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mercoledì 24 aprile 2024

UN'IDEA DI FUTURO

 


“Essere Chiesa significa avere un'idea di futuro”

 

«È necessario abbandonare ogni forma nostalgica, puntare sulla formazione, prendere coscienza dei tempi nuovi e superare la logica postmoderna del provvisorio»

 

-         di Francesco Cosentino

 

Le domande tengono la mente inquieta mentre le risposte rischiano di farci addormentare, specialmente quando sono concepite per anestetizzare la fatica del pensare dinanzi alla complessità delle sfide odierne. Ben venga, allora, il dibattito che, a partire dalle riflessioni offerte da Pierangelo Sequeri, sta prendendo corpo in questa settimana. All’irrilevanza cristiana, intesa non tanto in senso sociologico ma come incapacità dei simboli e delle parole cristiane di toccare l’immaginario, di trafiggere il cuore e di segnare la vita dei nostri destinatari, ho voluto di recente dedicare un testo di teologia edito da San Paolo, ritenendo che la domanda già posta da Karl Rahner alcuni decenni or sono, dovrebbe essere messa al centro della riflessione teologica e dell’agire pastorale: come è possibile fare oggi una esperienza del Dio di Gesù Cristo in una società che lo ha messo ai margini? Si tratta di un interrogativo che, però, il cristianesimo deve iniziare a rivolgere a se stesso.

 A poco serve, infatti, continuare ad attardarsi su analisi riguardanti il cambiamento d’epoca, la fine della cristianità, il tramonto del cristianesimo sociologico e l’avanzata del secolarismo, se non attiviamo il coraggio di un passo ulteriore che può essere così declinato: se la cultura occidentale non è più ospitale nei confronti dell’annuncio cristiano, è altrettanto vero che il cristianesimo ha smesso da tempo di essere “culturale”, di saper non soltanto ascoltare ma anche interpretare le sfide del contesto, in un dialogo scevro da manie di superiorità morale e da elementi di clericalismo. Il cristianesimo sembra essere segnato da una sorta di “cultura del declino”. Di recente, a parlarne è stato il presidente della Cei, il cardinale Zuppi, che ha affermato: «Non si può gestire il presente con una cultura del declino, quasi si trattasse solo di mettere insieme forze diminuite, di ridurre spazi e impegno o di agoniche chiamate al combattimento».

 La cultura del declino, che ci impedisce di avere linguaggi, proposte e postura per abitare la cultura odierna, si manifesta in molti modi e, accennarne alcuni, significa anche individuare quelli che possono diventare luoghi della ripartenza, se ci dedichiamo a essi con una appassionata riflessione teologica e pastorale. Anzitutto, è da segnalare il rischio di una assuefazione vittimistica alla questione numerica, che genera spesso una reazione frettolosa, mancante di una lungimirante visione ecclesiale e pastorale: così, si uniscono le poche forze rimaste o ci si trincera dietro un atteggiamento difensivo, limitandosi a conservare l’esistente. Forse ci serve invece il coraggio di prendere sul serio la sproporzione esistente tra il modo in cui ancora oggi pensiamo e viviamo la parrocchia e il numero sempre più ridotto di preti e operatori pastorali, in un contesto divenuto mobile, plurale, e multiculturale.

 La pastorale della soglia. Si tratta di una situazione che non lascia spazio ed energie per pensare una “pastorale della soglia”, centrata su un annuncio del Vangelo che possa intercettare i lontani e dialogare con le domande del nostro tempo e con le sfide culturali, magari anche stimolando al dibattito coloro che sono in vario modo impegnati negli spazi pubblici della città, della politica, della società civile. La questione implica, naturalmente, una riflessione sul ministero ordinato, una nuova lettura dell’istituzione parrocchiale, qualche serio interrogativo sull’attuale configurazione giuridica e sul Diritto canonico, così da immaginare una nuova forma e presenza di Chiesa in dialogo col territorio. Nondimeno, si ha l’impressione che anche riguardo alla proposta, il cristianesimo proceda spesso con linguaggi, formule e prassi che non tengono in conto quanto sia cambiato l’immaginario interiore e concettuale dei nostri contemporanei negli ultimi decenni. Si può continuare a parlare di salvezza, di felicità, di vita umana, di morte e di risurrezione, ma correndo il rischio di non comunicare più nulla se non si tiene conto dei cambiamenti antropologici, della diversità e pluralità di significati che ciascuno conferisce alla propria esperienza di vita, della ricerca postmoderna di un benessere psico-fisico e spirituale sganciato dalla relazione con Dio, della “fede” nell’intelligenza artificiale.

