Le buone intenzioni
del presidente Biden
alla prova della realtà
- - di Giuseppe Savagnone *
-
La politica dei due Stati
La notizia che gli Stati Uniti, il 18 aprile scorso, hanno
bloccato con il veto la bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU che
raccomandava l’adesione della Palestina alle Nazioni Unite – in qualche modo
oscurata, sui mezzi d’informazione e agli occhi dell’opinione pubblica
mondiale, da quelle relative ai venti di guerra tra Iran e Israele – , in
realtà merita una riflessione.
In primo luogo, i fatti. Da mesi il presidente Biden va
ripetendo che l’unica soluzione possibile alla cronica crisi palestinese –
drammaticamente evidenziata dall’attentato di Hamas e dalla successiva guerra
di Gaza – è quella prevista dalla risoluzione dell’ONU del 29 novembre 1947, e
cioè la creazione di uno Stato della Palestina accanto a quello ebraico.
Da qui l’aperto conflitto con il premier israeliano Netanyahu,
che invece, nella sua lunga carriera di primo ministro, ha costantemente
escluso questa soluzione, rivendicando a Israele il diritto di essere l’unico a
controllare politicamente la Palestina.
Da qui anche il diversissimo punto di vista sul futuro della
Striscia di Gaza, che Biden pensa debba far parte, come previsto dalla
risoluzione del 1947 – insieme alla Cisgiordania – , del futuro Stato
palestinese, e su cui invece Netanyahu sembra avere piani molto diversi.
E proprio nella logica dei due Stati, l’Algeria aveva proposto
al Consiglio di Sicurezza dell’ONU il testo della raccomandazione di cui si è
detto prima. Se essa avesse avuto il voto favorevole di almeno 9 Stati sui 15
che attualmente fanno parte del Consiglio di Sicurezza, avrebbe poi potuto
essere sottoposta per la definitiva approvazione all’Assemblea generale
dell’ONU, un risultato dato per scontato, visto l’orientamento della stragrande
maggioranza dei paesi membri.
I voti a favore sono stati ben 12, tra cui quelli della Russia,
della Cina, della Francia e del Giappone; ad essi si può aggiungere
l’astensione di altri due paesi – uno dei quali, la Gran Bretagna che, in
qualità di membro permanente, avrebbe avuto il potere di veto e, rinunziando ad
esercitarlo, ha di fatto dato il via libera alla proposta; il solo voto
contrario è stato quello degli Stati Uniti, che in questo modo si sono venuti a
trovare in una posizione di estremo isolamento, anche rispetto a un tradizionale
alleato come il Regno Unito.
Tanto più che anche paesi occidentali che non fanno parte in
questo momento del Consiglio, come la Spagna, hanno preso posizione decisamente
a favore della proposta.
«Il popolo palestinese deve avere il suo posto nelle Nazioni
Unite e uno Stato proprio», aveva scritto su X il ministro degli Esteri
spagnolo, José Manuel Albares. E Madrid ha annunciato un riconoscimento
unilaterale dello Stato della Palestina in funzione della realizzazione della
soluzione a due Stati.
Il viceambasciatore statunitense, Robert Wood, ha motivato il
veto del suo governo dichiarando che esso «non riflette l’opposizione alla
creazione di uno Stato palestinese, ma è invece un riconoscimento del fatto che
questo potrà avvenire solo attraverso negoziati diretti tra le parti».
Giustificazione che non può non risultare problematica, alla
luce della decisa opposizione di Israele alla nascita di uno Stato palestinese.
Anche nella discussione che ha preceduto il voto del 18 aprile l’ambasciatore
israeliano al Palazzo di Vetro, Gilad Erdan, ha identificato questa ipotesi
come una legittimazione del terrorismo: «Se questa risoluzione passasse questo
Consiglio non dovrebbe più essere conosciuto come Consiglio di sicurezza ma
come Consiglio del terrore» ha detto, definendo già la sola proposta
«immorale». Come pensare a un dialogo diretto su queste basi?
La condanna della violenza sui civili
Non è l’unico caso in cui le buone intenzioni dichiarate da
Biden vengono smentite dalle sue scelte concrete. Dopo alcuni mesi in cui ha
interpretato l’embargo sul cibo, l’acqua e la luce, le deportazioni in massa,
le sistematiche distruzioni e i massacri di civili nella Striscia come
esercizio del «diritto di Israele di difendersi», limitandosi a generiche
raccomandazioni a non violare i diritti umani (peraltro già allora ampiamente
calpestati), il presidente americano alla fine – di fronte all’aumento esponenziale
delle vittime innocenti, tra cui migliaia di donne e bambini, e alla catastrofe
umanitaria creata dal blocco degli approvvigionamenti alimentari – è stato costretto a prendere atto
pubblicamente che la reazione israeliana era sproporzionata, insistendo perché
il suo stile mutasse.
I suoi appelli sono caduti clamorosamente nel vuoto, i morti
civili hanno raggiunto i 33.000 (in sei mesi, su due milioni e mezzo di
abitanti: si pensi che in Ucraina, dopo due anni, sono circa 10.000 su 40
milioni di abitanti), la fame, le malattie, la disperazione della gente hanno
raggiunto livelli assordanti, a cui hanno fatto riscontro manifestazioni
popolari di protesta in tutto il mondo, anche occidentale.
