E’
possibile ragionare di libertà senza retorica nella ricorrenza che più di altre
rischia ogni anno in Italia di rimanerne vittima? E' opportuno farne un bilancio
sociale e politico quando oggi saremo sommersi da centinaia di articoli e di
rievocazioni che guardano al passato, non sempre in modo storicamente
ineccepibile, piuttosto che alle responsabilità che abbiamo nel presente e
verso le prossime generazioni?
- di Luigi Sanlorenzo
Non
si preoccupi il paziente lettore. Nessuna sponda sarà offerta a chi in questo
“venticinque aprile” evoca il tema più sacro alla civiltà umana per sostenere
opinioni e posizioni politiche che vedono nella costruzione del consenso sulla
paura o sull’angoscia per la propria
sopravvivenza economica.
Ciò
che qui importa è il tentativo di comprendere se la ricorrenza dell’evento
fondativo dell’Italia repubblicana che vede inevitabilmente decrescere il
numero di testimoni già adulti in quel lontano 1945, trovi riscontri nella
consapevolezza delle generazioni più recenti e tra i giovani.
Se
cioè i valori della libertà, intesa nella sua interezza e nelle sue
implicazioni sulla vita di ogni giorno, siano o meno entrati a far parte della
sostanza del sentimento popolare esprimendosi in comportamenti conseguenti.
C’era
una volta l’Italia priva dei diritti fondamentali di libertà di opinione, di
espressione in ogni forma, di aggregazione in formazioni culturali e politiche,
di opportunità uguali per ceti sociali, per generi, per provenienze
geografiche, per razza o per religione.
Una
condizione che, con accentuazioni diverse si ripeteva in ogni parte del mondo
poiché anche nella Francia, patria della rivoluzione che cambiò il mondo o
negli Stati Uniti che quell’ evento avevano anticipato di alcuni anni e perfino
nella Gran Bretagna, patria della democrazia, talune libertà erano negate in
nome di pregiudizi razziali, sessuali, politici e culturali che sovente si
esprimevano in sanzioni sociali o, come nel caso dell’omosessualità, sottoforma
di reati penali.
L’Europa
centrale perse la propria libertà dopo l’umiliazione subita da Austria e
Germania ad esito della Grande Guerra e gli eccessi della repubblica di Weimar
che intimorirono la borghesia e aprirono la strada al nazismo; la Russia di
Gogol e di Puskin di Dostoevskij e di Tolstoj scambiò il medio evo in cui era
vissuta per secoli con il regime di dittatura più sanguinario e longevo del XX
secolo e che oggi prosegue sottoforma di oligarchia economica e sociale.
L’Italia
svendette rapidamente le libertà garantite dallo Statuto Albertino per
proteggersi dalla violenza che era dilagata nel Paese durante il “biennio
rosso” e si consegnò nella mani dell’ Uomo della Provvidenza che probabilmente
avrebbe tollerato a lungo – se non
l’avesse precipitata nella Seconda Guerra mondiale – come peraltro avvenne
nella Spagna di Francisco Franco, il caudillo che saggiamente resto neutrale e
morì nel proprio letto il 20 novembre del 1975 o nel Portogallo di Antonio
Oliveira Salazar il cui regime gli sopravvisse per quattro anni fino al 1970.
Una
tesi sostenuta autorevolmente dallo storico Nicola Tranfaglia – della cui
conoscenza personale conservo memoria per la comune seppur breve militanza nel
medesimo soggetto politico – a cui così rispose Sergio Romano sul Corriere
della Sera il 28 aprile del 2011, pur evidenziando i limiti della cosiddetta
“storia controfattuale”:
“Attenzione,
tuttavia. Questo esercizio, anche quando è particolarmente accurato e
circonstanziato, non ha alcun rapporto con la realtà. Tenterò di darne una
dimostrazione immaginando che cosa sarebbe accaduto se l’Italia, dopo essere
stata per qualche mese non belligerante, avesse proclamato nel 1940 la sua
neutralità. La maggioranza degli italiani sarebbe stata grata a Mussolini e il
suo regime ne sarebbe stato rafforzato.