 Le parole dell’evento cristiano, si pensi, per esempio, alla professione di fede nell’ormai vicino anniversario di Nicea, non andrebbero nuovamente tradotte e offerte attraverso una nuova mediazione linguistico-concettuale? Infine, rispetto alle sfide della cultura e a quelle pastorali, l’impressione è che anche il cristianesimo proceda nel solco postmoderno della logica del provvisorio: manca una visione e un pensare a lungo termine, si va avanti per singhiozzi e frammenti. In questo senso, la cultura del declino si esprime nel ripiegamento in forme di religiosità intimiste e, ancor più spesso, in forme devozionistiche che dispensano dalla fatica di pensare e dall’onere di scelte innovative e coraggiose. Sequeri ne ha parlato come «ripiegamento nella pura devozione di gesti e immagini vagamente connesse al mistero cristiano», mentre Righetto ha fatto giustamente riferimento alle “paccottiglie” spirituali che si trovano nelle librerie religiose, generando una sorta di “sottocultura” cattolica. Di certo, c’è un investimento che manca e, se parliamo di rapporto dialogico con la cultura, l’investimento principale dovrebbe essere quello della formazione. Mentre il secolarismo ha ormai trasformato l’immaginario interiore della vita delle persone, cambiando i simboli attraverso cui interpretano la vita e abitano il mondo, la cura per la formazione e per la preparazione culturale, biblica e teologica di laici e preti non è ancora assunta come un impegno imprescindibile delle agende pastorali.

La formazione. Qualche giorno fa, sul tema, è tornato il teologo Giuseppe Lorizio, affermando che il credente non può ignorare, e anzi deve interpretare e affrontare una cultura come la nostra che si mostra nella veste di un “politeismo” dei saperi e dei valori, in una compagine quanto mai variegata e plurale di visioni. E invece, si ritiene che sia più urgente far fronte ai bisogni di oggi che investire per il domani. E sulla formazione culturale, continua a pesare l’antico e sempre nuovo pregiudizio, secondo cui studiare e approfondire non serve, perché basta stare vicini alla gente, dir Messa e presiedere qualche atto di devozione. Il rischio dell’autoemarginazione del cristianesimo diventa più che concreto, che si tratti di rifugiarsi nostalgicamente nell’idealismo dei bei tempi passati o di chiudersi in forme di cristianesimo moralista e devozionale. Qualcosa può cambiare se e quando avremo il coraggio di rimettere mano – senza timori e senza ideologiche contrapposizioni – a una nuova visione ecclesiale. Ma ciò non avviene continuando a scommettere su una generale visione pastorale, senza la fatica di pensare – e di pensare teologicamente – il futuro del cristianesimo.

 

www.avvenire.it



lunedì 4 dicembre 2023

L'IMPREVISTO DI PERIFERIA


L'ITALIA, 

LE PAURE, 

IL 2050

-         di Marina Corradi

 

Si direbbe che abbiamo paura. La parola torna insistentemente nel rapporto Censis sull’Italia del 2023. Abbiamo paura di un sacco di cose: dei cambiamenti climatici, di una guerra, dei flussi migratori, di un default dello Stato. Sembriamo una famiglia invecchiata che rimpiange una stabilità e un benessere perduti. La sola paura non apertamente espressa dagli intervistati è quella del declino demografico, di tutte, però, la più oggettiva. Anno 2050, saremo in 4,5 milioni di meno. Già oggi i 18-34enni, quelli che entrano nel lavoro e hanno figli, sono poco più di 10 milioni, mentre nel 2003 superavano i 13 milioni. In vent’anni abbiamo perso tre milioni di giovani.

