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mercoledì 12 giugno 2024

ALLENARE ALLA VITA




Qual è il vero compito di un genitore oggi? È giusto fare tutto il possibile per rispondere alle richieste dei propri figli? Come si può tornare a essere genitori autorevoli?

Attraverso dieci riflessioni inedite, Alberto Pellai ci offre una visione critica dei problemi alla base dell’emergenza educativa che affligge il nostro tempo, per poi fornirci numerosi suggerimenti pratici per riaffermare il ruolo genitoriale davanti alle sfide del Terzo Millennio.

Nel travagliato viaggio verso l’età adulta, è importante prima di tutto riconoscere che crescere significa diventare responsabili, accettare i limiti, gestire i propri impulsi e imparare a relazionarsi con gli altri; il rischio, in caso contrario, è quello di perdersi e di finire in balia delle proprie fragilità.

La società contemporanea ha infatti introdotto nuovi scenari e opportunità per i giovani, ai quali si accompagnano però altrettante complessità e insidie: la diffusione pervasiva della cultura digitale e dei social media ha alterato profondamente il paesaggio educativo, generando spesso un vuoto interiore che compromette la genuina felicità dei nostri figli.

Le ricerche e le evidenze cliniche rivelano inoltre che disagio e sofferenza sono in crescita tra gli adolescenti, sottolineando un’urgente necessità di comprendere le cause di questo fenomeno.

Nel suo nuovo libro Alberto Pellai si pone dunque una domanda fondamentale: cosa sta accadendo ai nostri ragazzi e perché? Attraverso un’analisi approfondita, l’autore invita genitori e educatori a riscoprire e a riaffermare il proprio ruolo, fornendo strumenti per affrontare le sfide educative in modo più consapevole ed efficace.

L’obiettivo è quello di «allenare» i ragazzi a superare la complessità della vita attingendo alle proprie risorse, e di guidarli verso una felicità autentica e duratura. 

Pellai ha evidenziato il paradosso in cui si trovano le mamme e i papà (ma anche tutti gli educatori) del terzo millennio: pur cercando di crescere i figli più felici di sempre, gli indicatori della salute mentale dei ragazzi sono tra i peggiori di sempre. Qualcosa non ha funzionato nell’allenamento alla vita impartito ai figli negli ultimi 15-20 anni. Un ruolo importante lo hanno avuto smartphone e social media, che hanno impattato negativamente sul benessere dei giovani, portandoli a trasferire gran parte della loro vita nel mondo virtuale.

I ragazzi di oggi spesso preferiscono interagire online piuttosto che di persona, giocando ai videogame invece che a giochi di movimento come il nascondino. Ma questo, avverte Pellai, porta a una “deprivazione sociale”: mancano il contatto fisico, lo sguardo negli occhi, i conflitti della vita reale che sono fondamentali per la crescita. Inoltre, il mondo virtuale dà gratificazioni istantanee che creano dipendenza.

Le tre regole per essere genitori autorevoli

Come fare allora per essere genitori in grado di guidare i figli fuori da queste dinamiche negative? Pellai indica tre principi fondamentali:

  1. Fare attenzione più al percorso che al traguardo, concentrandosi sul processo di crescita piuttosto che solo sui risultati finali.
  2. Coltivare la dimensione spirituale, aiutando i figli a porsi le grandi domande sul senso della vita.
  3. Sostenere il passaggio dall’io al noi, educando i figli a collaborare anziché a diventare “supereroi” individualisti.

 


mercoledì 17 aprile 2024

PINOCCHIO e IL CONIND


IL SEGRETO 

PER

 RIUSCIRE


-       -   di Alessandro D’Avenia

 

Sulle fatiche degli attuali adolescenti descritte in un recente Ultimo Banco un lettore mi scrive: “Ho 73 anni, la mia generazione non ha avuto questi problemi. Io studiavo, una parte di tempo libero l'impiegavo per i divertimenti, l'altra parte ad aiutare mio padre nei nostri vigneti e cantina annessa. Potevo anche esimermi ma lo facevo volentieri, come facevano i miei coetanei con i genitori agricoltori, artigiani o commercianti. E io e i miei amici siamo cresciuti senza problemi esistenziali. Ora mi chiedo e Le chiedo: è possibile che questi problemi dei giovani siano dovuti all'aver trascorso l'adolescenza nella bambagia, troppo coccolati e sempre esauditi dai genitori? Quando qualche padre mi racconta di problemi esistenziali del figlio rispondo: “Fai lavorare tuo figlio”. Come fece un mio amico, titolare di una vetreria con una quarantina di dipendenti, con il figlio che immaginava di dirigere subito l’azienda; invece, il padre lo mise alla catena di lavorazione vetri dicendogli: “Se vuoi comandare devi conoscere il mestiere di vetraio”. È moralismo generazionale, boomer contro generazione Z, con autoassoluzione ottenuta dando la colpa ai genitori (gen X o Y che però sono figlie dei boomer) o c'è altro? Avere 18 anni nel 1969 è lo stesso di averli nel 2024? “

 I problemi esistenziali di cui si parla nella lettera, in misura e modi diversi, sono toccati a tutti nella storia umana. Perché? Esistenziale è l'aggettivo derivante da esistenza (latino ex-sisto: porsi fuori), quindi esistere è: uscire, venire al mondo. Infatti, le storie, dall'Odissea a Pinocchio narrano di qualcuno che affronta il faticoso viaggio verso il compimento: vivere è (ri-)uscire. Se esistere, che è nascere del tutto, diventa un regredire, allora qualcosa manca alla (ri-)uscita, cioè al rapporto tra evoluzione (natura) e iniziazione (cultura). Che vuol dire?