Il
Paese avrebbe dovuto destinare somme importanti del suo bilancio alle spese
militari (la neutralità ha un prezzo) ma non sarebbe stato necessario gettare
nel conflitto una buona parte della ricchezza nazionale e non avremmo dovuto,
come accadde fra il 1943 e il 1945, fare l’esperienza di due micidiali guerre
combattute sul territorio nazionale: una guerra tra la Germania e gli Alleati,
una guerra civile tra fascisti e antifascisti.
La
Gran Bretagna non ci avrebbe impedito l’uso del canale di Suez e ci avrebbe
permesso di conservare le colonie, almeno sino alla fase della
decolonizzazione. Avremmo potuto commerciare liberamente con i Paesi neutrali
e, più prudentemente, con i Paesi combattenti. Ma non bisogna dimenticare che
uno Stato neutrale non può mai essere totalmente imparziale. Quali che ne siano
le intenzioni, la neutralità giova quasi sempre a una parte più che all’altra.
La nostra avrebbe giovato alla Gran Bretagna e avrebbe fatto del Mediterraneo,
soprattutto dopo la sconfitta della Francia, un lago inglese.
Sappiamo
che l’Italia fu spesso per la Germania una palla al piede e che certi errori
strategici di Mussolini costrinsero i tedeschi a intervenire in Grecia e in
Libia. Ma non credo che lo Stato di Hitler avrebbe comunque permesso alla Gran
Bretagna di dominare il Mediterraneo. Prima o dopo anche il nostro mare sarebbe
divenuto teatro di uno scontro fra le due maggiori potenze europee.”
Resta
il fatto che l’ipotesi di Tranfaglia ha trovato riscontro nell’ampio
riciclaggio di larga parte della classe dirigente monarchica e fascista
all’interno della Democrazia Cristiana o nella confluenza, a viso aperto, nel
Movimento Sociale Italiano a lungo considerato pur con qualche forzatura
“legittimo” – nonostante la disposizione transitoria della Costituzione che
vieta la ricostituzione del partito dichiaratamente fascista – ma “fuori
dall’arco costituzionale”.
Un
equilibrismo eminentemente italiano non malvisto dagli Stati Uniti in pieno
delirio maccartista, interessati soprattutto a che gli aiuti del Piano Marshall
non andassero a rafforzare il Partito Comunista Italiano che a quel tempo e
fino allo “strappo” operato da Enrico Berlinguer nel 1981, era dipendente da
Mosca in tutto e per tutto, al punto da tacere sui fatti Budapest nel 1956 e di
Praga nel 1968.
Poiché
però questo articolo è dedicato all’etica della libertà, va detto
immediatamente che il processo che ad essa conduce, e non a caso definito “di
liberazione” non può essere cristallizzato in una data per quanto
rappresentativa e fondante essa possa essere considerata e conseguentemente
festeggiata.
La
domanda è inevitabile: a quali ed a quante libertà gli italiani sarebbero
disposti a rinunciare per ottenere in cambio maggiori garanzie per il futuro
dell’occupazione, un migliore funzionamento delle istituzioni e dei servizi
pubblici, una minore pressione fiscale, una giustizia più veloce e puntuale sia
sul piano penale che civile ed amministrativo?
E’
il caso allora di chiedersi: la società italiana di oggi è ancora intessuta dai
valori che oggi celebriamo o piuttosto da quelli della paura di un futuro
complesso per il quale la Destra – che sempre ha vissuto a denti stretti tale
ricorrenza, talvolta disertandola – propone soluzioni estremamente semplificate
come si è visto nel primo governo giallo verde
di Giuseppe Conte?
