PER
RIUSCIRE
- - di Alessandro D’Avenia
Sulle
fatiche degli attuali adolescenti descritte in un recente Ultimo Banco
un lettore mi scrive: “Ho 73 anni, la mia generazione non ha avuto questi
problemi. Io studiavo, una parte di tempo libero l'impiegavo per i
divertimenti, l'altra parte ad aiutare mio padre nei nostri vigneti e cantina
annessa. Potevo anche esimermi ma lo facevo volentieri, come facevano i miei
coetanei con i genitori agricoltori, artigiani o commercianti. E io e i miei
amici siamo cresciuti senza problemi esistenziali. Ora mi chiedo e Le chiedo: è
possibile che questi problemi dei giovani siano dovuti all'aver trascorso l'adolescenza
nella bambagia, troppo coccolati e sempre esauditi dai genitori? Quando qualche
padre mi racconta di problemi esistenziali del figlio rispondo: “Fai lavorare
tuo figlio”. Come fece un mio amico, titolare di una vetreria con una
quarantina di dipendenti, con il figlio che immaginava di dirigere subito l’azienda;
invece, il padre lo mise alla catena di lavorazione vetri dicendogli: “Se vuoi
comandare devi conoscere il mestiere di vetraio”. È moralismo generazionale,
boomer contro generazione Z, con autoassoluzione ottenuta dando la colpa ai
genitori (gen X o Y che però sono figlie dei boomer) o c'è altro? Avere 18 anni
nel 1969 è lo stesso di averli nel 2024? “
La
natura in millenni ha fatto sì che la maturazione abbia un ritmo preciso: la
plasticità del cervello, che è in tutto il corpo, è esplosiva nei primi anni di
vita e poi nella pre- e adolescenza, con un rallentamento in mezzo (le
elementari) utile a consolidare, di quanto acquisito nei primi sei anni, solo
ciò che è necessario a sopravvivere. Ma che differenza c'è tra l'esplorazione
infantile (la mano nella presa) e quella adolescenziale (la mano sulle chiavi
di casa)?
Lo
scopo. Il bambino deve scoprire il necessario a stare al
mondo (essere amato, camminare, lavarsi, parlare, giocare...), i limiti entro
cui la vita fiorisce e oltre i quali si distrugge. Il pre- e adolescente invece
può generare vita in proprio, il corpo-cervello, impregnato in ogni cellula
dall'eros, ha la spinta per uscire di casa e farne una propria. Questa nuova
curiosità esplorativa serve a far esperienza di sé senza il copione dettato dai
genitori, per scoprire a che cosa si è chiamati, lasciare il nido per
costruirne uno nuovo. Se l'infanzia è fatta per imparare a uscire dal grembo,
l'adolescenza per imparare a uscire da casa. Nella prima lo scopo è «stare al
mondo che c'è», nella seconda è «fare un mondo nuovo». Attorno ai 20 anni il
cervello-corpo rallenta di nuovo (fino alla fine dei giorni) e si concentra per
portare a compimento la propria originalità (dare origine a).
L'educazione
del bambino-adolescente incanala l'energia evolutiva
attraverso una iniziazione. Tutte le culture, antiche e moderne, con le loro
agenzie educative strutturano infatti pratiche formative in base al modello di
uomo/donna a cui mirano e che culminano in un rito di passaggio: l'ingresso
nell'età adulta attraverso una «morte» rituale. Porto due esempi illustri della
nostra tradizione, anche se ce ne sono per ogni parte del mondo. Ulisse per
entrare nel mondo adulto deve affrontare la caccia al cinghiale in cui,
rischiando la vita, si procura l'indelebile cicatrice grazie alla quale la sua
nutrice, 20 anni dopo, lo riconoscerà. Cristo a 12 anni, in visita a
Gerusalemme con i genitori, si allontana da loro ai quali, quando lo ritrovano,
angosciati, dopo tre giorni, risponde: «Perché mi cercavate? Non sapevate che
devo compiere le cose del Padre mio?». Un'altra appartenenza, un'altra casa da
fare. L'iniziazione oggi è caotica e inefficace: il bambino viene adultizzato e
l'adolescente infantilizzato.
