«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande
estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle
nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati,
oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del
genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
-
di Emanuela Trotta
La
vita degli esseri umani si dispiega nella consapevolezza di essere circoscritti
da ogni parte da limiti e confini, ma anche dall’ostinata volontà di non
accettazione delle restrizioni, che si traduce nel desiderio di superare ogni
limite.
Il
concetto di limite è associato all’idea di ostacolo, come se le due parole
fossero sinonimi. La cultura dominante trasforma tutti i limiti in illusioni:
il limite è solo apparente, perché una volta superato svanisce. Il superamento
costante dei limiti sta compromettendo la vita stessa dell’uomo. La cultura
occidentale del progresso ha costruito la società dell’abbondanza, non ci sono
limiti al consumo e al flusso di desideri, continuamente indotti, perché
funzionali al mantenimento del nostro sistema economico, dove è l’eccesso che
diventa un valore perché agevola il superamento dei limiti, favorendo la loro
trasformazione in illusione.
Sproniamo
noi stessi e i nostri figli a essere forti, a fare del loro meglio per essere
vincenti. Oltre a generare sofferenze e disagi il superamento dei limiti mette
in evidenza l’esistenza stessa dei limiti. Anche le concezioni di spazio e
tempo sono influenzate dall’illimitatezza. Il tempo è visto come qualcosa da
riempire, più attività e impegni si riescono a mettere in agenda e più si
raggiunge la pienezza della nostra vita, mentre la noia è concepita come
perdita di tempo, diventa inutile e da evitare. Per questo motivo la ricerca
ossessiva di impegni e l’iperattività sono tra i fenomeni più diffusi.
Considerando
il significato etimologico, il concetto di limite deriva da due differenti
sostantivi latini, limes e limen. Il primo assume un’accezione negativa di
confine, che costituisce per l’uomo una barriera invalicabile, il secondo ha il
valore di soglia ed è per l’uomo passaggio, apertura.
Il
limite che definisce diventa prigione del pensiero, quando è rigido e non
permette di guardare oltre, mentre la soglia è luogo della promessa e della
speranza. A differenza del confine che può essere inteso come una linea
statica, la soglia evoca sempre un passaggio, è il luogo dell’attesa, ma anche
passo, valico.
L’uomo
contemporaneo si mostra smarrito, incapace di autonomia e di visione critica.
La sua capacità di reagire si rivela fragile, incapace di definire sé stesso e
il suo rapporto con l’altro. L’incomunicabilità lo isola, lo rende ancora più
solo. La cultura moderna aveva sacralizzato l’uomo liberandolo da tutti gli
ostacoli che gli impedivano di essere pienamente sé stesso, ma ora ci
accorgiamo come una tale sacralizzazione abbia di fatto prodotto nell’uomo
l’annichilimento, il narcisistico ripiegamento in sé, la dolorosa incapacità di
cogliere la complessità insita nella sua stessa esistenza. La sua singola
individualità stenta a diventare persona. Ciò che caratterizza il disagio
dell’uomo moderno sembra essere l’indicibilità della sua sofferenza, fatta di
angoscia, di dolori, di frustrazioni e di vuoto. L’esperienza soggettiva della
sofferenza può esser vissuta come indicibile e può diventare indecifrabile,
quando non c’è nessuno che ascolta veramente quell’urlo o quel silenzio che
strazia, che lacera e non concede sosta.
Non
è una sensazione piacevole sentirsi bloccati, frenati e rendersi conto che non
si riesce ad andare oltre. Quotidianamente veniamo a contatto con i nostri
limiti. Già fin da piccoli si sperimenta il limite, i bambini vengono al mondo
senza conoscere nient’altro che la propria volontà e, i genitori, per
proteggerli pongono delle regole e danno dei confini con i quali rapportarsi al
mondo esterno, nel rispetto nostro e degli altri.
Fare
i conti con le limitazioni fa parte della nostra natura umana, alla quale
facciamo fatica a adattarci. Il limite passa attraverso l’esperienza, è
attraverso di essa che conosciamo il mondo e noi stessi. Il nostro limite è la
paura, che si manifesta per la poca fiducia che abbiamo nelle nostre capacità.
Sperimentare i nostri limiti ci porta a ridimensionare i nostri obiettivi.