Certo,
il Paese dispone di una Costituzione, tanto robusta e volutamente “rigida” come
saggiamente voluto dai Padri che la vararono, che ha protetto i capisaldi della
democrazia da incursioni di vario genere ma, va ricordato che maggioranze
cospicue anche non disponendo dei due terzi in Palamento, possono modificarla
confidando anche nell’esito del successivo referendum popolare che vincerebbero
sull’onda di eventuali vittorie recenti.
Cosa
rischierebbe a quel punto la libertà del popolo italiano? Certamente l’elezione
diretta del Presidente del Consiglio e il passaggio da repubblica parlamentare
a presidenziale, certamente una spina nel fianco dell’Unione Europea in cui
probabilmente l’Italia resterebbe ma con una diversa considerazione;
probabilmente un’uscita dalla zona euro che troverebbe l’iniziale plauso degli
esportatori ma nel volgere di pochi anni la rovina finanziaria del Paese.
Sul
versante interno assisteremmo ad una svolta nelle politiche di accoglienza dei
migranti, alla fine di ogni sogno di ius soli ed a consistenti restringimenti
circa il conseguimento della cittadinanza italiana; assisteremmo
all’esaltazione di un’italianità supponente ed arrogante i cui esiti abbiamo
visto durante i quattro anni di America First culminati nell’assalto al
Campidoglio, al pesante riarmamento delle Forze dell’Ordine compresa la Polizia
di Stato, smilitarizzata nel 1981, a politiche protezioniste dei prodotti
italiani con l’imposizione di dazi all’importazione nel sogno di un’antica
quanto anacronistica autarchia che il Paese, allora come ora, non potrà mai
sostenere per le caratteristiche della propria economia manifatturiera e
terzista.
Nei
confronti della Giustizia, infine, si assisterebbe ad una vera e propria resa
dei conti che potrebbe perfino culminare nella natura elettiva dei magistrati
come avviene negli Stati Uniti con la differenza che in Italia a ciò si
aggiungerebbero anche la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, la
responsabilità civile degli operatori di giustizia e la successiva
subordinazione al potere politico: con tanti saluti alla tripartizione dei
poteri che sono la base e l’essenza di ogni democrazia compiuta e bilanciata.
La
riduzione della pressione fiscale, inoltre, influirebbe pesantemente sui
servizi pubblici in direzione di uno sviluppo di quelli privati come già visto
per la Sanità nella Lombardia di Formigoni ieri e di Fontana oggi, le cui
conseguenze abbiamo visto sfilare a Bergamo in un corteo di camion militari che
mai dimenticheremo.
Anche
i rapporti con la Chiesa Cattolica conoscerebbero momenti cruciali tenuto conto
della deriva tradizionalista che Matteo Salvini e Giorgia Meloni non hanno mai
nascosto di appoggiare in aperto contrasto con la svolta della Chiesa di Papa
Francesco, più volte definita più simile ad una ONG a motivo del netto
schieramento in favore di ultimi e di migranti e più in generale del contrasto
alla guerra e contro le manifestazioni
esteriori del potere ecclesiastico e della religiosità popolare vissuta con fanatismo
ed intolleranza nei confronti di altri culti.
Dietro
a ciascuno di quegli eventuali provvedimenti opererebbe un sistema di valori
ben preciso che non ha nulla a che vedere con quelli di cui l’Italia si liberò,
insieme ai suoi massimi interpreti, in quel venticinque aprile che oggi
festeggiamo.
Nessun
nuovo fascismo, certamente, ma una nuova forma di autoritarismo mutuato da
quelle democrature che nell’Est europeo, nella Turchia di Recep Tayyp Erdogan,
nella Confederazione Russa, in Brasile, in Egitto e, in forma diversa anche in
Cina, sono lontanissime dal sentire
liberale delle grandi democrazie occidentali che sconfissero – anche
con il contributo di oltre venti milioni di vittime trai soldati
sovietici – nazismo e fascismo con il
concorso sul campo dal 1943 in poi, forse eccessivamente enfatizzato in Italia,
delle Resistenze locali che in Norvegia, in Olanda e in Francia avevano
iniziato ad operare quando ancora era lontano l’esito della guerra e le armate
naziste marciavano sotto l’Arco di Trionfo nel segno della guerra lampo e del
Reich millenario.