 Tre milioni di figli non pensati e attesi, o cancellati, perché si temeva di non poterli mantenere. Perché non c’erano più i nonni vicino a casa, ma nemmeno ancora i nidi. Figli che non sono nati nel mito di una autorealizzazione individualistica, nel fallimento dei matrimoni, figli che spaventavano giovani coppie dal lavoro precario. Tre milioni di meno. Dunque, una riduzione netta della popolazione attiva, e l’aumento verticale, in parallelo, degli ultrasessantacinquenni. Il declino segnalato dai cattolici per primi, trent’anni fa, va concretizzandosi.

 «Ciechi davanti ai presagi, passivi come sonnambuli», ci descrive il Censis. C’è del vero: a livello popolare la coscienza delle crisi c’è, ma come accompagnata da un senso di impotenza, soprattutto nei giovani; di rassegnazione, nei più anziani. Non appena sui media si allontanano le vertigini del Covid, della guerra in Ucraina e ora in Israele e a Gaza, sui tg un’onda di cronaca nera. Per non pensare? Poi come sempre conti pubblici al limite, multe dalla Ue, scontri, liti, e fra poco Sanremo, di nuovo. Mai uno sguardo a lunga distanza, uno sguardo più in là. Sarà perché di certe previsioni cupe non giova dire, nei programmi elettorali. Difficilmente una prospettiva più ampia su ciò che attende il Paese porterebbe dei consensi, e siamo nella politica dei “mi piace” sui social, dell’incasso immediato. Che faranno dunque gli italiani del 2050? Chi lo sa, mancano 26 anni, nel frattempo noi speriamo che ce la caviamo. Ma quegli italiani sono i nostri figli, e saremo noi, magari ottuagenari. Bisognosi di cure, e a volte con nessuno accanto. Di tutte le paure degli italiani, quel 70 per cento che teme per Sanità e assistenza ne ha buone ragioni. E si comprende anche il gran favore per l’eutanasia, che altro non è che tangibile paura. Triste destino per i baby boomers, gli italiani più vaccinati, nutriti e istruiti di sempre. Il posto super garantito, la pensione a sessant’anni. Una generazione che non ha visto la guerra e ha perso la spinta dei suoi vecchi, che ricostruirono il Paese.

 Inevitabile declino dunque? Le scienze statistiche si basano quanto è accaduto, e quindi sul ragionevole andamento di ciò che è prossimo. Tuttavia, mancano di una categoria fondamentale: non contemplano l’imprevisto. Il Covid, cinque anni fa, sarebbe sembrato fantascienza. I tank russi in Europa anche.

 Non necessariamente nella storia l’imprevisto è un disastro. Imprevisto era anche che un polacco sul soglio di Pietro scuotesse il Muro di Berlino. Sono gli uomini che fanno la storia, ma bisogna farli nascere e educarli. Un orto oscuro e paziente, nessun risultato per trent’anni. Poi, magari, nascono figli nuovi.

 Ci occorrono dei padri e delle madri, dei maestri e dei professori. Non solo “bravi” ma buoni, capaci di dare loro le ragioni del vivere. Maestre come quelle di una volta ci servono, che alle famiglie povere dicevano: questo, fatelo studiare.

 Ora, tutto ciò richiederebbe una tensione al bene comune. L’abbiamo ancora? Gli immigrati detti “invasori” vengono da guerra o miseria, e portano con sé, almeno in molti, la gran voglia di vivere di chi ha visto la morte. Chissà chi c’è, nella moltitudine di ragazzini che imparano ora l’italiano. Quanta voglia di ricostruzione e di pace potrebbero insegnare a noi, se noi da cristiani sapessimo dimostrare loro che la vita è buona, e ha un senso.

