Nella scuola dell’inclusione gli iperdotati restano ai margini.
Oggi il creativo fa paura
perché non è controllabile.
Non solo a scuola.
Anche nella vita sociale e associativa.
Un dispendio di risorse, preziose per costruire il futuro.
Quarant’anni
fa la nascita della “Emilio Trabucchi”, che per nove anni, fino al 1993, è
stato il primo e finora unico esempio di realtà dedicata ai bambini con
un’intelligenza superiore. Parla la fondatrice e psichiatra Federica Mormando
Tutte doti che non sempre sono riconosciute e sono persino causa di problemi per chi le possiede. «L’alto potenziale – ricorda la psichiatra – viene spesso confuso con delle patologie. Così, per il bambino particolarmente dotato, che non si trova bene in classe perché si annoia alla ripetizione di nozioni che capisce facilmente, che preferisce stare da solo, l’insegnante suggerisce uno spettro autistico, il cosiddetto “autismo ad alto funzionamento”, termine che mi fa rabbrividire, perché non siamo macchine. Altri, invece, alla noia reagiscono agitandosi e ciò fa suggerire un disturbo dell’iperattività, chiamato Adhd. E si finisce dall’insegnante di sostegno».
Un
passaggio non necessario, secondo Mormando. «A questi bambini – prosegue
l’esperta – non serve l’insegnante di sostegno, ma docenti preparati e, per
esempio, capaci di ampliare il programma per venire incontro anche alle loro
esigenze. Ma la scuola non è attrezzata a fare questo passaggio. Servirebbe una
scuola per piccoli gruppi in cui formare la mente. Fornendo metodi di ricerca
ed entusiasmo per il sapere».
Così, quarant’anni fa, era organizzata la scuola “Trabucchi”, dedicata a “bambini intelligenti”, tra i 3 e gli 11 anni. «Per i più piccoli usavamo il metodo Montessori. Si seguivano i tempi di ogni bambino e gli alunni si mettevano spontaneamente in piccoli gruppi per apprendere le diverse materie, in aule a questo dedicate. Infine, ogni tre mesi chiamavo qualcuno di molto severo che li interrogasse. Così i bambini si abituavano e non avere paura del voto». Oggi, di quell’esperienza, sono «rimasti gli ex allievi», con cui la professoressa Mormando è ancora in contatto. «Ho cercato di dar loro un equilibrio perché fossero contenti di studiare, che non crescessero fragili, perché abituati ad affrontare cose difficili – ricorda Mormando –. Non ho notizia di nessuno che sia assatanato di potere, ma tutti hanno avuto vite soddisfacenti e ottimi lavori». Un passaggio, quest’ultimo, affatto scontato. Perché, avverte la psichiatra «avere un grande cervello non garantisce assolutamente il successo». «Senza una personalità e degli obiettivi, non serve a niente – conclude Mormando –. Anzi. Di solito si arriva a qualcosa di alto, ma non al successo altissimo, che prevede di piacere alla massa e di partecipare a riunioni molto noiose.
Una dispersione di energie che non fa parte dei desideri delle persone
molto intelligenti. Oggi il creativo fa paura perché
non è controllabile».
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