Dalla
cultura della perfezione all’esperienza di limite come risorsa.
Uno
dei concetti di fondo che caratterizzano la nostra cultura è il concetto di
perfezione. Le possibilità che la scienza e la tecnica offrono hanno creato una
sorta di delirio di onnipotenza. La mentalità materialistica prevede che ogni
desiderio possa essere realizzato. In questo clima di efficientismo esasperato
la vita si trasforma in competizione continua. Con il mito della perfezione
l’uomo ha perso il senso del limite. Il modello di uomo da raggiungere è quello
che va oltre i propri limiti, ma senza rendersi conto che oltre il limite non
c’è perfezione, ma la disumanizzazione. Focalizzare l’attenzione sulla
performance e l’eccellenza porta a sentire di non essere mai abbastanza
rispetto alle aspettative e alla convinzione di una presunta inadeguatezza
personale.
Ogni
fallimento, ogni errore mette tutti in crisi. La ricerca della perfezione
impone delle regole che spesso distruggono ciò che si è, in vista di un
irraggiungibile dover essere, tutto viene ridotto a competizione. La ricerca
della perfezione disorienta l’uomo tanto da rendere insopportabile la sua
esistenza. Chi tende alla perfezione finisce per vivere con le immagini di una
realtà falsa.
La
ricerca della perfezione è fuga dalle proprie radici, fuga dal quotidiano. La
cultura dell’efficienza diventa il centro di tutto, di un io che si gioca tutto
pur di arrivare. Quando l’io vede nell’altro un impedimento alla realizzazione
del suo progetto, allora o lo tollera o lo elimina.
La
filosofia si chiede quali siano le cause che hanno portato l’umanità sull’orlo
del baratro. Secondo Heidegger è l’essere per la morte che ci umanizza e ci fa
prendere coscienza dei nostri limiti. Il vivere- per-la-morte porta
inevitabilmente all’esistenza autentica. L’intento di Heidegger è quello di
educare alla morte e di insegnare ad accettarla. Morire significa essere
consapevoli della propria finitezza e farsene carico senza fuggire. Il pensiero
della morte mette in ginocchio il delirio di onnipotenza, ci rende meno
arroganti, cambia radicalmente il nostro modo di valutare le cose, ci aiuta a
distinguere ciò che è importante nella vita. Si passa così ad un sistema
mentale che considera l’errore, l’insuccesso, il limite, come nemico della
vita, ad una cultura che considera il limite come una realtà che non si può
evitare.
Nel
senso fisico la parola limite indica confine, nel senso esistenziale è qualcosa
d’imperfetto, nel senso ontologico, il limite fa parte dell’essenza stessa
dell’essere dell’uomo. Non è possibile fare qualcosa che non sia segnato dal
limite.
Il
limite non è solo privazione, non si può pensare ad esso solo come mancanza.
Essere
limitati non è essere privi di qualcosa che era dovuto, ma essere ciò che
naturalmente si è. Dare valore al limite vuol dire valorizzare la natura umana
così com’è. L’imperfezione è qualcosa d’intrinseco alla vita. Bisogna imparare
a vedersi non come esseri che sbagliano e falliscono, ma come esseri che
proprio a partire dall’accettazione di ciò che si è, si cominciano ad aprirsi
alla vita, che si affronta, traendo vantaggi nonostante gli errori. Anzi è
proprio attraverso l’errore che possiamo sperimentare la vita in tutta la sua
intensità. L’errore ci rende compatibili con l’umano. Il limite ci allena
all’uso realistico di ciò che è fragile e imperfetto.
Non
si può crescere come persone se si rifiuta il proprio limite, perché si rifiuta
quello che si è.
Bisogna
prendere coscienza che l’umanità dell’uomo non comincia con la ricerca della
perfezione, ma dall’incontro con la propria impotenza. Quindi il limite è ciò
che aiuta a capire l’uomo nella sua profondità. L’uomo incontra il limite, ma
l’incontro non porta necessariamente alla sua accettazione
Il
limite come apertura alla relazione.