 «Un imprevisto è la sola speranza», scriveva Eugenio Montale, all’ultimo verso di una poesia su un viaggio totalmente programmato e scontato. L’imprevisto abita forse in aule di periferia, fra i ragazzi dei nostri oratori, nelle Maternità italiane piene di neonati cinesi o africani. Il 2050 sta già cominciando. Accogliere, volere bene, insegnare l’italiano, fare studiare i migliori. Un popolo si fabbrica così, è accaduto sempre: in quell’imprevisto tenace che è la vita, troppo grande per le statistiche.

 www.avvenire.it

 

sabato 1 agosto 2020

CASTIGAMATTI E PRESTIGIATORI. IL DECLINO DELL'ITALIA


L’Italia era un Paese 
in declino 
anche prima della pandemia


Il mancato rinnovamento della classe dirigente pubblica, la secolare questione meridionale, il protrarsi di un capitalismo anomalo e prenditore, l’inseguimento di ideologie morte e sepolte, sono solo alcune delle crisi che lo Stato italiano attraversava prima del coronavirus. Crisi che vengono da lontano e che oggi si pagano a caro prezzo
Pixabay
Pluto è una commedia di Aristofane, andata in scena per la prima volta ad Atene, alle Lenee del 388 a.C. Prende il nome dal dio greco della ricchezza, Pluto appunto, ed è un apologo ironico sulla diseguale distribuzione tra gli uomini del denaro, movente principale delle azioni umane. Il protagonista è un anziano cittadino di Atene, il povero ma onesto Cremilo, che insieme al servo Carione si reca presso l’oracolo di Delfi.
Avendo infatti notato che nel mondo la ricchezza non è suddivisa equamente e soprattutto non premia gli onesti, Cremilo intende chiedere all’oracolo se anche il proprio figlio sia destinato a restare povero o meno. La risposta dell’oracolo è che egli dovrà seguire la prima persona che incontrerà all’uscita dal tempio. Quando Cremilo e Carione escono, incontrano uno straccione cieco, e cominciano quindi a interessarsi a lui. Ben presto il cieco si rivela essere Pluto, dio della ricchezza.
Convinto che la diseguale distribuzione della ricchezza derivi dalla cecità del dio, Cremilo si offre allora di ridargli la vista, in modo che Pluto possa distinguere tra onesti e disonesti e premiare solo i primi. Tuttavia, arriva la personificazione della Povertà che lo ammonisce sui rischi di tale proposito. Cremilo però non ascolta i consigli della Povertà e riesce a far recuperare la vista a Pluto grazie all’intervento miracoloso di Asclepio.
La conseguenza è che tutti diventano ricchi e benestanti, ma ciononostante le lamentele sul nuovo stato di cose sono molte: un sicofante va in rovina poiché non ha più gente da denunciare ed una vecchia non trova più giovani che vogliano soddisfarla a pagamento. Persino Zeus si lamenta che gli uomini non hanno più bisogno di fare offerte agli dei, ed Ermes, dio degli affari e degli arricchimenti, deve cercarsi un nuovo lavoro. Tuttavia, i malumori si placano e nel finale tutti si avviano in corteo per accompagnare Pluto presso la sua dimora sul Partenone.
L’opera tratta, come numerose altre commedie dell’autore, della possibilità di realizzare una grande utopia, in questo caso quella dell’eliminazione della povertà e di una distribuzione della ricchezza che premi gli onesti. I risultati però non sono quelli sperati e sono numerosi, tra uomini e dei, coloro che si lamentano del nuovo stato di cose.
Le argomentazioni più importanti vengono dalla Povertà, la quale afferma che grazie ad essa gli uomini sono spinti ad impegnarsi e a lavorare per costruirsi una migliore situazione di vita, mentre da ricchi si lasciano andare alle mollezze e non producono più nulla di positivo. E questo è ancor più vero per gli uomini politici, che una volta ottenuti potere e ricchezza perdono ogni scrupolo e cominciano ad arricchirsi a scapito del bene comune. Gli effetti di quest’utopia si fanno imprevedibili e non prefigurano affatto un mondo migliore, come sperato da Cremilo.
Prima che la pandemia si abbattesse sull’Italia con il carico di lutti, di paura del diverso e di timori per il presente e per futuro, essa era già un Paese in declino che scivolava verso la marginalità sia in Europa che nel mondo. Non è più necessario ricorrere alla messe di dati che i vari e qualificati Istituti di Ricerca mettono ogni giorno a disposizione. La cronaca sempre più spietata ci restituisce una narrazione inequivocabile.