Inoltre,
i riti di passaggio sono esangui: esame di maturità e forse la patente... quel
che resta di un passaggio «esistenziale» ridotto al fare lavorativo (nessuna
pratica di cura di sé, degli altri, della comunità) e trasformato in faraoniche
feste di 18 anni. Ma fare una casa nuova e che stia in piedi è molto di più,
casa è infatti una vita fondata su: a) conoscenza di se stessi (capacità e
limiti), b) ruolo creativo per la comunità attraverso un lavoro il più
possibile rispondente alle proprie attitudini (vocazione), c) relazioni buone
(coppia, amicizia e cittadinanza).
L'iniziazione
deve quindi essere: a) personale b) vocazionale c) relazionale. Non basta
lamentarsi se i genitori oggi sono più o meno permissivi, perché è un'intera
cultura a non fornire un'educazione capace di trasformare l'energia vitale in
promessa di futuro, forse perché quel futuro, con i suoi comportamenti, se lo è
mangiato, in Italia proprio a partire dall'ultimo quarto del XX secolo, come
dimostra Luca Ricolfi in La società signorile di massa. Non riusciamo a
(r-)innovare i processi educativi perché continuiamo a improvvisarli o a
ispirarli a modelli inadeguati. Un esempio: la nostra scuola è la stessa di
cento anni fa, con banchi fissi e studenti seduti 5-6 ore al giorno. Poteva
andar bene per chi doveva essere alfabetizzato e messo dietro una scrivania,
oggi non più.
Al
tempo dell'autore della lettera le pratiche descritte (studio, passioni,
relazioni, lavoro) offrivano un'esperienza di mondo sufficiente a (ri-)uscire,
tutte le possibilità erano aperte. Oggi? Le tappe dell'età evolutiva non sono
cambiate, il cervello-corpo continua a dare la spinta «esistenziale», ma
l'iniziazione è inefficace e/o desincronizzata. Gli adolescenti sono smarriti:
il corpo-cervello li spinge a uscire, ma loro non sanno verso dove.
Il
CONIND e Pinocchio. C'è un virus culturale che corrode
l'iniziazione e che chiamo CONIND: il COnsumismo che scambia la vita felice con
la vita piena, il NIchilismo che azzera qualsiasi scopo o risposta ai perché,
l'INDividualismo che appiattisce la socialità all'usarsi. Questo virus ai
ragazzi lo abbiamo regalato noi. Nel finale del Pinocchio di Collodi non è il
legno a diventare carne come nella semplificazione disneyana, infatti il
Pinocchio di carne chiede: «“E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà
nascosto?”. “Eccolo là”, rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino
appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte». Per (ri-)uscire nella
vita bisogna far morire l'io legnoso e asservito ad aspettative e a modelli
fallimentari, per far nascere il sé libero e autentico. L'educazione serve a
trovare il coraggio per liberarsi dai fili: diventare sempre più liberi è il
compito di una buona iniziazione, cioè capaci di ricevere il mondo, custodirlo
e moltiplicarlo, liberi in latino erano i figli capaci di ereditare.
Ma
quale mondo diamo in eredità? «“Levatemi una curiosità, babbino: ma come si
spiega tutto questo cambiamento improvviso?” gli domandò Pinocchio saltandogli
al collo e coprendolo di baci. “Questo improvviso cambiamento è tutto merito
tuo”». E il lettore sa quanto è costato il cambiamento, che ogni nuova
generazione, come Pinocchio, deve fare. Educare è mettere in condizione, negli
anni fatti per questo, di scegliere se essere figli o burattini. Lo facciamo?
Se l'iniziazione non conduce sulla soglia di questa scelta, che poi si
ripresenterà periodicamente nel corso della vita e si potrà affrontare sempre
alla luce della prima (ri-)uscita, è perché vogliamo «servi» non «liberi».
L'energia evolutiva va sprecata e i ragazzi consegnati al sentimento del nostro
tempo: la paura. Chiuso in casa, quando era fatto per uscire. Ma forse proprio
il «problema esistenziale» che gli abbiamo creato, lo costringerà a
(ri-)uscire.
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