La natura in millenni ha fatto sì che la maturazione abbia un ritmo preciso: la plasticità del cervello, che è in tutto il corpo, è esplosiva nei primi anni di vita e poi nella pre- e adolescenza, con un rallentamento in mezzo (le elementari) utile a consolidare, di quanto acquisito nei primi sei anni, solo ciò che è necessario a sopravvivere. Ma che differenza c'è tra l'esplorazione infantile (la mano nella presa) e quella adolescenziale (la mano sulle chiavi di casa)?

Lo scopo. Il bambino deve scoprire il necessario a stare al mondo (essere amato, camminare, lavarsi, parlare, giocare...), i limiti entro cui la vita fiorisce e oltre i quali si distrugge. Il pre- e adolescente invece può generare vita in proprio, il corpo-cervello, impregnato in ogni cellula dall'eros, ha la spinta per uscire di casa e farne una propria. Questa nuova curiosità esplorativa serve a far esperienza di sé senza il copione dettato dai genitori, per scoprire a che cosa si è chiamati, lasciare il nido per costruirne uno nuovo. Se l'infanzia è fatta per imparare a uscire dal grembo, l'adolescenza per imparare a uscire da casa. Nella prima lo scopo è «stare al mondo che c'è», nella seconda è «fare un mondo nuovo». Attorno ai 20 anni il cervello-corpo rallenta di nuovo (fino alla fine dei giorni) e si concentra per portare a compimento la propria originalità (dare origine a).

L'educazione del bambino-adolescente incanala l'energia evolutiva attraverso una iniziazione. Tutte le culture, antiche e moderne, con le loro agenzie educative strutturano infatti pratiche formative in base al modello di uomo/donna a cui mirano e che culminano in un rito di passaggio: l'ingresso nell'età adulta attraverso una «morte» rituale. Porto due esempi illustri della nostra tradizione, anche se ce ne sono per ogni parte del mondo. Ulisse per entrare nel mondo adulto deve affrontare la caccia al cinghiale in cui, rischiando la vita, si procura l'indelebile cicatrice grazie alla quale la sua nutrice, 20 anni dopo, lo riconoscerà. Cristo a 12 anni, in visita a Gerusalemme con i genitori, si allontana da loro ai quali, quando lo ritrovano, angosciati, dopo tre giorni, risponde: «Perché mi cercavate? Non sapevate che devo compiere le cose del Padre mio?». Un'altra appartenenza, un'altra casa da fare. L'iniziazione oggi è caotica e inefficace: il bambino viene adultizzato e l'adolescente infantilizzato.

Inoltre, i riti di passaggio sono esangui: esame di maturità e forse la patente... quel che resta di un passaggio «esistenziale» ridotto al fare lavorativo (nessuna pratica di cura di sé, degli altri, della comunità) e trasformato in faraoniche feste di 18 anni. Ma fare una casa nuova e che stia in piedi è molto di più, casa è infatti una vita fondata su: a) conoscenza di se stessi (capacità e limiti), b) ruolo creativo per la comunità attraverso un lavoro il più possibile rispondente alle proprie attitudini (vocazione), c) relazioni buone (coppia, amicizia e cittadinanza).

L'iniziazione deve quindi essere: a) personale b) vocazionale c) relazionale. Non basta lamentarsi se i genitori oggi sono più o meno permissivi, perché è un'intera cultura a non fornire un'educazione capace di trasformare l'energia vitale in promessa di futuro, forse perché quel futuro, con i suoi comportamenti, se lo è mangiato, in Italia proprio a partire dall'ultimo quarto del XX secolo, come dimostra Luca Ricolfi in La società signorile di massa. Non riusciamo a (r-)innovare i processi educativi perché continuiamo a improvvisarli o a ispirarli a modelli inadeguati. Un esempio: la nostra scuola è la stessa di cento anni fa, con banchi fissi e studenti seduti 5-6 ore al giorno. Poteva andar bene per chi doveva essere alfabetizzato e messo dietro una scrivania, oggi non più.

Al tempo dell'autore della lettera le pratiche descritte (studio, passioni, relazioni, lavoro) offrivano un'esperienza di mondo sufficiente a (ri-)uscire, tutte le possibilità erano aperte. Oggi? Le tappe dell'età evolutiva non sono cambiate, il cervello-corpo continua a dare la spinta «esistenziale», ma l'iniziazione è inefficace e/o desincronizzata. Gli adolescenti sono smarriti: il corpo-cervello li spinge a uscire, ma loro non sanno verso dove.

Il CONIND e Pinocchio. C'è un virus culturale che corrode l'iniziazione e che chiamo CONIND: il COnsumismo che scambia la vita felice con la vita piena, il NIchilismo che azzera qualsiasi scopo o risposta ai perché, l'INDividualismo che appiattisce la socialità all'usarsi. Questo virus ai ragazzi lo abbiamo regalato noi. Nel finale del Pinocchio di Collodi non è il legno a diventare carne come nella semplificazione disneyana, infatti il Pinocchio di carne chiede: «“E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?”. “Eccolo là”, rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte». Per (ri-)uscire nella vita bisogna far morire l'io legnoso e asservito ad aspettative e a modelli fallimentari, per far nascere il sé libero e autentico. L'educazione serve a trovare il coraggio per liberarsi dai fili: diventare sempre più liberi è il compito di una buona iniziazione, cioè capaci di ricevere il mondo, custodirlo e moltiplicarlo, liberi in latino erano i figli capaci di ereditare.