Il Paese si è fatto trovare inerme e arretrato, con ancora irrisolta la secolare questione meridionale e sta perdendo ulteriormente terreno perché ha permesso che in questi anni la distanza tra la propria società e quella della maggior parte dei Paesi occidentali con cui inevitabilmente è chiamato a misurarsi, diventasse incolmabile.
I tanti appuntamenti a cui non ha saputo presentarsi, il mancato rinnovamento della propria classe dirigente pubblica, il protrarsi di un capitalismo anomalo e prenditore, l’inseguimento di ideologie altrove morte e sepolte hanno generato un clima di sfiducia da cui i giovani che possono fuggono alla prima occasione, mentre gli anziani scuotono il capo rassegnati. Non si tratta soltanto dell’ormai piena consapevolezza di avere davanti prospettive di molto inferiori a quelle dei propri genitori o nonni, né della conclamata crisi di attendibilità che logore istituzioni si affannano quotidianamente a manifestare.
Una grande malinconia caratterizza l’intero Paese, pur manifestandosi con modalità sociologiche e culturali specifiche nelle molte e diverse zone geografiche di una penisola troppo lunga. Nel nord si è esaurita da anni la spinta propulsiva che sosteneva il cuore produttivo di un’Italia della creatività, dell’invenzione, dell’originalità coniugate nel clima familiare della piccola e media impresa, come l’hanno definita Susanna B. Stefani e Piero Trupia nel saggio L’impresa conviviale Protagonisti, regole e governance del modello italiano, Egea, 2004.
Travolta dalla pressione fiscale cresciuta in modo esponenziale e oppressa dalla più vasta e costosa burocrazia del Pianeta, essa non ha potuto investire in ricerca e innovazione ed ha preferito de localizzare per sopravvivere, cercando altrove di ricostruire il proprio futuro, dove ancora era possibile rispondere ad una domanda di mercato attestata sui beni primari di un inedito consumismo.
Nel Sud, ormai totalmente controllato dalle diverse seppur mutanti organizzazioni criminali, è lo Stato stesso che è comparso solo due volte: la prima come datore di lavoro pubblico, effimero riparatore della scelta miope di non far decollare lo sviluppo produttivo, la seconda come insieme di istituzioni sempre più impotenti dinanzi al dilagare del bisogno, della malattia, del degrado ambientale e sociale e, talvolta, contagiate dal medesimo.
Il declino del Paese viene da lontano perché si è radicato in almeno tre scelte che oggi si pagano a caro prezzo. La prima scelta è stata il progressivo allontanamento di quanto dall’Unione Europea perveniva, già in anni lontani, in tema di suggerimenti opportunità di conoscenze e metodologie, direttive non vincolanti che, però, avrebbero aiutato un progresso lento ma costante.
Per l’Italia l’Europa è stata solo una risorsa economica da spendere nel clientelismo e nello spreco. Ne è un segnale evidente la potente barriera linguistica che vede solo una percentuale minima di abitanti conoscere altre lingue (intendo proprio conoscere e praticare .. e non studiare a scuola per qualche anno). Si pensi al danno fatto dal doppiaggio cinematografico, quasi assente negli altri Paesi, dove al contrario proprio il mezzo televisivo o il cinema ha contribuito significativamente all’avvicinamento almeno all’inglese che oggi la maggior parte dei nati tra il 1960 e il 1990 comprende bene nei paesi scandinavi e sufficientemente in quelli dell’est europeo.
Chi scrive ha vissuto in più occasione esperienze di percorsi di scambio e di studio promossi dal CEDEFOP, l’agenzia europea che si occupa di apprendimento e di formazione promuovendo in paesi diversi, alcuni dei quali allora non erano ancora entrati nell’Unione, seminari molto impegnativi, ma del tutto spesati, ed ogni volta ha constatato lo stupore e la sorpresa degli altri partecipanti nell’incontrare un italiano.