La
coscienza di essere limitati fa vivere in una condizione di povertà, ed è
proprio in questa condizione che l’uomo ritrova la sua ricchezza. Il limite è
la radice di un’immensa apertura. L’uomo sente il bisogno di superare il suo
limite nella relazione, nell’incontro, nella comunicazione. Una relazione
intesa non più come luogo di dominio, di possesso, ma come esperienza del
proprio autolimitarsi per fare spazio all’alterità dell’altro. La coscienza del
limite mi spinge ad uscire da me stesso e trasformare la paura in dialogo. Il
limite dà spazio ad un nuovo modo di relazionarsi con sé stessi e con gli
altri.
Tracciare
il limite non è l’accettazione di una sconfitta, bensì è stabilire il proprio
territorio, comprendere chi siamo. Saper mettere dei confini su chi siamo e su
cosa sappiamo fare non significa imporci delle barriere, ma incrementare
consapevolezza per affrontare le proprie sfide e un eventuale fallimento non
andrà ad avere ripercussioni sulla propria fiducia in noi stessi.
Bisogna
creare un equilibrio tra l’accettare ciò che non può essere cambiato e l’essere
attivi rispetto alle proprie possibilità.
La
mancata tolleranza dei limiti può generare un continuo inseguimento di desideri
poco raggiungibili o il darsi standard non troppo elevati. Il risultato di
questi atteggiamenti va a ripercuotersi sulla propria autostima e porta a
sentirsi continuamente inadeguati. Al contrario le persone consapevoli di sé
stesse sono capaci di venire a contatto con tutte le parti di sé.
È
sbagliato pensare che chi ha stima di sé abbia una percezione di sé solo al
positivo, in realtà è anche consapevole di tutti quegli aspetti di sé più
disfunzionali. L’accettazione del limite è manifestazione di una grande forza e
dignità, capaci di porre oltre il limite chi è da esso schiacciato. Il coraggio
di esporsi alla sconfitta e la determinazione di accettare il limite si
delineano come atteggiamenti che fondano la salute mentale di un individuo,
mentre il controllo ossessivo sulla realtà e la sua spasmodica ricerca di
sicurezza impediscono all’uomo di concepire la vita come adattamento creativo.
Nel fallimento l’individuo è sfidato dalla realtà, è pronto a trascendersi.
Posto di fronte al suo destino, l’uomo ha sempre qualcosa in suo potere, ha la
possibilità di sperimentare scelte inedite, di attivare potenzialità sopite.
I
limiti biologici imposti all’uomo dalla natura costituiscono uno stimolo per
l’invenzione, per il progresso culturale. La cultura rappresenta il potere
umano di trascendere il limite. Assumere il limite insito nella difficoltà
relazionale e riconoscere l’altro ed essere da lui riconosciuto, significa
sostenere l’altrui identità ed alimentare la propria, equivale a rendere
possibile la reciprocità relazionale, e costruire la forma più sana di
interazione umana. L’uomo riveste di senso la propria identità nella misura in
cui fa dono di sé all’altro, è una reciprocità gratuita, che non attende
restituzione o ricompensa, che accoglie per intero la fragilità della relazione
e la debolezza dei suoi protagonisti. Il dono di sé è reso possibile non solo
dalla diversità dell’altro, ma anche dal suo limite, dal suo bisogno, dalla sua
mancanza. Non potrebbe esserci dono se non in risposta ad una qualche finitezza
che l’altro presenta. Il limite, allora, non solo rende possibile il dono, ma
diventa anche un aspetto indispensabile del reciproco relazionarsi.
In
molteplici modi abbiamo bisogno l’uno dell’altro, abbiamo bisogno di qualcosa
che non possediamo, questo qualcosa ci rimanda alla nostra finitezza, è il
marchio inequivocabile della nostra reciproca dipendenza. Il dono non va
considerato come una sottrazione, né come diminuzione di sé, ma al contrario
come l’esperienza del pieno possesso di sé. Ognuno, infatti, non può donare ciò
che non possiede, quindi nel dono, paradossalmente, sperimento il possesso di
me, di ciò che sono, delle risorse e delle capacità che di me fanno parte e che
mi costituiscono nella mia singolare individualità. Il donare all’altro svela
me a me stesso, permette di conoscermi, di trasformare in realtà tangibile ciò
che solo potenzialmente era racchiuso in me.