Ma quale mondo diamo in eredità? «“Levatemi una curiosità, babbino: ma come si spiega tutto questo cambiamento improvviso?” gli domandò Pinocchio saltandogli al collo e coprendolo di baci. “Questo improvviso cambiamento è tutto merito tuo”». E il lettore sa quanto è costato il cambiamento, che ogni nuova generazione, come Pinocchio, deve fare. Educare è mettere in condizione, negli anni fatti per questo, di scegliere se essere figli o burattini. Lo facciamo? Se l'iniziazione non conduce sulla soglia di questa scelta, che poi si ripresenterà periodicamente nel corso della vita e si potrà affrontare sempre alla luce della prima (ri-)uscita, è perché vogliamo «servi» non «liberi». L'energia evolutiva va sprecata e i ragazzi consegnati al sentimento del nostro tempo: la paura. Chiuso in casa, quando era fatto per uscire. Ma forse proprio il «problema esistenziale» che gli abbiamo creato, lo costringerà a (ri-)uscire.

 

Alzogliocchiversoilcielo


 

martedì 16 aprile 2024

IL SENSO DEL LIMITE


 «Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

 -         di Emanuela Trotta

 

La vita degli esseri umani si dispiega nella consapevolezza di essere circoscritti da ogni parte da limiti e confini, ma anche dall’ostinata volontà di non accettazione delle restrizioni, che si traduce nel desiderio di superare ogni limite.

 Il concetto di limite è associato all’idea di ostacolo, come se le due parole fossero sinonimi. La cultura dominante trasforma tutti i limiti in illusioni: il limite è solo apparente, perché una volta superato svanisce. Il superamento costante dei limiti sta compromettendo la vita stessa dell’uomo. La cultura occidentale del progresso ha costruito la società dell’abbondanza, non ci sono limiti al consumo e al flusso di desideri, continuamente indotti, perché funzionali al mantenimento del nostro sistema economico, dove è l’eccesso che diventa un valore perché agevola il superamento dei limiti, favorendo la loro trasformazione in illusione.

 Sproniamo noi stessi e i nostri figli a essere forti, a fare del loro meglio per essere vincenti. Oltre a generare sofferenze e disagi il superamento dei limiti mette in evidenza l’esistenza stessa dei limiti. Anche le concezioni di spazio e tempo sono influenzate dall’illimitatezza. Il tempo è visto come qualcosa da riempire, più attività e impegni si riescono a mettere in agenda e più si raggiunge la pienezza della nostra vita, mentre la noia è concepita come perdita di tempo, diventa inutile e da evitare. Per questo motivo la ricerca ossessiva di impegni e l’iperattività sono tra i fenomeni più diffusi.

 Considerando il significato etimologico, il concetto di limite deriva da due differenti sostantivi latini, limes e limen. Il primo assume un’accezione negativa di confine, che costituisce per l’uomo una barriera invalicabile, il secondo ha il valore di soglia ed è per l’uomo passaggio, apertura.

 Il limite che definisce diventa prigione del pensiero, quando è rigido e non permette di guardare oltre, mentre la soglia è luogo della promessa e della speranza. A differenza del confine che può essere inteso come una linea statica, la soglia evoca sempre un passaggio, è il luogo dell’attesa, ma anche passo, valico.

 L’uomo contemporaneo si mostra smarrito, incapace di autonomia e di visione critica. La sua capacità di reagire si rivela fragile, incapace di definire sé stesso e il suo rapporto con l’altro. L’incomunicabilità lo isola, lo rende ancora più solo. La cultura moderna aveva sacralizzato l’uomo liberandolo da tutti gli ostacoli che gli impedivano di essere pienamente sé stesso, ma ora ci accorgiamo come una tale sacralizzazione abbia di fatto prodotto nell’uomo l’annichilimento, il narcisistico ripiegamento in sé, la dolorosa incapacità di cogliere la complessità insita nella sua stessa esistenza. La sua singola individualità stenta a diventare persona. Ciò che caratterizza il disagio dell’uomo moderno sembra essere l’indicibilità della sua sofferenza, fatta di angoscia, di dolori, di frustrazioni e di vuoto. L’esperienza soggettiva della sofferenza può esser vissuta come indicibile e può diventare indecifrabile, quando non c’è nessuno che ascolta veramente quell’urlo o quel silenzio che strazia, che lacera e non concede sosta.

 Non è una sensazione piacevole sentirsi bloccati, frenati e rendersi conto che non si riesce ad andare oltre. Quotidianamente veniamo a contatto con i nostri limiti. Già fin da piccoli si sperimenta il limite, i bambini vengono al mondo senza conoscere nient’altro che la propria volontà e, i genitori, per proteggerli pongono delle regole e danno dei confini con i quali rapportarsi al mondo esterno, nel rispetto nostro e degli altri.

