“Essere Chiesa significa avere un'idea di futuro”
«È necessario abbandonare ogni forma nostalgica, puntare sulla
formazione, prendere coscienza dei tempi nuovi e superare la logica postmoderna
del provvisorio»
-
di Francesco Cosentino
Le
domande tengono la mente inquieta mentre le risposte rischiano di farci
addormentare, specialmente quando sono concepite per anestetizzare la fatica
del pensare dinanzi alla complessità delle sfide odierne. Ben venga, allora, il
dibattito che, a partire dalle riflessioni offerte da Pierangelo Sequeri, sta
prendendo corpo in questa settimana. All’irrilevanza cristiana, intesa non
tanto in senso sociologico ma come incapacità dei simboli e delle parole
cristiane di toccare l’immaginario, di trafiggere il cuore e di segnare la vita
dei nostri destinatari, ho voluto di recente dedicare un testo di teologia
edito da San Paolo, ritenendo che la domanda già posta da Karl Rahner alcuni
decenni or sono, dovrebbe essere messa al centro della riflessione teologica e
dell’agire pastorale: come è possibile fare oggi una esperienza del Dio di Gesù
Cristo in una società che lo ha messo ai margini? Si tratta di un interrogativo
che, però, il cristianesimo deve iniziare a rivolgere a se stesso.
A
poco serve, infatti, continuare ad attardarsi su analisi riguardanti il
cambiamento d’epoca, la fine della cristianità, il tramonto del cristianesimo
sociologico e l’avanzata del secolarismo, se non attiviamo il coraggio di un
passo ulteriore che può essere così declinato: se la cultura occidentale non è
più ospitale nei confronti dell’annuncio cristiano, è altrettanto vero che il
cristianesimo ha smesso da tempo di essere “culturale”, di saper non soltanto
ascoltare ma anche interpretare le sfide del contesto, in un dialogo scevro da
manie di superiorità morale e da elementi di clericalismo. Il cristianesimo
sembra essere segnato da una sorta di “cultura del declino”. Di recente, a
parlarne è stato il presidente della Cei, il cardinale Zuppi, che ha affermato:
«Non si può gestire il presente con una cultura del declino, quasi si trattasse
solo di mettere insieme forze diminuite, di ridurre spazi e impegno o di
agoniche chiamate al combattimento».
La
cultura del declino, che ci impedisce di avere linguaggi,
proposte e postura per abitare la cultura odierna, si manifesta in molti modi
e, accennarne alcuni, significa anche individuare quelli che possono diventare
luoghi della ripartenza, se ci dedichiamo a essi con una appassionata
riflessione teologica e pastorale. Anzitutto, è da segnalare il rischio di una
assuefazione vittimistica alla questione numerica, che genera spesso una
reazione frettolosa, mancante di una lungimirante visione ecclesiale e
pastorale: così, si uniscono le poche forze rimaste o ci si trincera dietro un
atteggiamento difensivo, limitandosi a conservare l’esistente. Forse ci serve
invece il coraggio di prendere sul serio la sproporzione esistente tra il modo
in cui ancora oggi pensiamo e viviamo la parrocchia e il numero sempre più
ridotto di preti e operatori pastorali, in un contesto divenuto mobile,
plurale, e multiculturale.
La
pastorale della soglia. Si tratta di una situazione che non
lascia spazio ed energie per pensare una “pastorale della soglia”, centrata su
un annuncio del Vangelo che possa intercettare i lontani e dialogare con le
domande del nostro tempo e con le sfide culturali, magari anche stimolando al
dibattito coloro che sono in vario modo impegnati negli spazi pubblici della
città, della politica, della società civile. La questione implica,
naturalmente, una riflessione sul ministero ordinato, una nuova lettura
dell’istituzione parrocchiale, qualche serio interrogativo sull’attuale
configurazione giuridica e sul Diritto canonico, così da immaginare una nuova
forma e presenza di Chiesa in dialogo col territorio. Nondimeno, si ha
l’impressione che anche riguardo alla proposta, il cristianesimo proceda spesso
con linguaggi, formule e prassi che non tengono in conto quanto sia cambiato
l’immaginario interiore e concettuale dei nostri contemporanei negli ultimi
decenni. Si può continuare a parlare di salvezza, di felicità, di vita umana,
di morte e di risurrezione, ma correndo il rischio di non comunicare più nulla
se non si tiene conto dei cambiamenti antropologici, della diversità e
pluralità di significati che ciascuno conferisce alla propria esperienza di
vita, della ricerca postmoderna di un benessere psico-fisico e spirituale
sganciato dalla relazione con Dio, della “fede” nell’intelligenza artificiale.
Le
parole dell’evento cristiano, si pensi, per esempio,
alla professione di fede nell’ormai vicino anniversario di Nicea, non
andrebbero nuovamente tradotte e offerte attraverso una nuova mediazione
linguistico-concettuale? Infine, rispetto alle sfide della cultura e a quelle
pastorali, l’impressione è che anche il cristianesimo proceda nel solco
postmoderno della logica del provvisorio: manca una visione e un pensare a
lungo termine, si va avanti per singhiozzi e frammenti. In questo senso, la
cultura del declino si esprime nel ripiegamento in forme di religiosità
intimiste e, ancor più spesso, in forme devozionistiche che dispensano dalla
fatica di pensare e dall’onere di scelte innovative e coraggiose. Sequeri ne ha
parlato come «ripiegamento nella pura devozione di gesti e immagini vagamente
connesse al mistero cristiano», mentre Righetto ha fatto giustamente
riferimento alle “paccottiglie” spirituali che si trovano nelle librerie
religiose, generando una sorta di “sottocultura” cattolica. Di certo, c’è un
investimento che manca e, se parliamo di rapporto dialogico con la cultura,
l’investimento principale dovrebbe essere quello della formazione. Mentre il
secolarismo ha ormai trasformato l’immaginario interiore della vita delle
persone, cambiando i simboli attraverso cui interpretano la vita e abitano il
mondo, la cura per la formazione e per la preparazione culturale, biblica e
teologica di laici e preti non è ancora assunta come un impegno imprescindibile
delle agende pastorali.
La
formazione. Qualche giorno fa, sul tema, è tornato il teologo
Giuseppe Lorizio, affermando che il credente non può ignorare, e anzi deve
interpretare e affrontare una cultura come la nostra che si mostra nella veste
di un “politeismo” dei saperi e dei valori, in una compagine quanto mai
variegata e plurale di visioni. E invece, si ritiene che sia più urgente far
fronte ai bisogni di oggi che investire per il domani. E sulla formazione
culturale, continua a pesare l’antico e sempre nuovo pregiudizio, secondo cui
studiare e approfondire non serve, perché basta stare vicini alla gente, dir
Messa e presiedere qualche atto di devozione. Il rischio dell’autoemarginazione
del cristianesimo diventa più che concreto, che si tratti di rifugiarsi
nostalgicamente nell’idealismo dei bei tempi passati o di chiudersi in forme di
cristianesimo moralista e devozionale. Qualcosa può cambiare se e quando avremo
il coraggio di rimettere mano – senza timori e senza ideologiche
contrapposizioni – a una nuova visione ecclesiale. Ma ciò non avviene
continuando a scommettere su una generale visione pastorale, senza la fatica di
pensare – e di pensare teologicamente – il futuro del cristianesimo.
www.avvenire.it
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