È il rapporto con l’altro che fonda e dà senso
all’identità di ogni individuo.
Accettare
il limite
Considerare
il prendersi cura degli altri come donarsi totalmente è rischioso. Si finisce
per negare le nostre esigenze e pensiamo che l’abnegazione, la rinuncia, il
sacrificio siano il vero segreto. Con questo desiderio di perfezione e
onnipotenza ci muoviamo nelle quotidiane relazioni di cura, scontrandoci col
rifiuto, affrontando le prove e i fallimenti. Ci accorgiamo, così, del limite,
viviamo il senso di colpa, ci sentiamo impotenti, sconfitti, persi. Ne consegue
un senso di impotenza che porta alla resa, alla rinuncia. Muovendosi
nell’aspirazione di riuscire in tutto di fronte all’esperienza del limite si
percepiscono le incrinature del proprio operato e si tende a ripiegarsi su di
sé, a chiudersi, contribuendo ad incrementare la distanza dall’ideale della
perfezione, dall’immagine positiva di sé. È dal tentativo di nascondere il
limite che si sviluppa il senso di inadeguatezza e di frustrazione per quanto
non si riesce a fare o ad essere.
Il
limite è una linea che divide, ma è anche punto estremo a cui può arrivare
qualcosa, termine che non si può superare. Il limite non si prefigura soltanto
come qualcosa che crea divisioni, che allontana, ma anche frontiera, cioè segno
di attraversamento. Esso non segna solo ciò che non si può raggiungere, ma
anche ciò a cui si può approdare: nel definire crea spazi di possibilità. Uno
stile di vita proteso all’infinito vive il limite come paura e impedimento.
Guardando le capacità degli altri e le competenze mancanti le si desidererà con
ansia, sforzandosi sempre di essere diversi, alimentando inutili forme di
conflittualità. Il limite potrà, invece, essere visto come risorsa e
opportunità di crescita se alla lungimiranza di vedere oltre, si affiancherà l’attenzione
alla propria presenza, a ciò che effettivamente si è. Se pensiamo che ad ogni
imperfezione corrisponda una riduzione di valore personale, saremo costretti a
subirne il peso e la sofferenza che queste esperienze portano con sé.
Il
limite è connaturato con la persona, la abita da sempre. L’uomo che va verso il
suo limite va verso la sua umanità. Il limite e la debolezza non sminuiscono il
valore della relazione di cura, ma anzi la rendono più vera, più umana. Se
impariamo a pensare agli aspetti di fragilità come cifra più autentica del
nostro essere uomini, potremmo davvero prenderci cura degli altri. Affinché il
miglioramento avvenga, occorre riconoscere le dimensioni difficili e
attraversarle, con la fatica e la bellezza propria di ogni passaggio.
La
consapevolezza del limite offre la possibilità di ridimensionare l’idea di
infallibilità e onnipotenza.
L’esperienza
del limite
L’esperienza
del limite si accompagna al vissuto della perdita, della precarietà e della
piccolezza. Il limite può identificarsi con un vuoto, una situazione di assenza
di solidi punti di riferimento, di legami e di valori.
Il limite non è solo quello che la realtà ci
impone dall’esterno, ma è quello che dobbiamo porci nella ricerca di un
equilibrio tra l’agire con coscienza e la pretesa di modificare le situazioni.
Riconoscere il limite significa valutare fin dove possiamo spingerci, qual è il
massimo che possiamo dare senza eccedere. Questo ci spinge ad essere più
indulgenti verso i nostri errori, a vivere i fallimenti senza cadere nell’ansia
del perfezionismo, imparando a rialzarsi e riprendere il cammino.
Le
situazioni difficili hanno in comune il dubbio, l’inquietudine, dove sembra che
nulla accada, non offrono un punto fermo, un sostegno che dia fermezza. Il
limite svolge la sua funzione di essere un rinvio alla trascendenza. Restare in
ascolto dei propri limiti significa accettare la distanza, come spazio di
riflessività. Il limite si trasforma in margine quando lascia intravedere
possibilità di azione. Accogliere il limite è sapere di percorrere confini
incerti, ma nutrire il desiderio della ricerca e la fiducia nel cambiamento.