 Fare i conti con le limitazioni fa parte della nostra natura umana, alla quale facciamo fatica a adattarci. Il limite passa attraverso l’esperienza, è attraverso di essa che conosciamo il mondo e noi stessi. Il nostro limite è la paura, che si manifesta per la poca fiducia che abbiamo nelle nostre capacità. Sperimentare i nostri limiti ci porta a ridimensionare i nostri obiettivi.

 Dalla cultura della perfezione all’esperienza di limite come risorsa.

 Uno dei concetti di fondo che caratterizzano la nostra cultura è il concetto di perfezione. Le possibilità che la scienza e la tecnica offrono hanno creato una sorta di delirio di onnipotenza. La mentalità materialistica prevede che ogni desiderio possa essere realizzato. In questo clima di efficientismo esasperato la vita si trasforma in competizione continua. Con il mito della perfezione l’uomo ha perso il senso del limite. Il modello di uomo da raggiungere è quello che va oltre i propri limiti, ma senza rendersi conto che oltre il limite non c’è perfezione, ma la disumanizzazione. Focalizzare l’attenzione sulla performance e l’eccellenza porta a sentire di non essere mai abbastanza rispetto alle aspettative e alla convinzione di una presunta inadeguatezza personale.

 Ogni fallimento, ogni errore mette tutti in crisi. La ricerca della perfezione impone delle regole che spesso distruggono ciò che si è, in vista di un irraggiungibile dover essere, tutto viene ridotto a competizione. La ricerca della perfezione disorienta l’uomo tanto da rendere insopportabile la sua esistenza. Chi tende alla perfezione finisce per vivere con le immagini di una realtà falsa.

 La ricerca della perfezione è fuga dalle proprie radici, fuga dal quotidiano. La cultura dell’efficienza diventa il centro di tutto, di un io che si gioca tutto pur di arrivare. Quando l’io vede nell’altro un impedimento alla realizzazione del suo progetto, allora o lo tollera o lo elimina.

 La filosofia si chiede quali siano le cause che hanno portato l’umanità sull’orlo del baratro. Secondo Heidegger è l’essere per la morte che ci umanizza e ci fa prendere coscienza dei nostri limiti. Il vivere- per-la-morte porta inevitabilmente all’esistenza autentica. L’intento di Heidegger è quello di educare alla morte e di insegnare ad accettarla. Morire significa essere consapevoli della propria finitezza e farsene carico senza fuggire. Il pensiero della morte mette in ginocchio il delirio di onnipotenza, ci rende meno arroganti, cambia radicalmente il nostro modo di valutare le cose, ci aiuta a distinguere ciò che è importante nella vita. Si passa così ad un sistema mentale che considera l’errore, l’insuccesso, il limite, come nemico della vita, ad una cultura che considera il limite come una realtà che non si può evitare.

 Nel senso fisico la parola limite indica confine, nel senso esistenziale è qualcosa d’imperfetto, nel senso ontologico, il limite fa parte dell’essenza stessa dell’essere dell’uomo. Non è possibile fare qualcosa che non sia segnato dal limite.

 Il limite non è solo privazione, non si può pensare ad esso solo come mancanza.

 Essere limitati non è essere privi di qualcosa che era dovuto, ma essere ciò che naturalmente si è. Dare valore al limite vuol dire valorizzare la natura umana così com’è. L’imperfezione è qualcosa d’intrinseco alla vita. Bisogna imparare a vedersi non come esseri che sbagliano e falliscono, ma come esseri che proprio a partire dall’accettazione di ciò che si è, si cominciano ad aprirsi alla vita, che si affronta, traendo vantaggi nonostante gli errori. Anzi è proprio attraverso l’errore che possiamo sperimentare la vita in tutta la sua intensità. L’errore ci rende compatibili con l’umano. Il limite ci allena all’uso realistico di ciò che è fragile e imperfetto.

 Non si può crescere come persone se si rifiuta il proprio limite, perché si rifiuta quello che si è.

Bisogna prendere coscienza che l’umanità dell’uomo non comincia con la ricerca della perfezione, ma dall’incontro con la propria impotenza. Quindi il limite è ciò che aiuta a capire l’uomo nella sua profondità. L’uomo incontra il limite, ma l’incontro non porta necessariamente alla sua accettazione

 Il limite come apertura alla relazione.

 La coscienza di essere limitati fa vivere in una condizione di povertà, ed è proprio in questa condizione che l’uomo ritrova la sua ricchezza. Il limite è la radice di un’immensa apertura. L’uomo sente il bisogno di superare il suo limite nella relazione, nell’incontro, nella comunicazione. Una relazione intesa non più come luogo di dominio, di possesso, ma come esperienza del proprio autolimitarsi per fare spazio all’alterità dell’altro. La coscienza del limite mi spinge ad uscire da me stesso e trasformare la paura in dialogo. Il limite dà spazio ad un nuovo modo di relazionarsi con sé stessi e con gli altri.

 Tracciare il limite non è l’accettazione di una sconfitta, bensì è stabilire il proprio territorio, comprendere chi siamo. Saper mettere dei confini su chi siamo e su cosa sappiamo fare non significa imporci delle barriere, ma incrementare consapevolezza per affrontare le proprie sfide e un eventuale fallimento non andrà ad avere ripercussioni sulla propria fiducia in noi stessi.

 Bisogna creare un equilibrio tra l’accettare ciò che non può essere cambiato e l’essere attivi rispetto alle proprie possibilità.