A Oslo ed a Stoccarda, a Tallinn e ad Helsinki i workshop erano affollati da estoni, lettoni, danesi, norvegesi, finlandesi mandati dai propri governi a capire le nuove strade dello sviluppo e ad acquisire gli strumenti per gestirlo. Anni dopo abbiamo visto la differenza che si rispecchia nella risibile presenza di funzionari italiani nei ruoli amministrativi dell’Unione Europea, anche a motivo del gap linguistico.
Per noi è sufficiente emanare proclami a difesa della lingua italiana nel contesto europeo. Quindi non solo non ci sforziamo di aprire la mente ma in più vi costruiamo sopra una protesta da ridere non certo per l’indubbio valore del nostro idioma quando per il provincialismo con cui la conduciamo.
Oggi paghiamo quelle mancate opportunità, recitando presso i paesi cosiddetti frugali il ruolo degli accattoni di soldi a prestito o a fondo perduto per scaricarne il costo sui figli e nipoti per i prossimi trent’anni, dimenticando che essi erano “in braghe di tela” quando noi celebravamo il miracolo economico operato dal Piano Marshall e dai pochi illuminati imprenditori. Hanno usato bene l’Europa e noi oggi, rimasti in coda, ne mangiamo la polvere.
Una seconda drammatica scelta è stata il mantenimento di un capitalismo familiare sovvenzionato dallo Stato, luogo della massima ambiguità economica, garantendone gli errori attraverso la cassaforte di Mediobanca e scaricandone le perdite sui piccoli risparmiatori. Un sistema di cui sono stati custodi gli gnomi della finanza nostrana a scuola dei quali molti sono poi andati non riuscendone però ad esserne all’altezza, per cui alla misteriosa riservatezza di Cuccia o alla palese contiguità con il crimine di Sindona, entrambi menti raffinatissime seppur diversamente orientate, si è sostituita la rapacità di Calvi, la grandeur di Geronzi prima e l’arroganza dei furbetti del quartierino dopo.
Nel frattempo, il sistema bancario andava in frantumi con la legge Amato che avrebbe funzionato sicuramente altrove ma che in Italia, piuttosto che bonificare ove necessario, ha solo invitato a pranzo squali e piranha che hanno fatto a pezzi Istituzioni plurisecolari e inoculato nei risparmiatori il veleno della speculazione, con i disastri che conosciamo.
Infine, hanno avuto risalto l’incapacità di porre un freno agli appetiti delle corporazioni (ordini professionali, università, fondazioni bancarie ecc.) e la mancanza di onestà intellettuale con cui riconoscere che alcune follie ideologiche non potevano più essere prese in considerazione in un Paese che le aveva comunque realizzate, seppur attraverso un immenso debito pubblico. Ciò ha generato un’azione combinata che ha ulteriormente differito ogni presa di coscienza e accelerato il declino.
Era inevitabile che sulle macerie facesse la propria comparsa, il Bagatto, epigono del già evocato dio Pluto che, suonando pifferi di ogni genere ha conquistato almeno due generazioni veramente convinte che il mondo fosse quello del Mulino Bianco e che l’Italia fosse solo un Paese “dai ristoranti pieni” incompreso e ingiustamente criticato in Europa e nel mondo. Ercolino è di nuovo in piedi e studia da “ago della bilancia” sperando nel laticlavio a vita.
Taccio sulle brevi parentesi dei governi di centro sinistra, pallidi ologrammi di valori mai creduti e meno che mai praticati, ma impegnati esclusivamente a procurarsi in ben due occasioni sprecate una foglia di fico dietro cui nascondere la propria strutturale inadeguatezza a traghettare il Paese verso il cambiamento.
Ora è giunto il tempo in cui l’intero circo sta venendo giù, non per gli applausi, quanto per il fragore con cui sono entrate in scena due categorie di mattatori: i Castigamatti e i Prestigiatori. Alla prima appartengono coloro che trovano ogni volta un nemico da additare e verso cui convogliare la rabbia e la delusione della gente normale. Tra di essi si distinguono quanti propongono una visione del Paese come se l’Italia fosse l’Arcipelago delle Isole Lofoten o del Canale della Manica e non un significativo tassello di delicatissime dinamiche internazionali.