Coltivare
l’attesa
In
un mondo che esalta la velocità pensare il limite vuol dire affermare
atteggiamenti inconsueti quali l’attesa e la pazienza. L’attesa ci aiuta a
combattere l’ansia dei risultati, la preoccupazione di giungere alla meta.
Abituati a tacere il limite viviamo la
difficoltà di ammettere errori e fragilità, per paura del giudizio, per timore
di perdere valore e dignità. Occorre, invece, tornare a condividere le
situazioni di limite, aprirsi al dialogo. L’indicibile di fronte a cui il
limite ci pone bisogna accoglierlo, è necessario far diventare racconto quelle
situazioni in cui le fragilità attendono di essere districate, promuovendo un
ascolto non giudicante, occorre non temere il limite, ma individuarlo,
nominarlo e attraversarlo nella certezza di non essere soli.
Mai
come nella presente fase storica l’uomo ha accarezzato il mito
dell’onnipotenza, la convinzione di essere padrone della propria storia, di
essere in grado di autodeterminarsi e di poter spostare sempre un po’ più in là
la soglia della propria finitudine. Eppure, è proprio il senso del limite che
ci restituisce la nostra umanità.
La
questione del limite ci richiama ad un principio di realtà: la consapevolezza
che ci sono eventi che sfuggono al nostro controllo, mancanze con cui dobbiamo
imparare a convivere. È nel percepirci come esseri finiti e limitati che
riusciamo a valorizzare appieno il tempo che ci è dato di vivere, a comprendere
tutto ciò, che nella nostra quotidianità rimanda alla dimensione della
fallibilità.
Affinché
la consapevolezza della nostra fragilità non si trasformi in un alibi a
rinunciare in partenza ad ogni sforzo, è però, indispensabile ricordare che,
come esseri umani, siamo costantemente in bilico tra finitudine e trascendenza.
La mancanza è una condizione che, se accettata, apre all’ “oltre”, alla
trascendenza.
Se
il limite, di cui siamo rivestiti, non è accettato, l’esistenza può
trasformarsi in una finzione e divenire il tentativo di svincolarsi dai limiti
senza mai riuscirvi, di negare la propria pochezza. L’essere umano tende a
raggiungere cose sempre più grandi di quelle che ha, che di per sé non è un
male, lo diviene se egli rifiuta la sua debolezza e intende gli obiettivi come
dei diritti arrivando a pretendere di raggiungerli, invece che perseguirli con
umiltà. L’umiltà è l’atteggiamento interiore che consente di valorizzare il
limite, rendendolo un motivo di crescita e non di rammarico; è la virtù che
permette di accettare la propria condizione senza desiderarne un’altra.
Il
limite è nell’uomo un fattore propulsivo, in quanto genera il desiderio, che è
il motore della volontà. Se l’uomo possedesse tutto, non cercherebbe nulla, la
percezione del limite è fonte di nuove scoperte, perché suscita nell’uomo il
desiderio di conoscere e di cercare. Il limite non è sempre sinonimo di
imperfezione, ma è la radice stessa dell’apertura dell’uomo, è una scuola
capace di insegnare quale sia il segreto della vita.
Chi
è appagato non cerca, né lo fa chi è disperato. Cerca invece chi è povero, e ne
fa motivo di crescita. Se accettata, la coscienza del limite, si trasforma in
desiderio di aprirsi agli altri. L’antropologia del limite però non può
risolversi in uno sterile elogio del limite, né dell’imperfezione in sé stessa.
Ciò che va elogiato è l’essere umano e la sua umanità, intesa come qualità
essenziale.
Il
limite non deve diventare una sorta di ideologia da contrapporre al
perfezionismo, anzi, deve apparire come il punto di partenza per un’esistenza
sempre più umana, dove l’accettarsi e l’accettare dà spazio ad un nuovo modo di
relazionarsi con sé stessi e con gli altri.
Accettare
il proprio limite vuol dire aprirsi ad un cammino personale di libertà
attraverso un nuovo modo di sentire, di pensare e di agire. Lo sviluppo è una
capacità aperta alla crescita che non nega né esclude i limiti reali della
persona.
Se si vuole ancora pensare ad un futuro
dell’umanità si può pensarlo solo nell’ottica del limite.
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Filosofia e nuovi sentieri
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