 La mancata tolleranza dei limiti può generare un continuo inseguimento di desideri poco raggiungibili o il darsi standard non troppo elevati. Il risultato di questi atteggiamenti va a ripercuotersi sulla propria autostima e porta a sentirsi continuamente inadeguati. Al contrario le persone consapevoli di sé stesse sono capaci di venire a contatto con tutte le parti di sé.

 È sbagliato pensare che chi ha stima di sé abbia una percezione di sé solo al positivo, in realtà è anche consapevole di tutti quegli aspetti di sé più disfunzionali. L’accettazione del limite è manifestazione di una grande forza e dignità, capaci di porre oltre il limite chi è da esso schiacciato. Il coraggio di esporsi alla sconfitta e la determinazione di accettare il limite si delineano come atteggiamenti che fondano la salute mentale di un individuo, mentre il controllo ossessivo sulla realtà e la sua spasmodica ricerca di sicurezza impediscono all’uomo di concepire la vita come adattamento creativo. Nel fallimento l’individuo è sfidato dalla realtà, è pronto a trascendersi. Posto di fronte al suo destino, l’uomo ha sempre qualcosa in suo potere, ha la possibilità di sperimentare scelte inedite, di attivare potenzialità sopite.

 I limiti biologici imposti all’uomo dalla natura costituiscono uno stimolo per l’invenzione, per il progresso culturale. La cultura rappresenta il potere umano di trascendere il limite. Assumere il limite insito nella difficoltà relazionale e riconoscere l’altro ed essere da lui riconosciuto, significa sostenere l’altrui identità ed alimentare la propria, equivale a rendere possibile la reciprocità relazionale, e costruire la forma più sana di interazione umana. L’uomo riveste di senso la propria identità nella misura in cui fa dono di sé all’altro, è una reciprocità gratuita, che non attende restituzione o ricompensa, che accoglie per intero la fragilità della relazione e la debolezza dei suoi protagonisti. Il dono di sé è reso possibile non solo dalla diversità dell’altro, ma anche dal suo limite, dal suo bisogno, dalla sua mancanza. Non potrebbe esserci dono se non in risposta ad una qualche finitezza che l’altro presenta. Il limite, allora, non solo rende possibile il dono, ma diventa anche un aspetto indispensabile del reciproco relazionarsi.

 In molteplici modi abbiamo bisogno l’uno dell’altro, abbiamo bisogno di qualcosa che non possediamo, questo qualcosa ci rimanda alla nostra finitezza, è il marchio inequivocabile della nostra reciproca dipendenza. Il dono non va considerato come una sottrazione, né come diminuzione di sé, ma al contrario come l’esperienza del pieno possesso di sé. Ognuno, infatti, non può donare ciò che non possiede, quindi nel dono, paradossalmente, sperimento il possesso di me, di ciò che sono, delle risorse e delle capacità che di me fanno parte e che mi costituiscono nella mia singolare individualità. Il donare all’altro svela me a me stesso, permette di conoscermi, di trasformare in realtà tangibile ciò che solo potenzialmente era racchiuso in me.

  È il rapporto con l’altro che fonda e dà senso all’identità di ogni individuo.

 Accettare il limite

 Considerare il prendersi cura degli altri come donarsi totalmente è rischioso. Si finisce per negare le nostre esigenze e pensiamo che l’abnegazione, la rinuncia, il sacrificio siano il vero segreto. Con questo desiderio di perfezione e onnipotenza ci muoviamo nelle quotidiane relazioni di cura, scontrandoci col rifiuto, affrontando le prove e i fallimenti. Ci accorgiamo, così, del limite, viviamo il senso di colpa, ci sentiamo impotenti, sconfitti, persi. Ne consegue un senso di impotenza che porta alla resa, alla rinuncia. Muovendosi nell’aspirazione di riuscire in tutto di fronte all’esperienza del limite si percepiscono le incrinature del proprio operato e si tende a ripiegarsi su di sé, a chiudersi, contribuendo ad incrementare la distanza dall’ideale della perfezione, dall’immagine positiva di sé. È dal tentativo di nascondere il limite che si sviluppa il senso di inadeguatezza e di frustrazione per quanto non si riesce a fare o ad essere.

 Il limite è una linea che divide, ma è anche punto estremo a cui può arrivare qualcosa, termine che non si può superare. Il limite non si prefigura soltanto come qualcosa che crea divisioni, che allontana, ma anche frontiera, cioè segno di attraversamento. Esso non segna solo ciò che non si può raggiungere, ma anche ciò a cui si può approdare: nel definire crea spazi di possibilità. Uno stile di vita proteso all’infinito vive il limite come paura e impedimento. Guardando le capacità degli altri e le competenze mancanti le si desidererà con ansia, sforzandosi sempre di essere diversi, alimentando inutili forme di conflittualità. Il limite potrà, invece, essere visto come risorsa e opportunità di crescita se alla lungimiranza di vedere oltre, si affiancherà l’attenzione alla propria presenza, a ciò che effettivamente si è. Se pensiamo che ad ogni imperfezione corrisponda una riduzione di valore personale, saremo costretti a subirne il peso e la sofferenza che queste esperienze portano con sé.

 Il limite è connaturato con la persona, la abita da sempre. L’uomo che va verso il suo limite va verso la sua umanità. Il limite e la debolezza non sminuiscono il valore della relazione di cura, ma anzi la rendono più vera, più umana. Se impariamo a pensare agli aspetti di fragilità come cifra più autentica del nostro essere uomini, potremmo davvero prenderci cura degli altri. Affinché il miglioramento avvenga, occorre riconoscere le dimensioni difficili e attraversarle, con la fatica e la bellezza propria di ogni passaggio.