Nella seconda categoria si affollano fate ignoranti che, nonostante ciò, si ritengono portabandiera del rigore prima morale, poi giudiziario, poi economico e che probabilmente credono che Aristofane sia uno degli aristogatti. Essi inseguono l’utopia contro cui proprio il commediografo greco ammoniva e stanno seminando nel paese il virus dell’assistenzialismo diretto, superando in ipocrisia quello storico e alimentando l’idea che il reddito debba provenire da uno Stato che nazionalizza un po’ tutto, pagandolo con il denaro comunitario destinato agli investimenti. Amano la Cina e ne stanno costruendo l’avamposto in occidente.
C’è chi ha proposto il Dio Po e le danze celtiche, chi il ritorno della lotta di classe, alla produzione di massa e alla decrescita felice, chi, ancora, spacciando le nuove tecnologie, che altrove hanno contribuito a cambiare il mondo, come un messianico strumento per rifondare la democrazia e chi infine sta dando il colpo finale al palo centrale del tendone da circo, riproponendosi quale Demiurgo che, in modo camaleontico e suadente, ritiene se stesso l’insostituibile leader in grado di salvare il Paese. Triste figura che con i propri accoliti replica l’eterna dinamica circense tra il clown bianco e l’Augusto.
Alla luce dei fatti, e dei numeri, non prevarranno probabilmente né i Castigamatti né i Prestigiatori, pallidi burattini che recitano copioni scritti da altri che vogliono che entrambi siano costretti a convivere, a mescolarsi, a ostacolarsi gli uni con gli altri, rendendo ancora più confusa ed incomprensibile la strada verso il futuro.
In ogni essere umano e in ogni società un istinto sopito che, nei momenti di grande drammaticità si riscuote e permette di attingere a risorse che non si immaginava di avere. La chiamiamo resilienza ma è l’istinto di sopravvivenza, che ben riconosciamo sui volti dei migranti, che porta i singoli o i gruppi a ricercare altrove condizioni di vita migliore per sé e per la prole e le società a ribellarsi, talvolta in modo cruento e incontrollato, quando la misura è veramente colma, i figli piangono e gli anziani muoiono di abbandono, non perché siano dei barboni ma semplicemente perché non possono più permettersi di riscaldare quelle case, di cui, IMU a parte, sono paradossalmente “padroni”.
Non è facile immaginare verso quale delle due strade si dirigerà l’istinto di sopravvivenza degli italiani, ma è sotto gli occhi di tutti che se la prima è già stata imboccata dai giovani più coraggiosi e non solo talentuosi e dalle imprese più avvedute, la seconda potrebbe rimanere l’ultima via d’uscita per chi, come un tempo si diceva “non ha da perdere altro se non le proprie catene”.
Governare con la crisi è il titolo di un libro di Giulio Andreotti, pubblicato nel 1991 da Rizzoli, in cui si ricostruisce il clima di perenne incertezza politica che caratterizzò l’Italia a partire dal dopoguerra. Sono pagine che vengono da lontano, rivelando l’innegabile lucidità dell’uomo politico più controverso che l’Italia repubblicana abbia mai avuto. Tuttavia, l’Andreotti storico è finissimo analista e spietato patologo di una lunga stagione iniziata con Badoglio e mai conclusa. Nel sigillare il proprio libro per i posteri, appone un marchio di fuoco, definendo quale destino nazionale «la stabile instabilità della prima Repubblica». Oggi mentre agonizza la seconda e si prefigura la quarta, probabilmente dovrebbe aumentare la dose giornaliera di aspirine.
Più vicino alla realtà odierna è il saggio di Pierre Dardot e Christian Laval Guerra alla democrazia, pubblicato nel 2016 da DeriveApprodi, così recensito da Benedetto Vecchi «Un saggio partigiano da usare come antidoto a chi invoca populismi tinteggiati di rosso per sovvertire la società del capitale» nel cui primo capitolo, intitolato Governare la crisi, si legge:
«La parola crisi utilizzata negli ultimi trent’anni per indicare un meccanismo oggettivo indipendente dall’azione umana, maschera di fatto la realtà di una guerra politica portata avanti da diversi attori, privati e pubblici, nazionali e globali. Da questo punto di vista la politica, in quanto esercizio del potere, non è nient’altro che la forma con la quale viene instancabilmente portata avanti la guerra tra classi da parte dell’oligarchia politico-finanziaria.
