si tornava a essere il popolo dell’esodo, il popolo
libero dalla cappa di piombo della schiavitù e delle discriminazioni. Anche in
questo caso si trattava di una proposta ideale, destinata a creare una comunità
che non avesse più al suo interno legami di prevaricazione degli uni sugli
altri, non avesse più ceppi ai piedi e potesse camminare unita verso una meta.
È evidente come la sua attualità valga anche per la nostra storia nella quale
si registra un numero sterminato di forme di schiavitù: le tossicodipendenze,
la tratta delle prostitute, lo sfruttamento minorile a livello lavorativo o
sessuale e pedopornografico e tante altre feroci forme di soggezione. Si può
pensare inoltre a tutti quei popoli che sono praticamente schiavi delle
superpotenze perché con i loro debiti non sono assolutamente in grado di essere
arbitri del proprio destino; l’attività di certe multinazionali è spesso una
vera forma di tirannide economica che opprime alcune nazioni e società. Il
risuonare della parola giubilare della libertà ha quindi un grande significato
anche nel nostro tempo, e lo ha considerando pure il richiamo alla liberazione
di tipo interiore. Si può, infatti, essere liberi esteriormente ma internamente
schiavi attraverso certe catene invisibili, quali a esempio i condizionamenti
sociali della comunicazione di massa, della superficialità, della volgarità,
delle dipendenze dall’infosfera. In un passo del libro di Geremia (34, 14-17),
con forza il profeta spiega il crollo e la riduzione in schiavitù di
Gerusalemme e della Giudea, a opera dei babilonesi nel 586 avanti Cristo,
proprio come giudizio di Dio sul fatto che gli ebrei non avevano liberato gli
schiavi in occasione del giubileo. L’egoismo aveva fatto sì che la grande norma
della libertà non fosse stata praticata, e come conseguenza si era attuata una
sorta di pena del contrappasso da parte di Dio che aveva reso schiavo
Israele.
Il
giubileo di Gesù
Agli
inizi della sua predicazione pubblica, secondo il Vangelo di Luca, Cristo era
entrato nella modesta sinagoga del suo villaggio, Nazaret. In quel sabato si
leggeva un testo isaiano (c. 61) ed era toccato proprio a lui proclamarlo e
commentarlo. Attraverso quelle parole egli si era presentato come inviato dal
Padre per inaugurare un giubileo perfetto da distendere in tutti i secoli
successivi e che i cristiani avrebbero dovuto celebrare in spirito e verità:
«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con
l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per
proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in
libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore» (Luca, 4, 18-19).
È questa l’altra radice — oltre a quella anticotestamentaria — del giubileo
cristiano. Nelle parole di Gesù l’orizzonte dell’anno santo diventa il
paradigma della vita del cristiano che si allarga e abbraccia tutte quelle
sofferenze che sono il programma della missione di Cristo e della Chiesa.
L’«anno di grazia del Signore», cioè della sua salvezza, comprende quattro
gesti fondamentali. Il primo è «evangelizzare i poveri»: il verbo greco è
proprio quello che ha alla base la parola evangelo, la «buona novella», il
«lieto messaggio» del Regno di Dio. Destinatari sono i “poveri”, cioè gli
ultimi della terra, coloro che in sé non hanno la forza del potere politico ed
economico ma hanno il cuore aperto all’adesione di fede. Il giubileo è
destinato a riportare al centro della Chiesa gli umili, i poveri, i miseri,
coloro che esternamente e interiormente dipendono dalle mani di Dio e da quelle
dei fratelli. La libertà è il secondo atto giubilare, un atto che — come si è
visto — era già nel giubileo di Israele. Gesù, però, fa riferimento anche ai
prigionieri in senso stretto e metaforico e qui si anticipano quelle parole che
egli ripeterà nella scena del giudizio alla fine della storia: «Ero carcerato e
siete venuti a trovarmi» (Matteo, 25, 36). Il terzo impegno è ridare «la vista
ai ciechi», un gesto che Gesù ha spesso compiuto durante la sua esistenza
terrena: pensiamo solo al celebre episodio del cieco nato (Giovanni, 9). Era
questo, secondo l’Antico Testamento e la tradizione giudaica, il segno della
venuta del Messia. Infatti, nell’oscurità in cui è avvolto il cieco non c’è
solo l’espressione di una grande sofferenza ma anche un simbolo. C’è, infatti,
una cecità interiore che non coincide con quella fisica ed è l’incapacità di
vedere in profondità, con gli occhi del cuore e dell’anima. Una cecità
difficile da diradare, forse più di quella fisica, che attanaglia tante persone
nelle cui anime dev’essere immesso un raggio di luce. Infine, come quarto e
ultimo impegno, si propone la liberazione dell’oppressione che non è solo la
schiavitù a cui sopra si faceva cenno riguardo al giubileo ebraico ma comprende
tutte le sofferenze e il male che opprimono il corpo e lo spirito. È ciò che
attesterà l’intero ministero pubblico di Cristo. Meta ideale del giubileo
cristiano autentico è, quindi, questa tetralogia spirituale, morale,
esistenziale.
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