 La consapevolezza del limite offre la possibilità di ridimensionare l’idea di infallibilità e onnipotenza.

 L’esperienza del limite

L’esperienza del limite si accompagna al vissuto della perdita, della precarietà e della piccolezza. Il limite può identificarsi con un vuoto, una situazione di assenza di solidi punti di riferimento, di legami e di valori.

  Il limite non è solo quello che la realtà ci impone dall’esterno, ma è quello che dobbiamo porci nella ricerca di un equilibrio tra l’agire con coscienza e la pretesa di modificare le situazioni. Riconoscere il limite significa valutare fin dove possiamo spingerci, qual è il massimo che possiamo dare senza eccedere. Questo ci spinge ad essere più indulgenti verso i nostri errori, a vivere i fallimenti senza cadere nell’ansia del perfezionismo, imparando a rialzarsi e riprendere il cammino.

 Le situazioni difficili hanno in comune il dubbio, l’inquietudine, dove sembra che nulla accada, non offrono un punto fermo, un sostegno che dia fermezza. Il limite svolge la sua funzione di essere un rinvio alla trascendenza. Restare in ascolto dei propri limiti significa accettare la distanza, come spazio di riflessività. Il limite si trasforma in margine quando lascia intravedere possibilità di azione. Accogliere il limite è sapere di percorrere confini incerti, ma nutrire il desiderio della ricerca e la fiducia nel cambiamento.

 Coltivare l’attesa

 In un mondo che esalta la velocità pensare il limite vuol dire affermare atteggiamenti inconsueti quali l’attesa e la pazienza. L’attesa ci aiuta a combattere l’ansia dei risultati, la preoccupazione di giungere alla meta.

  Abituati a tacere il limite viviamo la difficoltà di ammettere errori e fragilità, per paura del giudizio, per timore di perdere valore e dignità. Occorre, invece, tornare a condividere le situazioni di limite, aprirsi al dialogo. L’indicibile di fronte a cui il limite ci pone bisogna accoglierlo, è necessario far diventare racconto quelle situazioni in cui le fragilità attendono di essere districate, promuovendo un ascolto non giudicante, occorre non temere il limite, ma individuarlo, nominarlo e attraversarlo nella certezza di non essere soli.

 Mai come nella presente fase storica l’uomo ha accarezzato il mito dell’onnipotenza, la convinzione di essere padrone della propria storia, di essere in grado di autodeterminarsi e di poter spostare sempre un po’ più in là la soglia della propria finitudine. Eppure, è proprio il senso del limite che ci restituisce la nostra umanità.

 La questione del limite ci richiama ad un principio di realtà: la consapevolezza che ci sono eventi che sfuggono al nostro controllo, mancanze con cui dobbiamo imparare a convivere. È nel percepirci come esseri finiti e limitati che riusciamo a valorizzare appieno il tempo che ci è dato di vivere, a comprendere tutto ciò, che nella nostra quotidianità rimanda alla dimensione della fallibilità.

 Affinché la consapevolezza della nostra fragilità non si trasformi in un alibi a rinunciare in partenza ad ogni sforzo, è però, indispensabile ricordare che, come esseri umani, siamo costantemente in bilico tra finitudine e trascendenza. La mancanza è una condizione che, se accettata, apre all’ “oltre”, alla trascendenza.

 Se il limite, di cui siamo rivestiti, non è accettato, l’esistenza può trasformarsi in una finzione e divenire il tentativo di svincolarsi dai limiti senza mai riuscirvi, di negare la propria pochezza. L’essere umano tende a raggiungere cose sempre più grandi di quelle che ha, che di per sé non è un male, lo diviene se egli rifiuta la sua debolezza e intende gli obiettivi come dei diritti arrivando a pretendere di raggiungerli, invece che perseguirli con umiltà. L’umiltà è l’atteggiamento interiore che consente di valorizzare il limite, rendendolo un motivo di crescita e non di rammarico; è la virtù che permette di accettare la propria condizione senza desiderarne un’altra.

 Il limite è nell’uomo un fattore propulsivo, in quanto genera il desiderio, che è il motore della volontà. Se l’uomo possedesse tutto, non cercherebbe nulla, la percezione del limite è fonte di nuove scoperte, perché suscita nell’uomo il desiderio di conoscere e di cercare. Il limite non è sempre sinonimo di imperfezione, ma è la radice stessa dell’apertura dell’uomo, è una scuola capace di insegnare quale sia il segreto della vita.

 Chi è appagato non cerca, né lo fa chi è disperato. Cerca invece chi è povero, e ne fa motivo di crescita. Se accettata, la coscienza del limite, si trasforma in desiderio di aprirsi agli altri. L’antropologia del limite però non può risolversi in uno sterile elogio del limite, né dell’imperfezione in sé stessa. Ciò che va elogiato è l’essere umano e la sua umanità, intesa come qualità essenziale.

 Il limite non deve diventare una sorta di ideologia da contrapporre al perfezionismo, anzi, deve apparire come il punto di partenza per un’esistenza sempre più umana, dove l’accettarsi e l’accettare dà spazio ad un nuovo modo di relazionarsi con sé stessi e con gli altri.