Questa guerra ha per posta in gioco l’organizzazione della società e per strumento l’economia. Ha l’obiettivo di trasformare, talvolta distruggere, le istituzioni sociali che garantivano una relativa autonomia individuale, familiare, e più in generale collettiva di fronte al mercato del lavoro e alla subordinazione nei confronti del capitale. »
Alessandro Pajno, classe 1948, docente di Diritto amministrativo, ex presidente del Consiglio di stato, capo di gabinetto di Mattarella e di Ciampi, all’Istruzione, al Bilancio e al Tesoro, segretario generale della presidenza del Consiglio con Romano Prodi e poi sottosegretario al ministero dell’Interno, è uno di quegli uomini di cui il grande pubblico non conosce il volto e stenterebbe a indovinarne le funzioni, malgrado abbia servito lo Stato, e nei suoi gangli vitali, per tutta la vita.
Pajno è infatti la grande intendenza d’Italia. E ancora oggi, da illustre pensionato, esprime la dottrina dell’esangue potere delle istituzioni contrapposta, come in uno specchio, al potere sanguigno della politica.
Intervistato da Salvatore Merlo su Il Foglio del 14 aprile ha spiegato: «Pensano che governare significhi comunicare, ma occorre la gestione. C’è una battuta che a me piace ripetere: Il populismo spesso intercetta problemi seri ma dà sempre le risposte sbagliate’. Ecco, sembra che nessuno voglia fare la fatica del lavoro necessario a cambiare le cose.»
Secondo Pajno, uno dei guasti che affliggono l’Italia, che ne frenano la capacità di sviluppo anche economico, è l’eccesso di leggi, «contraddittorie, sedimentate l’una sull’altra, di difficile interpretazione. L’effetto di una miopia, e di una malattia propagandistica, cioè dell’idea che le leggi siano palingenetiche, che basti una norma a risolvere un problema. Al punto da aver trasformato le leggi in bandiere, in strumenti retorici, fin dai nomi con le quali sono battezzate.
Pensateci un attimo. “La buona scuola“. Oppure: “Legge Spazzacorrotti“. Spazzacorrotti dà l’idea di un colpo di maglio che cancella ogni cosa. Ma sono figure retoriche che servono soltanto a saltare i problemi a piè pari. E infatti i problemi sono venuti al pettine con le sentenze della Corte dei diritti dell’uomo, della Corte costituzionale… Di leggi ce ne sono anche troppe. Se il sistema non funziona in modo adeguato, se ci si perde in una serie di regole astruse, la causa non è soltanto in un certo tipo di cultura e di mentalità della burocrazia o nella sua mancanza di qualità ma, innanzitutto, è proprio in quel reticolo di leggi, regolamenti, disposizioni primarie e secondarie che circondano lo svolgimento dell’azione amministrativa».
E si ritorna dunque a Max Weber, qualunque sistema economico richiede una amministrazione efficiente e una giustizia funzionante. Dice infatti il professor Pajno: «Per fornire un contributo alla ricostruzione, sarebbe quanto mai opportuno un autentico cambiamento culturale, che riscopra il valore autentico della discrezionalità dell’amministrazione. Le leggi devono essere poche e chiare. Le decisioni, in base a quelle leggi, le prende l’amministrazione. Solo così rilanciamo l’Italia».
E infatti ogni volta che in Italia, in ogni campo, si è posta una questione, la risposta è stata facciamo una legge o istituiamo un ministero. Un guasto culturale. Una deriva che ha piegato l’attività di governo, che dovrebbe essere capacità di scegliere ragionevolmente, alla ricerca del consenso più immediato. La nostra politica è più brava a preparare le elezioni che a impegnarsi nella fatica di governare”.
Ma la crisi drammatica del Covid19 può essere anche un’occasione di riscatto, di ammodernamento, l’opportunità di modificare i guasti storici di un paese che già prima della depressione virale non riusciva a crescere e funzionare. «La semplificazione legislativa è un obiettivo alto. Non semplice. Solo Dio è semplice. Ma si può fare”, dice questo professore palermitano tra gli amici più fidati del Presidente Mattarella di cui è anche vicino di casa e che la macchina dello Stato la conosce bene come pochi altri, ma che pure deve credere nella Provvidenza quale forza, spesso chiamata in causa troppo e a sproposito, che trasforma la storia umana e fornisce il modo per spezzare il circolo che aggiunge male al male».