Ma il massimo a cui Biden è arrivato per tradurre nei fatti il
suo dissenso nei confronti di Israele è stata la rinunzia ad usare il veto
quando, il 25 marzo scorso, il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha approvato una
risoluzione – anch’essa poi del tutto disattesa da Israele – che prevedeva,
insieme al rilascio degli ostaggi, il cessate il fuoco immediato.
Non si è andati oltre le dichiarazioni di dissenso verbale e
alla trattativa diplomatica neppure di fronte alla minaccia di una disastrosa
offensiva dell’esercito israeliano nei confronti di Rafah, l’ultima città in
cui si sono raccolti un milione e mezzo di profughi.
Ma c’è un dato che evidenzia un contrasto ancora più stridente
tra il dire e il fare, ed è che in tutto il tempo di questa crisi gli Stati
Uniti, mentre raccomandavano di rispettare i diritti dei civili, hanno
assicurato allo Stato ebraico una costante fornitura di armi, comprese 5000
bombe ad altissimo potenziale che il Pentagono sconsiglia da sempre di usare in
aree popolate per il loro effetto letale sui civili.
Bombe di cui i mezzi di comunicazione americani hanno denunziato
l’amplissimo uso da parte dell’aviazione israeliana. Paradossalmente, anche
dopo l’astensione verso la risoluzione del 25 marzo, Biden ha approvato un
nuovo massiccio trasferimento di armi a Israele per il valore di 18 miliardi di
dollari, comprese 1.800 delle suddette bombe.
La condanna degli aggressori
Un ultimo esempio di scarsa coerenza da parte del presidente
americano riguarda l’attuale crisi nei rapporti tra Israele e l’Iran. Il mantra
ripetuto a lungo da Biden – sulla scia di quello che le lobbies ebraiche di
tutto il mondo hanno sostenuto, in polemica con chi, come papa Francesco
chiedeva la cessazione delle ostilità – è che è assurdo mettere sullo stesso
piano l’aggressore e l’aggredito e che la guerra intrapresa da quest’ultimo,
quali che siano i costi umani che comporta, è sempre giusta.
Tesi già di per sé discutibile, perché il fatto di essere
attaccati ingiustamente da altri non può esonerare dal rispetto delle regole
dell’etica e del diritto internazionale (altrimenti le spaventose foibe
istriane, alla fine della seconda guerra mondiale, sarebbero legittimate dal
fatto che in quel caso ad aggredire era stata l’Italia e l’aggredita la
Jugoslavia).
Tanto più insostenibile nel caso della guerra di Gaza, perché ad
attaccare Israele è stato Hamas, e non la popolazione palestinese su cui è
ricaduta senza pietà la reazione dell’esercito di Tel Aviv.
La cosa curiosa, però, è che neppure con quel principio in
realtà si è stati coerenti nell’attuale vicenda del conflitto tra Iran e Stato
Ebraico. È evidente che in questo caso ad aggredire per primo è stato Israele
il quale, violando anche in questo caso il diritto internazionale, ha colpito
una sede diplomatica iraniana, uccidendo coloro che vi si trovavano.
Ma questo non ha impedito agli Stati Uniti di schierarsi con
l’aggressore, omettendo ogni esplicita condanna dell’atto terroristico che
aveva compiuto e garantendogli la sua protezione politica e militare di fronte
alla risposta iraniana (anch’essa peraltro sproporzionata e, alla luce di
quanto appena detto, inaccettabile).
Si potrà dire che in realtà, a monte dell’attacco israeliano,
c’è il sostegno dato dall’Iran ad Hamas ed Hezbollah, e che quindi il vero
aggressore non è quello che sembra tale.
Ma un simile ragionamento, in sé corretto, dovrebbe essere
applicato anche alla strage fatta da Hamas il 7 ottobre. Solo che, quando il
segretario generale dell’ONU, Guterres, nel condannare l’atroce episodio,
accennò al fatto che esso «non nasceva dal nulla», l’ambasciatore e il ministro
degli esteri israeliani andarono su tutte le furie e accusarono Guterres di «mostrare
comprensione per la campagna di sterminio di massa di bambini, donne e anziani»
e di non essere «adatto a guidare l’ONU», chiedendone le immediate dimissioni.
Certo, bisogna prendere atto che Biden si deve muovere
all’interno di un contesto, sia interno
che esterno, molto complesso. All’interno, egli si trova alla vigilia di una
difficilissima competizione elettorale e che deve cercare di non perdere né
l’appoggio delle potenti e ricche lobbies ebraiche, schierate con Israele, né
quello dei suoi elettori di religione islamica e degli studenti, che invece
accusano lo Stato ebraico di genocidio.
Ma anche la situazione oggettiva della Palestina non si presta a
soluzioni semplici. Non bisogna dimenticare che Iran, Hamas ed Hezbollah non si
limitano a difendere i diritti dei palestinesi, ma vogliono la distruzione di
Israele, come le inaudite crudeltà del 7 ottobre hanno chiaramente evidenziato.
Resta il fatto che, di fronte a questa complessità, Biden si è
ridotto finora a seguire una politica del doppio binario tra parole e fatti che
non sembra destinata a portare fortuna a nessuno.
Forse neppure a lui, sicuramente non alla povera gente che in
questi sei mesi ha subìto le conseguenze non solo della rabbia di Israele, ma
anche della sua indecisione.
*Scrittore ed Editorialista.
Pastorale Cultura Arcidiocesi Palermo
www.tuttavia.eu
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