 Accettare il proprio limite vuol dire aprirsi ad un cammino personale di libertà attraverso un nuovo modo di sentire, di pensare e di agire. Lo sviluppo è una capacità aperta alla crescita che non nega né esclude i limiti reali della persona.

  Se si vuole ancora pensare ad un futuro dell’umanità si può pensarlo solo nell’ottica del limite.

 

Bibliografia

Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000.

Z. Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999.

R. Bodei, Limite, Il Mulino, Bologna, 2014.

E. Borgna, La fragilità che è in noi, Collana Vele, Einaudi, Torino, 2014.

E. Fromm, Fuga dalla libertà, Edizioni di Comunità, Milano, 1963.

Galimberti Umberto, Vizi capitali e nuovi vizi, Feltrinelli, 2003.

Gentile, Filosofia del limite, Editore, Soveria Mannelli 2012.

Heidegger Martin, Essere e Tempo, Milano, Longanesi, 1985.

Lèvinas E. Il Pensiero dell’altro. Roma: Lavoro. (1999).

Lèvinas Totalità e infinito, Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaka Book 1996

Filosofia e nuovi sentieri

venerdì 23 giugno 2023

DISAGIO GIOVANILE


 I DIVERSI VOLTI


- di Massimo Recalcati

 

Il disagio del mondo giovanile sembra aver assunto dimensioni preoccupanti. La sua fenomenologia è variegata, ma se dovessimo provare a trovare in essa dei denominatori comuni potremmo isolarne almeno due. Il primo è quello della spinta neo-libertina a godere senza limiti, a fare del godimento la sola forma possibile della Legge. Questa spinta può assumere le forme della festinazione permanente, dell’apatia frivola, dell’assenza di responsabilità, dell’abuso di sostanze, del consumo compulsivo, dell’indolenza, del rigetto della prova e della fatica. Si tratta di una forma di disagio che da tempo permea il mondo giovanile e che collude con l’affermazione di quella che Pasolini definiva “la società dei consumi”. Il secondo denominatore comune è invece di tipo neomelanconico e consiste nella tendenza a sottrarsi alla vita, a chiudersi, a ripiegarsi su se stessi. Il trauma della pandemia ha esasperato in particolare questa seconda declinazione del disagio giovanile. Se nella prima forma prevale l’estroversione, in questa seconda prevale l’introversione.

Non si tratta però solamente di una tendenza genericamente depressiva, ma di una inclinazione securitaria: il mondo è percepito come una fonte minacciosa di stimoli, come luogo di perturbazioni angoscianti, come un urto dal quale proteggersi. È uno dei paradossi più significativi del nostro tempo: la cultura neo-libertina del godimento immediato e del rigetto del senso della Legge nasconde nelle sue pieghe una tristezza di fondo, una profonda angoscia nei confronti dell’ignoto, un sentimento di precarietà che coinvolge tutta l’esistenza. È la piaga segreta che intacca l’euforia neo-libertina: la vita come gara di tutti contro tutti, come spinta compulsiva a consumare ogni cosa non genera affatto soddisfazione, non favorisce la creazione di legami sociali generativi, ma produce caduta del senso, paura e difesa dalla vita, ritiro sociale, confinamento, isolamento.

Tagliarsi fuori dal circuito maniacale dell’iperattività produttiva o edonistica del discorso sociale dominante, è un gesto disperato di rifiuto ma è anche un gesto che prova a creare un rifugio.

Barricarsi in casa, non uscire più, sembra per un giovane un destino beffardo in un tempo che invece esige il divertimento come obbligo e il culto della performance ad ogni costo.

Queste due forme del disagio riflettono una tendenza più generale della civiltà contemporanea: la spinta a godere sino alla dissipazione della vita e quella a rifiutare la vita isolandosi in una nicchia protetta. Sono la versione hard e cool del disagio della giovinezza ipermoderna. Ma quello che viene meno in entrambe queste posizioni è l’istanza del desiderio.

Nell’oscillazione neo-libertina essa si trova inabissata in un godimento illimitato che ne sopprime la spinta generativa. Il desiderio si affloscia in una vita troppo piena di oggetti per essere desiderante.

Nell’oscillazione neo-melanconica essa sembra invece più semplicemente spegnersi, disattivarsi, non esistere più. Anziché vivere pienamente la vita, si preferisce chiudere i ponti con la vita, creare sistemi di difesa, isolarsi appunto, separarsi dal mondo. L’indebolimento del desiderio è il vero tema che attraversa il disagio giovanile contemporaneo: la fatica di desiderare, l’eclissi, la scomparsa del desiderio come forza generativa. Cosa fare allora? Come uscirne?

Evocare il padre col bastone, rimpiangere la sua vecchia autorità simbolica? Restaurare l’ordine della famiglia tradizionale, rafforzare gli strumenti di controllo o di repressione? Condannare le cattive pratiche e i comportamenti irresponsabili? Bisognerebbe sempre ricordare che il disagio giovanile non coincide con il mondo giovanile. Per evitare la sua estensione bisognerebbe innanzitutto avere fiducia nei giovani e nella loro audacia.