Abbiamo
sempre inneggiato al diritto alla libertà e ciò ha reso grande l’Europa del
dopo guerra facendone il modello della massima possibile realizzazione dei
valori collegati di legalità e di solidarietà (moderna e più attuale traduzione
di quello originario di fraternità) a cui i popoli di ogni parte del mondo
hanno fatto riferimento, soprattutto dopo il crollo del Comunismo.
Se
qualcosa abbiamo compreso della grande lezione della Storia, è ora venuto il
momento di cominciare a parlare di dovere della libertà come atto preliminare
necessario al grande privilegio di potere disporre della medesima: una
definizione molto amata da Oriana Fallaci e che è il caso qui di approfondire.
Nessuna
libertà viene regalata a popoli ed a individui se per essa non si è lottato
imponendo a se stessi innanzitutto il rigore morale e la solidarietà con i
propri simili e dove l’esistenza delle regole appare come una precondizione della libertà
medesima, che trova la sua origine, la sua garanzia e rinnova il suo
significato autentico proprio in quel vincolo “necessitato” che risiede proprio
in quel sistema di regole che troppo spesso abbiamo messo da parte in nome di
un’errata e populistica interpretazione dell’”essere liberi”, vivendo come
vincolo ogni limite oltre il quale vige la libertà dell’altro e del corpo
sociale.
Una
pericolosa tendenza che durante la pandemia ha visto insieme ad atti di massimo
eroismo anche episodi diffusi in ogni contesto culturale e sociale di egoismo,
di furbizia e di disprezzo delle regole variamente ma mai credibilmente
giustificati.
Un
insulto verso chi ha invece continuato a soffrire in silenzio per il senso di
responsabilità verso gli altri, unico cemento di ogni società civile.
Una
lacerazione della trama sociale di cui già molti fa il sociologo Giuseppe De
Rita, Presidente del Censis, aveva avvertito i primi segnali allarmanti
successivamente confermati dalla progressiva disgregazione della società
italiana che contrappone ora ceti, livelli culturali, posizioni economiche e
generazioni a lungo legate da un patto di comune contribuzione allo sviluppo
del Paese che chiamammo “boom economico” e che di fatto consentì di lasciare
alle spalle le macerie morali e materiali della guerra.
Mille
e settecento anni dopo la coerenza di Socrate e quattro secoli prima che Immanuel Kant
definisse i tre imperativi categorici che tanto hanno messo alla prova
generazioni di liceali e che sono il fondamento di ogni civiltà che voglia
definirsi tale, il dovere della libertà
indusse il Poeta di cui abbiamo celebrato il settecentesimo anniversario a
scolpire nella Commedia le parole con
cui nel primo canto del Purgatorio Virgilio si rivolge a Catone l’Uticense,
presentandogli Dante profugo ed esiliato: “Libertà va cercando ch’è si
cara, come sa chi per lei vita rifiuta”.
Non
dimentichiamolo in questo 25 aprile 2024 che ci coglie debitori oltre che verso
i nostri padri che lo resero possibile, soprattutto nei confronti dei nostri
figli e nipoti che sul “sentiero dei nidi di ragno” costellato di banalità, di
false interpretazioni e di pericolosi revisionismi potrebbero rischiare di
smarrirne il significato più sacro. Solo così sarà vera Liberazione che si
rinnova ogni giorno e che ci auguriamo di poter celebrare per sempre una volta
all’anno con gratitudine e rispetto verso coloro che l’avranno trasmessa quale
preziosa ed irrinunciabile eredità.
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