Includerli il più possibile nella vita civile e sociale. Potenziare la Scuola e i luoghi di formazione, credere nelle loro capacità, offrire occasioni di lavoro, di espressione, di parola. Insomma, il contributo delle vecchie generazioni non può limitarsi a segnalare il disagio giovanile delegando agli psicologi la sua cura, ma deve aprire le porte, coltivare i talenti, trasmettere la potenza vitale del desiderio, favorire gli spazi anche pubblici, collettivi, della sua esistenza. Non si tratta tanto di sorvegliare e di punire, ma di scommettere davvero sulle nuove generazioni. L’esistenza dei figli dovrebbe costringerci a decentrarci da noi stessi, a pensare che il tempo ha una profondità che non coincide con la nostra vita, che i nostri figli ci sopravviveranno. Dovrebbe ricordarci che il compito delle vecchie generazioni non è quello di ostacolare le nuove ma quello di favorire la loro crescita.

Facile a dire, ovviamente, difficile assai da praticare perché implica il dono del nostro arretramento, del nostro tramonto.

 

Da Repubblica



lunedì 16 maggio 2022

COCAWEB - UNA GENERAZIONE DA SALVARE

UNA VITA TRASCORSA TRA SOCIAL, VIDEO, CHAT E VIDEOGIOCHI FA BENE AL CERVELLO E ALLA CRESCITA?

UNA RECENTE INDAGINE EVIDENZIA NUMEROSI PROBLEMI.

 Per la prima volta nella storia dell’umanità, le nuove generazioni mostrano un quoziente di intelligenza inferiore a quello delle generazioni che le hanno precedute. 

Calano le facoltà mentali dei più giovani, aumenta il loro disagio psicologico. Ansia, stress, depressione, disturbi alimentari, autolesionismo, aggressività…

I dati fanno paura e sono in crescita costante. È l’effetto di una vita trascorsa usando social, video, chat e videogiochi. Un uso che, stimolando il cervello a rilasciare il neurotrasmettitore della sensazione del piacere, non può che degenerare in abuso.

 Il Web come la cocaina, appunto. Non lo dicono le vecchie zie, lo dicono gli esperti ascoltati dalla commissione Istruzione del Senato nell’ambito di un’indagine conoscitiva sul rapporto tra la tecnologia digitale e gli studenti. Forti dei propri studi e della propria esperienza diretta, psicologi, neurologi, psicoterapeuti, pedagogisti, sociologi, grafologi, linguisti ed esponenti delle forze dell’ordine hanno composto un puzzle allarmante: l’immagine di una generazione perduta. Sta a noi salvarla.

 Una relazione redatta utilizzando gli atti raccolti in questo volumetto è stata votata all’unanimità dalla VII Commissione del Senato. È un inizio, ma è anche un monito.

Che nessuno possa dire, un giorno: «Io non sapevo». Con testi di Manfred Spitzer, Lamberto Maffei, Alessandra Venturelli, Raffaele Mantegazza, Mariangela Treglia, Pier Cesare Rivoltella, Andrea Marino, Angela Biscaldi, Paolo Moderato, Annunziata Ciardi.

 - Andrea Cangini, CocaWeb. Una generazione da salvare Minerva Edizioni - 2022

sabato 11 gennaio 2020

SCUOLA, LUOGO DEL SENSO CRITICO, NON SOLO PREPARAZIONE AL LAVORO


SCUOLA. Lo scrittore spiega perché in questo tempo di workaholic l'insegnamento finisce sempre ultimo.

di Matteo Nucci

Scuola: sostantivo femminile derivato dal greco scholè, tempo libero.
Da Platone a Aristotele, i greci antichi esaltarono con costanza e fermezza la scholè. Solo nel tempo libero dalle necessità materiali, ovvero dagli impegni decisivi a procacciarsi di che vivere, è possibile occuparsi della propria anima, costruire la propria personalità, ragionare, imparare, crescere.
Opposto al tempo libero della scholè stava dunque il lavoro, considerato come una semplice mancanza. E per questo definito per mezzo di quella lettera con cui la lingua greca nega ciò che segue: l’alfa privativa. L’a-scholìa era il tempo necessario a produrre, il tempo del lavoro attraverso cui ci guadagniamo il pane. Un tempo che si deve limitare il più possibile perché ciò che importa nelle nostre esistenze è il tempo che ci è dato da vivere e di quel tempo solo il minimo indispensabile deve essere impiegato per lavorare, produrre, far soldi.

Nella quiete della scholè, gli esseri umani sviluppano ciò che è più importante: il senso critico. Nel tempo libero, essi possono chiedersi se esista un altro modo per fare ciò che fanno quotidianamente, se sia giusto quel che hanno imparato, se forse un’altra strada sia possibile.
Interrogarsi, criticare. Perché la crisi è ciò che conta. Ossia, la krisis, la scelta, la decisione, il bivio che ci consente di cambiare strada.
La scuola, dunque, è quel luogo fisico e ideale dove ci dedichiamo a noi stessi per crescere e ragionare fuori da qualsiasi necessità materiale. 
La scuola è il luogo del ragazzo che non lavora. La scuola è lo spazio mentale dell’adulto che continua a chiedersi perché.
In un tempo dominato dallo spirito protestante del lavoro, del denaro e della produzione a ogni costo, un tempo in cui si è addirittura drogati di lavoro (workaholic) e incapaci di vivere il tempo libero, è facile capire perché la scuola venga sempre per ultima e semmai la si consideri come un semplice momento di preparazione al lavoro.
Ma nessun cambiamento è possibile senza quello che è sempre stato il cuore della nostra civiltà: il senso critico. Ripartire dalla scuola significa questo.